Versione :
Talianu

Su fizu 'e s'orcu

Personaggi

UNA DONNA
UN UOMO
L’ORCHESTRINA
CAMERAMAN

La scena rappresenta un nonluogo: “il tribunale celeste”. Potrebbe essere un grande sasso, oppure una nube bianca in un cielo turchese, un tavolo, un altare pagano, un libro enorme dalla spessa copertina di legno che qualcuno apre e la musica finisce.

1.
UN UOMO è da solo sulla scena ed espone le sue ragioni.

UN UOMO: Mi chiamo Mario Pistidda. La mia famiglia è originaria di Villanova A Valle, ma io sono nato qui. Ho frequentato fino alla quarta. Sono un cittadino esemplare. Alle prossime elezioni potrò votare per il nostro miglior cittadino candidato al parlamento. Mi conoscono tutti. Sono un uomo perbene.
Io non dovrei essere qui, adesso, ma a compiere il mio dovere, ed altri dovrebbero sedere su questo banco degli imputati. Io sono la vittima, e non chi mi accusa. E poi, chi è ad accusarmi? Chi? Nessuno! Una persona che non ha un lavoro, non ha una famiglia, non ha nessun titolo di studio, a stento sa leggere il proprio nome. Una persona che non è degna di stare in questa sala, che dovrebbe essere punita per il solo fatto di essere nata. Che non riesce a dire nient’altro che “Sissignore”, nella lingua del sommo poeta. «Nel mezzo del cammin di nostra vita…».

(Alza le mani e mostra le maniglie che lo incatenano. Su uno schema rockeggiante una voce tenorile potrebbe intonare un fraseggio preso da El Jorn del judici esasperandone il significato: «Al jorn del judici, parrà qui haurà fet servici, un rei vindrà…»).

Non sono pentito! Di che cosa dovrei essere pentito? Del fatto di essere stato tradito, ingannato, usato e insultato da una persona indegna? Io non ho fatto niente, io sono nel giusto, io sono un uomo d’onore…

(Riprende il coro: … un rei vindrà perpetual, vestit de nostra carn mortal…).

Io non chiedo perdono, ma giustizia. Chi ha sbagliato paghi ed espii la sua colpa. Non io, non io, ma lei, lei sola è colpevole. E Dio mi è testimone. Io sono nel giusto, io sono un uomo giusto.

(Riprende il canto: «… per fer del segle jutjament…»).

Io non capisco, nessun testimone ha parlato contro di me; perché ho ancora le catene ai polsi quando io, io dovrei essere l’accusatore?, perché io sono la vittima. Io sono la vittima; ma Iddio non permetterà una simile ingiustizia: un angelo verrà a liberarmi e spezzerà queste catene con una spada fiammeggiante; perché io sono innocente. Perché non la conducete in mia presenza, quella povera matta, quella puttana bugiarda?
Lo so io il perché; perché anche voi vi siete fatti incantare dal suo aspetto, dal suo viso dolce e bello, ma dentro è una serpe, una bugiarda, una figlia del diavolo.
Questi sono i fatti…

(Adesso, le stesse frasi potrebbero essere cantate a flamenco con tanto di ritmo sostenuto dal battito delle mani: «Al jorn del judici, parrà qui haurà fet servici, un rei vindrà perpetual, vestit de nostra carn mortal, per fer del segle jutjament…»).

2.
L’ORCHESTRINA (li immagino come una sorta di bersaglieri) entra di corsa a interrompere il quadro (potrebbero essere un massimo di quattro e tutti dovrebbero suonare il tamburino mentre, a tracolla, lasciano penzolare gli strumenti che effettivamente suoneranno). UN UOMO viene spintonato e li minaccia mostrando i pugni incatenati mentre scendono dal palco.
Sempre di corsa L’ORCHESTRINA corre tra la folla fino a raggiungere UNA DONNA. Da quel momento i volti della folla frammisti a quelli degli attori appaiono in diretta su uno schermo sul palco (questo accadrà tutte le volte che l’azione si svolgerà giù dal palco), un CAMERAMAN, infatti, seguirà le azioni teatrali a terra.
L’ORCHESTRINA obbliga UNA DONNA a camminarle al centro. Con gesti e con fraseggi musicali la deridono. UNA DONNA tiene il capo chino e cerca di coprirsi, ma CAMERAMAN viola la sua intimità ingigantendo sullo schermo ogni dettaglio del suo volto.
Salgono sul palco e la musica è festosa.

UNA DONNA tocca le catene di UN UOMO, che le rompe facilmente e, allegrissmo, corre giù dal palco e stringe le mani di chi gli è più vicino. L’immagine sullo schermo si sofferma su quella stretta di mano che UN UOMO tratterrà più a lungo, poi l’immagine sullo schermo andrà via per lasciare una nebbiolina che sparirà nel giro di qualche secondo.
UNA DONNA guadagna il centro della scena e L’ORCHESTRINA le si schiera dietro rullando i tamburi. Poi silenzio.

UNA DONNA (cantando a cappella):
O mare nero mare nero mare ne’
Tu eri chiaro e trasparente come me.
E la cantina buia dove noi
Respiravamo piano
Le bionde trecce gli occhi azzurri e poi
Le tue calzette rosse, le tue calzette rosse,
le mie calzette rosse
rosse…
rosse…

L’ORCHESTRINA interrompe il canto di UNA DONNA intonando il tema centrale di The first cut is the deepest di Cat Stevens con il flauto come strumento principale, e, sostenendo il fraseggio, esce di scena.
UNA DONNA va verso il sasso/altare/libro e, chinandosi, prende un fagotto. È un neonato che lo sostiene con molta cura e amorevolezza. Canta una ninna nanna.

UNA DONNA (cantando):
Babbu tou est un orcu
Chi si pappat a tottu
Isse si pappat a mimme
Isse si pappat a mimme

Babbu tou est un orcu
Malu comente fogu
Si non si pappat a tie
Si non si pappat a tie

Fizu meu l’as morrer
Babbu tou s’orcu malu
Chi si pappet a isse
Chi si pappet a isse

Babbu malu s’orcu tou
Babbu s’orcu tou malu
S’orcu malu babbu tou
S’orcu tou malu babbu

(Con il fagotto tenuto amorevolmente tra le braccia UNA DONNA raggiunge il centro della scena poi, come se volesse dare al cielo il suo bambino, lancia in aria il fagotto e scopriamo che il telo era vuoto, che non è nient’altro che uno scialle che lei mette con cura sulla testa fino a chiuderlo alla moda delle donne sarde di paese, appena sotto le labbra.)

È vero, ha ragione lui, il padre di mio figlio, io non so parlare in italiano, non sono mai andata a scuola e nemmeno potrò mai votare per il parlamento degli uomini italiani, perché sono una donna, e le donne non hanno diritti, e questa con cui parlo non è la mia voce, ma quella presa a prestito a un’attrice che ha fatto decine di corsi di dizione, e sa distinguere le è dalle è, le ò dalle ó, che sa pronunciare zucchero e zio senza ridere, senza sentirsi ridicola.
Io sono un’altra, io sono quella che lui ha preso un pomeriggio alleandosi con la mamma del sole.

Alle sue spalle entra UN UOMO tenendo a braccetto il fantoccio di UNA DONNA. Le sussurra qualcosa alle orecchie e ride sguaiatamente.

UNA DONNA: Mi ha presa con la forza, mi ha strappato la veste, mi ha battuta, mi ha chiuso la bocca con una manciata di terra e mi ha lasciata sulla roccia convinto di avere goduto della donna e di avere ucciso la serva.

UN UOMO ha messo il fantoccio di UNA DONNA sull’altare e le sale addosso, le tiene le braccia a terra come se volesse praticarle la respirazione bocca a bocca, comunque non è chiaro che le stia facendo del male.

UNA DONNA: Ma io non ero morta. Un carrettiere, disubbidendo alla moglie che gli gridava di non prendersi cura di una disgraziata puttana, mi portò all’ospedale e lì, un medico continentale mi curò, e chiamò i carabinieri, e sporse denuncia per me. E io dissi il suo nome: Pistideddu, su fizu ‘e su padronu.

UN UOMO si è addormentato accanto al fantoccio.

UNA DONNA: Poi ci fu una cosa che loro chiamano processo, ma non contro di lui, contro di me. Dissero che sono troppo bella, che il mio seno è troppo sodo, che i mie fianchi sono troppo alti, che ho i capelli lunghi e neri e che quel giorno mostravo molto di più delle caviglie. Perché c’era la mamma del sole, e non avevo il velo sulla testa, e la mia camicetta era sudata, e lui credette di vedere i miei capezzoli.
«Sua eccellenza, i capezzoli, io sono un uomo, non sono un angelo, gli uomini non sono mai stati angeli, e nemmeno diavoli, sua eccellenza; anche un vecchio di cent’anni, al mio posto, avrebbe fatto lo stesso».
Il pubblico applaudiva.
«Sas tittas, sas tittas l’at insinnadu, cudda femmina mala».
Sono stata condannata a un anno per falsa testimonianza, al pagamento di tutte le spese e al risarcimento morale dei danni arrecati sl signor Mario Pistidda, ai suoi fratelli, a suo padre ed ai mariti delle sue sorelle. Ma sono povera, e il tribunale ha disposto che debba lavorare nella casa del Pistidda fino all’estinzione dell’intera somma. Condanna a vivere nella casa del mio carnefice per fargli da sguattera e soddisfare ogni sua voglia, come quelle dei suoi fratelli, dei suoi cognati e del suo vecchio padre. Ufficialmente la puttana di casa per tutto il tempo che farà comodo a loro, altrimenti verranno i carabinieri e mi riporteranno in prigione. (Va verso l’altare, prende il suo fantoccio e lo fa inginocchiare in preghiera, con le spalle al pubblico. Esce).

3.
Su una musica sacra scorrono sullo schermo vari ex voto, che si frantumano e poi ricompaiono per porzioni.
UN UOMO si sveglia dall’altare e ne discende inginocchiato e, sempre in ginocchio, va fino al centro della scena. Si farà un segno della croce ad ogni ex voto completo che appare sullo schermo e quando apparirà quello che lo riguarda (Un giudice che gli spezza le catene mentre una donna di spalle viene scacciata da una spada fiammeggiante), si segnerà freneticamente. Si alza e spalanca le braccia al cielo. Poi si mette sull’attenti e chiude con il saluto militare. Dagli altoparlanti vengono diffusi rumori di guerra. Lo schermo è nero.
Entra L’ORCHESTRINA rullando i tamburi. A tracolla, ognuno di loro ha una sedia che viene a disposta al centro della scena. Si siedono e guardano UN UOMO, il quale finalmente capisce e corre via per fare subito ritorno. Rientra con un sedia su cui siede il suo fantoccio; la mette al centro tra le altre, bada con cura che il fantoccio risulti bene in vista e poi, con una spinta, lo butta giù e si accomoda. (Quanto segue va inteso come un concerto per voce recitante e piccola orchestra da balera; una qualche suggestione potrebbe venire da Pierino e il lupo, dove ogni arma e situazione indicate dal narratore vengono riproposte nel fraseggio musicale).

UN UOMO: Ma nemmeno le mosche davanti a una merda di cane d’estate, ti dico io. Pallottole che volavano da tutte le parti. Come poco poco mettevi fuori il naso dalla trincea te lo portavano via. Pim. Pam. Piiiiim. Una cosa che non vuole vista. Ti dico io. La guerra è cosa brutta. Ma brutta, ti dico io.

(La musica ripropone le pallottole.)

Ma più brutto di tutti è il cannone, ti dico io il cannone è una cosa che non vuole vista né sentita. Bum, bum, buuum. Ti entra nel cervello e nella pancia. E sei sicuro che sei già morto. Bumbumbumbuuuuum.

(La musica ripropone le cannonate.)

Invece, le granate sono quasi divertenti. Quando scoppiano lontane. Perché dici che se il rumore è lontano vuol dire che le schegge non ti colpiranno. Ma se per sbaglio ti cade vicino… allora sì, ti senti i denti che ti ballano, le ossa che tremano, e hai paura di guardarti le mani, i piedi, perché sai che potrebbero esserti esplosi.

(La musica ripropone gli scoppi delle bombe.)

Ogni giorno ce n’erano uno o due che cercavano di scappare. Non sai quanto lavoro hanno fatto i carabinieri, quanti ne hanno riportati indietro. Tutti fucilati sul posto. Disgraziati, vigliacchi. Altro che plotone d’esecuzione, a calci in bocca gli avrei finiti io, per non sprecare le munizioni. Nemici della patria.

(La musica ripropone lo scoppiettio dei fucili e poi il colpo di grazia.)

Ti dico che me lo sogno ancora di notte. È una cosa che trasforma gli uomini in bestie, l’assalto alla baionetta… perché tu un uomo lo puoi ammazzare, glielo puoi infilare un coltello in pancia, e con ragione e con gusto, perché ti ha fatto un dispetto, perché ti ha rubato le pecore, perché ha parlato male di tua sorella. Ma il nemico chi è, chi l’ha mai visto? Lo devi ammazzare con la baionetta perché non fai a tempo a ricaricare il fucile, perché è troppo vicino e se non lo infili prima tu ti infila lui. E magari è una brava persona, un padre di famiglia, uno che avresti voluto come amico, come cognato…

(La musica ripropone le cannonate.)

E poi c’erano gli aerei. Belli, leggeri come farfalle d’estate. Di tutti i colori. Li vedevi da lontano e potevi buttarli giù con un sasso. Quello sì che era un lavoro da uomini. Volare in cielo a rischio della vita per osservare le postazioni dei nemici, per portare un dispaccio urgente.

(La musica ripropone il motore di un aereo a elica in volo.)

Quel giorno, il tenente aveva avuto l’incarico di uscire in perlustrazione, doveva segnare sulla carta il luogo dove far accampare il comando nell’ipotesi di un assalto. Arrivati in prossimità di una collina ci dividemmo, e io fui incaricato di rimanere di guardia alle vettovaglie. Mi avevano lasciato da solo. Ma non avevo paura. Con lo spuntare del primo sole, però, cominciai ad avere un po’ di preoccupazione, perché non erano ancora tornati, e perché sentivo il rumore di un aereo; pensai che se mi avessero visto avrebbero scoperto i nostri piani, e che se invece era un aereo dei nostri, che avrebbe potuto scambiarmi per un disertore e denunciarmi ai carabinieri.
Allora nascosi tutto tra una grande roccia e una siepe, e mi misi ad aspettare nascosto anch’io. Forse mi addormentai anche un po’. Verso mezzogiorno sentii dei rumori e delle urla. Era il tenente con il resto dei soldati. Strillava, diceva che aveva fame, e che se quel cretino di Pistidda non aveva disertato lo avrebbe fatto frustare a sangue. Al che io uscii dalla mia postazione, e provai a spiegare perché avevo messo tutto al riparo, perché c’erano aerei in perlustrazione.
(Usando il fantoccio per esemplificare il senso del racconto:) Ma il tenente non stette ad ascoltarmi. Si fece preparare il pranzo e mentre aspettava ordinò che mi spogliassero fino alla cintola, che mi togliessero gli scarponi e che mi legassero a un albero. Dopo pranzo, disse, voglio provare se ho ancora buona mira, mi eserciterò con la pistola facendoti saltare le gavette che poggerò sulle tue spalle.
E io prima ho maledetto la mia preoccupazione di fare belle figura, e poi quell’uomo crudele, poi gli altri soldati che mi legavano, poi la guerra, poi mi sono rassegnato e ho pregato la Maria Vergine di Villanova A Valle, e ho fatto un voto. (Si alza, sistema il suo fantoccio in ginocchio dietro la sedia ed esce indietreggiando e segnandosi come fosse in chiesa).

4.
L’ORCHESTRINA si alza e intona una sorta di marcia nuziale.
UNA DONNA, il primo piano ripreso dalla telecamera, avanza tra la folla, lentamente. Ha gli occhi sbarrati, è spaventata, al posto del bouquet ha un rosario legato come fossero manette, in maniera ossessiva e caricaturale accenna al tema di La novia (bianca e splendente va la novia…). Quando arriva sul palco si pone al fianco del fantoccio guardandolo con orrore. L’ORCHESTRINA, due per parte, si prepara per essere testimone alle nozze.

UNA DONNA: Invocò la Madonna e assicurò che se si fosse salvato avrebbe fatto voto di remissione di tutti i suoi peccati. E si convinse che il suo peccato fossi io, la puttana di casa. Gridò al cielo che mi avrebbe sposata se non fosse morto quel giorno. E il cielo esaudì il suo desiderio. Due granate austriache colpirono la cucina da campo. Morirono tutti. Quasi tutti. Lui no, lui si salvò perché era al riparo tra gli alberi. Riuscì a liberarsi, a rivestirsi e a portare in salvò il tenente, che ci rimise solo un pezzo di braccio. Venne premiato con una medaglia d’argento, il soldato Mario Pistidda promosso caporale. Al ritorno a casa, contro la volontà di tutta la sua famiglia, e senza mai tenere conto della mia disse che mi avrebbe sposata. In abito bianco, nella chiesa della Madonna di Villanova A Valle, con grande festa e grande sfarzo. Perché così aveva voluto il Cielo. Anche il tenente fu invitato alle nozze, ed anche se non venne mandò però un regalo. Un dipinto votivo fatto eseguire dal miglior pittore della sua città, Ravenna, un luogo dove sanno come vanno raccontate le cose. (Sullo schermo appare l’exvoto: una sorta di San Sebastiano in pantaloni militari con accanto una Madonnina in volo e, sullo sfondo, due sposini all’altare).
Mi ha sposata, mi ha restituito l’onore. Ma io stavo meglio prima, quando ero la puttana della casa. Quando suo padre e suo fratello facevano a botte per decidere chi avrebbe dormito nel mio letto la notte. Stavo meglio prima, quando nessuno mi chiamava signora ma non mi giudicavano. Stavo meglio prima.
Non lo voglio quest’anello, che non mi restituisce né la verginità né la vita, ma mi opprime, perché mi rende un oggetto di sua esclusiva proprietà. Io non voglio essere sua. Non voglio né l’onore né il rispetto di quest’uomo e della sua famiglia.
Vorrei che la guerra fosse arrivata fino qui, fino a questo paese. Preferirei essere morta per lo scoppio di una granata al centro della piazza del paese che dover fare la signora. La padrona di una casa che non ho scelto. Non voglio essere guardata con invidia dalle ragazze per la fortuna che mi è capitata, sposata al mio violentatore ricco. Tutte loro sono state usate dai signori, senza fare storie, senza protestare troppo, ottenendo piccoli regali, favori alle famiglie, e andando in spose a qualche servo pastore, a qualche garzone di fornaio, a qualche piccolo manovale. Io si che sono fortunata. Ripudiata dai miei stessi genitori adesso sono padrona di tutto, servita e riverita. Io sì che sono fortunata. A non essere morta per le botte e per lo stupro. (Rovescia la sedia si strappa il vestito. Va verso l’altare, prende il suo fantoccio e lo distende sul letto simbolico. Mentre canta la ninna nanna del Babbo orco riempie di stracci il ventre del fantoccio fino a gonfiarlo a dismisura. Poi esce.)

L’ORCHESTRINA, rimasta accanto al fantoccio di UN UOMO, la accompagna con un’esecuzione leggera, un solo strumento caratterizzante per strofa e una piccola sottolineatura corale nelle pause del canto tra le strofe stesse.

5.
Sullo schermo appare il volto di UN UOMO e poi i primi piani delle sue mani che reggono una bottiglia e un bicchiere. È giù dal palco e offre da bere al pubblico.
L’ORCHESTRINA ha notato il cambio di umore e, dopo essersi congratulata con il fantoccio che rimarrà seduto al centro fino alla fine, intona un canto di osteria: Cantos fizos?

Cantos fizos bonos tenet s’orcu?
Deghe nde tenet!

Unu, duos, tres, bàttor e chimbe
Los tenet s’orcu a tribagliare

Sese, sette, otto e noe
Los tenet s’orcu in domo sua

E la de deghe?
E la de deghe?

Issa li sirvit pro co… co…

La deghe li fachet cocodè

UN UOMO arriva sul palco e canta a squarcia gola gli ultimi versi. Ma L’ORCHESTRINA ha interrotto la musica. Accanto all’altare è comparsa UNA DONNA; indossa un camice, adesso non è più lei ma l’ostetrica.

UNA DONNA: Dottore! Chiamate il dottore. Ci sono complicazioni, c’è bisogno di lui, che venga presto.

UN UOMO poggia bicchieri e bottiglia accanto al suo fantoccio.
L’ORCHESTRINA si disperde. Ogni orchestrale prende la propria seggiola e la dispone in un punto distante sul palco, senza nessuna ragionevolezza o coerenza apparente e, mentre gli avvenimenti evolvono, in maniera random, eseguiranno fraseggi da solisti giocando sulla loro postazione (in piedi, da seduti, sulla seggiola su una gamba, accovacciati, ecc.).
Intanto UN UOMO è andato verso l’altare e, con l’aiuto di UNA DONNA, ha indossato il camice. Adesso è il ginecologo.

UN UOMO: Ma chi è l’imbecille che era di turno? Come ha fatto a non capire la gravità della situazione? Dobbiamo intervenire. Operare, operare.
UNA DONNA: Faccio preparare la sala operatoria?
UN UOMO: Ma certo, che cosa aspetta?
UNA DONNA: Vado.
UN UOMO: Aspetti, dove va?
UNA DONNA: In sala operatoria.
UN UOMO: Aspetti, non è così semplice. Faccia chiamare il marito della signora.
UNA DONNA: Ma perché?
UN UOMO: Lo faccia chiamare, debbo parlargli.
UNA DONNA: Non capisco.
UN UOMO: Lei non deve capire, lei deve eseguire le mie indicazioni. Le ho chiesto di chiamare il marito di questa donna e lei deve considerarlo un ordine.
UNA DONNA: Capisco.
UN UOMO: No, lei non capisce, ma non ha nessuna importanza, si limiti a chiamare quell’uomo.
UNA DONNA (al pubblico): Mandai a chiamare Mario Pistidda. Quando mi vide volle abbracciarmi, era convinto che volessi annunciargli la nascita del suo primo figlio maschio. Non poteva credere che potessero esserci complicazioni, che la sua giovane moglie non sarebbe riuscita a scodellargli un pupo come è in grado di fare qualsiasi cagna. Gli dissi che non io ma il medico ginecologo lo chiamava, perché aveva da dirgli qualcosa. «E cos’è, urlò sprezzante, non gli piace il nome che ho scelto, non gli piace che chiami mio figlio Bustianu Pistidda?»
UN UOMO (al pubblico): Come sta signor Pistidda. Non si preoccupi, va tutto bene. Si sieda. Ha mai sentito parlare di calcolo delle probabilità? Di percentuali? Della resa delle olive? Capisce, lei raccoglie cento, ma non sempre a cento olive corrisponde la stessa percentuale di litri d’olio, a volte rendono di meno, perché la polpa è meno succosa. Lo so bene che tutto questo con suo figlio non c’entra, ma mi ascolti, cerchi di capire. Suo figlio non è ancora nato. Che cosa sappiamo noi di quanto potrebbe renderle? Invece sua moglie la conosciamo bene. Lei sa perfettamente quanto le rende.
UNA DONNA (al pubblico): Mario Pistidda si infuriò. Urlò che sua moglie era una bagassa, una puttana fredda che non gli era mai servita a niente, che gli aveva sempre portato disgrazie, che se non fosse stato per lei, per quello che gli aveva fatto passare, adesso sarebbe stato in politica o almeno sott’ufficiale, caporale maggiore, o magari sergente. E che quella stronzata della polpa delle olive e di quanto olio a quintale se la ficcasse nel culo: «Tziu dottori!»
UN UOMO (al pubblico): Stia calmo. Anch’io sono un uomo e al suo posto reagirei da uomo. La capisco. Ma io, adesso, sono qui, davanti a lei, nelle vesti dell’uomo di scienza. Non sono più un medico, ma la mano di Dio.
UNA DONNA (al pubblico): Il soldato Pistideddu, congedato con il grado di caporale, affermò che Dio si prega in chiesa, non all’ospedale. E che sua moglie l’aveva fatta ricoverare solo perché si era presa la broncopolmonite, non per farle mettere al mondo il bambino, che da quando il mondo è mondo i Pistidda sono sempre nati in casa senza l’aiuto dei dottori.
UN UOMO (al pubblico): Sicuro, sicuro, lei ha ragione, è infatti sua moglie è guarita dalla bronco polmonite.
UNA DONNA (al pubblico): E perché non me l’avete rimandata a casa, allora?
UN UOMO (al pubblico): Ha ragione, avremmo dovuto farlo, così adesso io non sarei qui, non dovrei perdere il mio tempo a cercare di spiegarle che la bronco polmonite ha complicato le cose, che sua moglie non dilata, che non potrà quindi partorire e suo figlio morirà, e morirà anche lei se non la operiamo in fretta.
UNA DONNA (al pubblico): Mai! Mai gridò quell’uomo. Mai sarebbe morto il suo figlio Bustianu, perché lui avrebbe invocato la Vergine della chiesetta a valle. E si inginocchiò, e pregò, e pregò: «Salva su fizu meu, salva Bustianeddu meu, salva su sàmbene meu!»
UN UOMO (al pubblico): Devo interpretare questa sua manifestazione poco consona, direi piuttosto femminile e isterica, come una precisa richiesta: salvare il bambino senza tenere troppo in conto i rischi che corre la mamma…
UNA DONNA (al pubblico): «Salva su fizu meu, salva Bustianeddu meu, salva su sàmbene meu!»

L’ORCHESTRINA suona all’unisono. La musica è stridente, disperata.
UN UOMO e UNA DONNA svuotano il ventre del fantoccio fino a renderlo piatto.
Alla fine UN UOMO esce di scena mentre UNA DONNA porta il fagotto al fantoccio di UN UOMO e glielo depone in grembo.
L’ORCHESTRINA si allinea alle loro spalle e rulla i tamburi proponendo il clima dell’attesa prima di un esecuzione capitale.
Sullo schermo compare l’ultimo ex voto. Un uomo con i braccio un neonato, la Vergine in alto a sinistra e un medico/macellaio a destra.
Sul rullare sostenuto dell’ORCHESTRINA scorrono i titoli di coda mentre sullo schermo passano i volti del pubblico ripresi dal CAMERAMAN.

Postfazione

Il testo teatrale, deve corrispondere perfettamente alla sua messinscena?
Non lo so, non credo, forse.
L’argomento è serio, ma la mia risposta non è certamente all’altezza. Perché non ho un opinione, perché sono uno scrittore più che un regista. Perché mi sento solamente responsabile del testo, e non dell’allestimento finale. Perché credo che il regista e l’autore non dovrebbero nemmeno conoscersi, comunque non essere amici, perché l’autore del testo ha responsabilità solamente verso la narrazione, verso se stesso e verso la Storia, mentre il regista ha immediate responsabilità verso gli attori, verso il pubblico, verso il Presente. Sfere emozionali che non coincidono e che non si incontrano, a meno che l’autore e il regista non siano la stessa persona, a meno che il testo non sia una pura commissione, un incarico che l’autore ha ricevuto da qualcuno, magari dal regista stesso.
Ed è, in fondo, ciò che è accaduto a me con il testo teatrale ispirato agli ex voto.
Un regista, Mariano Corda, mi ha chiamato perché partecipassi al progetto. Mi ha anche detto che avrebbe utilizzato solo due attori e gli orchestrali avrebbero suonato in diretta. Inoltre, pensava di far “recitare” anche due manichini e di utilizzare quella mia vecchia idea dei linguaggi multipli, per cui avremmo potuto inserire uno schermo su cui proiettare immagini in diretta.
Dopo questa premessa, è evidente che io sono l’autore del testo, ma è altrettanto chiaro che non ne sono il proprietario esclusivo. Anzi, la proposta scenica finale nemmeno mi appartiene; è più degli attori, dei musicisti, degli scenografi, del regista. Io vi partecipo al pari del pubblico, riconoscendomi oppure no nella rappresentazione.
Ma non perché io rinunci alla paternità del testo, al contrario; semplicemente perché il mio ruolo di scrittore finisce dove inizia quello del regista. È sempre stato così, continuerà a essere così finché gli attori non sapranno ritornare alle origini ed essere insieme autori e direttori di se stessi. Finché il pubblico non riuscirà a controllare l’intero processo e quindi modificare a suo piacere ogni regia. Esattamente come fa qualunque buon lettore, un po’ come accade nel teatro itinerante, come probabilmente era ai tempi della commedia dell’arte.
Per questo amo introdurre nei miei testi un alto grado di imprevisti incontrollabili, cioè la partecipazione volontaria e involontaria del pubblico, in questo testo il personaggio principale. Il volti del pubblico dovevano essere trasmessi da uno schermo, frammisti a quelli degli attori, perché il teatro, come la vita, è finzione, e vi partecipiamo tutti, anche chi non vuole, soprattutto chi non vuole.
Invece, nell’allestimento reale il pubblico è solo spettatore, perché non c’erano né cameraman né schermo. Quindi il testo rappresentato non è più il testo scritto, è un’altra cosa, magari più bella, forse più efficace, certamente più gestibile; comunque un’altra cosa, a cui non rinuncio, ma che non è più solo mia. Anche perché non è mai stata solamente mia.
Avrei finito, ma perché non si pensi che le righe sopra sono uno sfogo contro qualcuno, invece di una semplice dichiarazione di paternità multipla, aggiungo in appendice la trascrizione dell’ultima lettera al regista poche settimane prima dell’allestimento:

«Caro Mariano,

1. se davvero ci tieni che UN UOMO chieda esplicitamente la grazia, potresti far inventare una specie di canto a tenore leggermente dissonante in cui l’orchestrina fa il coro “borbottando”:

pedo, pedò, pedo, pedò

e il tenore (attore) canta:

pedo sa grascia a Nostra Segnora
a Nostra Segnora sa gracia pedo
sa grascia a Segnora Nostra pedo

oppure il contrario, lui, l’attore, fa «pedo, pedò» e l’orchestrina canta.

2. Se davvero vuoi che anche l’attore maschio, come ha già fatto l’attrice femmina nella prima parte si “distingua” dal personaggio, potresti fargli prendere una pausa mentre il cameraman lo inquadra (c’è ancora la telecamera?), cioè LUI parla con il cameraman, oppure uno dell’orchestra, o meglio uno del pubblico, prende un fiato, oppure gli chiede una sigaretta e poi fa:

ATTORE: Io adoro Brecht, Pirandello, Beckett. E sai perché, sai perché? Perché l’attore quando torna a casa è in pace con se stesso. Si spoglia, fa una doccia e non ci pensa più. Perché il pubblico lo capisce che non c’è identificazione tra uomo e personaggio. Mentre questo porco sono mesi che me lo porto dentro, lo odio; perché io non sono così, non voglio essere così, ma lo sto diventando».