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Il dialetto sicilino

IL DIALETTO SICILIANO

 

  1. Il siciliano è un dialetto o una lingua?

La definizione di dialetto è a tutt’oggi controversa. Sicuramente poggia sul concetto relazionale di opposizione e complementarità al concetto di lingua rispetto alla quale si pone come varietà (diastratica, diafasica, diamesica): in una comunità totalmente monolingue non sarebbe dato, infatti, parlare di dialetti. Nel repertorio dell’italiano i dialetti come codici sono un continuum e godono di buona salute, tutelati dai vari meccanismi di code switching. Ciò vale dunque anche per il siciliano, rispetto al quale, però, più che di dialetto sarebbe corretto parlare di un diasistema composto da molteplici e differenti sub-varietà locali. La Sicilia, infatti, è stata da sempre esposta agli influssi e alle presenze più disparati e ciò ha avuto inevitabilmente i suoi effetti anche sulla lingua.

 

  1. Vicende storiche e linguistiche

La storia linguistica della Sicilia è strettamente legata alla sua storia politica e sociale ed è la risultante del sovrapporsi di molteplici sostrati (greco, latino, bizantino, arabo, normanno, catalano, francese, spagnolo, e persino americano).

La carta etnica della Sicilia prima della colonizzazione greca (VIII a.C.) può essere così schematizzata:

 

POPOLAZION ORIGINE AREA DI INSEDIAMENTO
Sicani Autoctoni Sicilia centrale
Siculi Penisola (fine II millennio) Sicilia orientale
Elimi Origine incerta (orientale?) Sicilia nord-occidentale
Fenici (Punici) Mediterraneo sud-orientale
(X-VIII secolo a. C.)

 

Sicilia occidentale

 

Attribuire tracce di questi antichi linguaggi all’attuale dialetto siciliano non è semplice. Tra le varie ipotesi, alcuni toponimi (Hykkara o Zancle, antico nome di Messina che in siculo significherebbe “falce), o ancora parole come timpa o timpuni “roccia scoscesa”, carrancu “burrone”, lavanca “frana”.

I greci arrivarono in Sicilia verso il 750 a.C. L’ellenizzazione della Sicilia comportò una profonda penetrazione del greco, in particolare nell’area nord-orientale dove il greco rimase vitale fino al periodo medievale, grazie alla nuova dominazione greco-bizantina (535-827 d. C.) che rafforzò la precedente base di greco arcaico e introdusse molte nuove parole.

I romani trovarono perciò una Sicilia profondamente ed estesamente ellenizzata. Il latino si impose pienamente soltanto in età augustea e nella prima età imperiale (I sec. d. C.).

Dalla prolungata fase di romanizzazione dell’isola dipendono in misura determinante le sorti linguistiche della Sicilia. Il siciliano contemporaneo è sicuramente un dialetto neolatino (o romanzo) con la presenza di elementi arcaici della prima romanizzazione (una II romanizzazione avverrà in epoca medeivale). Oltre che nella fonetica e nella morfologia, la permanenza del latino si rivela soprattutto nel lessico, con vocaboli come sartània “padella” (< sartaginem), ànchiu “ampio” (< amplum), cufularu “focolare” (< focularis) e nella toponomastica coi cosiddetti toponimi prediali formati col nome del proprietario del fondo e l’aggiunta del suffisso –anum (Cianciana, Favignana, Gagliano).

Con la successiva fase della dominazione bizantina, durata dal 535 al 827 salì, naturalmente, una nuova ondata di grecità. Come già detto l’influsso linguistico del greco-bizantino, oltre a rafforzare quanto sopravvissuto della prima ellenizzazione prelatina, recò un consistente apporto di nuove parole sconosciute nel resto dell’isola (crisulèu “rigogolo”, òzina “biscia d’acqua”, zìmmaru “maschio della capra”, ropa “querciola”, armacìa “muro a secco”, bisòlu “marciapiede, soglia”).

Gli arabi penetrarono in Sicilia nell’827 concentrandosi più fittamente nella parte centro-occidentale (Val di Mazara), meno in quella sud-orientale (Val di Noto), ancora meno in quella nord-orientale (Val Dèmone).

Oltre ai toponimi (ad esempio quelli con cala, calt < qal’a “castello, fortezza” –Caltagirone – o quelli derivati da gebel “monte” – Mongibello – da rahl “casale” – Ragalmuto, o da manzil “luogo di sosta” – Misilmeri) agli antroponimi (Vadalà < abd-allah “servo di Allah”, Garufi < qaruf “duro, crudele”, Morabito < murabit “eremita”), i vocaboli arabi passati al siciliano riguardano numerosi e significativi settori della vita di tutti i giorni: la terminologia dell’agricoltura e dell’irrigazione, la terminologia geografica, le unità di misura, gli utensili, i recipienti, la botanica, gli animali, l’alimentazione, assieme ad aggettivi, verbi, esclamazioni.

La dominazione normanna ebbe inizio nel 1061 e terminò nel 1250 con la morte di Federico II di Svevia. Normanni e Svevi convivevano in Sicilia con gli antichi abitatori greci e latini, e poi con Arabi di Sicilia (Mozarabi), Berberi, Ebrei, Turchi e italiani settentrionali (i Galloitalici) portati dagli Altavilla per ripopolare alcune zone della Sicilia centro-orientale.

Molte delle parole più moderne entrate in Sicilia durante la dominazione normanna, più che derivare da antichi francesismi, potrebbero esser state introdotte proprio per la filiera dei Galloitalici, le cui parlate erano molto affini a quelle degli antichi francesi (Galloromanzi).

La successiva penetrazione angioina può aver determinato, più che un accrescimento dei francesismi, un consolidamento di quelli già penetrati in Sicilia.

L’ennesima svolta politica (e linguistica) della Sicilia avvenne allorché, a seguito della rivoluzione del Vespro (1282), i nobili siciliani offrirono la corona a Pietro III d’Aragona. La Sicilia rimarrà sotto l’influenza iberica (aragonese, catalana, castigliana) sino al trattato di Utrecht e Rastadt del 1713-14, che assegnò la Sicilia ai Savoia.

Tuttavia, nonostante la lunga permanenza degli spagnoli nell’isola, l’apporto dello spagnolo si limita al lessico, con termini provenienti dal catalano e, in epoca più recente, dal castigliano.

Il plebiscito del 21 ottobre 1860 sancì l’annessione della Sicilia al regno d’Italia e ciò comportò il movimento, dal siciliano all’italiano, di grandi masse di abitatori delle città e delle campagne dell’isola.

Il grande movimento migratorio che si sviluppò agli inizi del XX secolo e che proseguì nei decenni successivi, in particolare a partire dal II dopoguerra, produsse nuovi contatti e dunque nuovi apporti al dialetto siciliano. In particolare ai contatti con gli Sati Uniti d’America dobbiamo alcune parole dialettali come accianza “occasione propizia” (chance), frenza “recinto di filo spinato” (fence), scichenzi “moine, complimenti” (shake hands).

 

  1. Dialetto siciliano o dialetti siciliani?

Come abbiamo avuto modo di osservare, la nozione di dialetto siciliano finisce col risultare astratta rispetto alla concretezza delle numerose parlate locali.

Sulla base delle differenze dialettali territoriali (riguardanti ora la fonetica, ora la morfologia, ora la sintassi, ora il lessico), sono state abbozzate alcune classificazioni, ossia delle vere e proprie partizioni della Sicilia linguistica. La classificazione a tutt’oggi attuale, per quanto essa risalga a circa cinquant’anni fa, è quella tracciata dal dialettologo siciliano Giorgio Piccitto, ed è fondata su criteri principalmente fonetici. Lo schema risulta il seguente:

 

Siciliano occidentale Palermitano
Trapanese
Agrigentino centro-occidentale
Siciliano centro-orientale Centrale Parlate delle Madonie
Nisseno-ennese
Agrigentino orientale
Orientale Parlate del sud-est
Parlate del nord-est
Catanese-siracusano
Messinese

 

La Sicilia ospita inoltre due isole linguistiche, dove comunità alloglotte lingue o dialetti di ceppo diverso rispetto a quelli della regione.

Si tratta rispettivamente della comunità alloglotta albanese (concentrata nei centri di Piana degli Albanesi, S. Cristina Gela, Contessa Entellina, di Palazzo Adriano e Mezzojuso, tutti in provincia di Palermo) e della comunità alloglotta galloitalica, le cui parlate più vitali sono oggi raggruppate nelle province di Messina (San Fratello, Acquedolci, Novara di Sicilia e Fondachelli Fantina) e di Enna (Piazza Armerina, Nicosia, Aidone e Sperlinga).