LITERATURA E SUCETA: FOLE DA CORSICA A SARDEGNA
Cumenti è parè
Introduzione
In viaggio tra le fiabe, da una sponda di un’isola all’altra”.
Nel 1883, Frédéric Ortoli, nell’Avant-Propos ai suoi Contes populaires de l’Île de Corse, prima antologia di testi narrativi della tradizione popolare corsa, si rammarica del fatto che «jusqu’à présent (…) les contes et les légendes ont été complètement oubliés»(1) dagli studiosi di folklore, interessati quasi esclusivamente ai canti popolari della Corsica, nonostante l’ampiezza e la varietà del patrimonio narrativo in prosa dell’isola.
Più di cento anni dopo, Francette Orsoni, scrittrice e illustratrice corsa per bambini, riferendosi a quelle stesse fiabe tradizionali, sostiene che «ces contes ont longtemps dormi, repliés dans les mémoires ou aplatis dans les recueils d’enquêtes»(2). Queste fiabe, continua l’autrice, hanno bisogno, dunque, della parola per rivivere «comme les graines endormies ont besoin d’eau pour germer»(3).
Da queste considerazioni, dall’adesione sentimentale di chi scrive per la Corsica, in quanto terra nativa, e per la Gallura terra d’adozione, è nato il desiderio dunque di intraprendere questo viaggio da una sponda di un isola all’altra, tra li foli corse e galluresi, per far conoscere il tradizionale patrimonio narrativo della Corsica, in gran parte sconosciuto in Sardegna, tranne che a pochi specialisti e quello dei pastori e contadini di Gallura.
Nel primo capitolo affronteremo innanzitutto il discorso riguardante gli studi sulla narrativa tradizionale sarda. Cercheremo di tracciare un rapido profilo storico a partire dalle fonti documentarie più classiche, che si riferiscono ad un mondo fantastico delle origini, ad eroi leggendari e a personaggi meravigliosi, fino al 1922, anno di pubblicazione delle Leggende e tradizioni di Sardegna di Gino Bottiglioni. Ci soffermeremo sul periodo più fecondo di questi studi che è compreso nel decennio 1883-1893, in cui si fecero sempre più intense le ricerche di folklore e cominciarono ad intensificarsi l’attenzione per la letteratura tradizionale in prosa, la quale si manifestò essenzialmente attraverso un vivace lavoro di ricerca sul campo, che portò alla pubblicazione di numerose raccolte di «novelline» e «fole». Vedremo più da vicino quali sono state le prime raccolte di materiale fiabistico, quali sono stati i criteri di edizione dei primi ricercatori, l’ampiezza dei contributi. Mostreremo i tipi di materiali messi in luce da questi primi raccoglitori-editori, costituiti in prevalenza da fiabe di magia, narrazioni formulari, scherzi e aneddoti, smentendo così il sospetto di un’assenza di fiabe vere e proprie nel patrimonio narrativo tradizionale della Sardegna. Illustreremo infine gli elementi e i caratteri della leggenda sarda messi in rilievo da Bottiglioni.
Nel secondo capitolo analizzeremo la prima raccolta di fiabe e leggende della tradizione popolare della Corsica, Les Contes populaires de l’Île de Corse, pubblicata nel 1883 dal folklorista corso Frédéric Ortoli. La scelta di quest’opera non è stata casuale, in quanto oltre ad essere la prima antologia di testi narrativi popolari corsi, essa è considerata, insieme alla raccolta di Massignon, Contes corses, che analizzeremo nel terzo capitolo, per la ricchezza e la varietà degli intrecci, per l’ampiezza dei contributi e per il rigore scientifico (localizzazione delle fonti, indicazioni sugli informatori, importanti riferimenti a credenze e tradizioni locali), una delle più ampie e importanti raccolte favolistiche della Corsica, anche se i testi sono trascritti, per motivi editoriali, in francese, in conformità al piano generale della collection «Les littératures populaires de toutes les nations», della quale la raccolta di Ortoli costituisce il XVI volume. Nei primi paragrafi introduttivi ci soffermeremo sulle caratteristiche generali dell’opera, sui criteri adottati dall’autore per la classificazione del materiale, sulle località di rilevazione e sui narratori e narratrici, per poi passare all’esame minuzioso del contenuto dei testi. Li confronteremo con i tipi di fiabe presi in esame nell’indice internazionale di Aarne e Thompson, che registrano numerandoli gli intrecci narrativi internazionalmente attestati, per classificarli, per individuare le categorie narrative rappresentate, i tipi e i motivi più diffusi. Illustreremo in maniera particolareggiata, anche alcune di queste fiabe tracciando un riepilogo per ciascuna di queste, mostrando, in alcuni casi, la loro diffusione a livello internazionale. Termineremo il capitolo, infine, con lo studio delle leggende corse riportate nella seconda parte dell’opera di Ortoli.
Nel terzo capitolo tratteremo della prima catalogazione del materiale narrativo corso effettuata da Geneviève Massignon, nell’ambito di un’ampia inchiesta documentaria sulla narrativa tradizionale, condotta tra il 1955 e il 1959 nella Corsica centrale, in seguito alla constatazione dell’assoluta carenza in Corsica di ricerche scientifiche e di studi rigorosi sull’argomento. In seguito all’opera di Ortoli, infatti, i folkloristi avevano concentrato la loro attenzione esclusivamente sulle leggende corse, trascurando del tutto le fiabe. Prima di procedere all’analisi del materiale reperito da Massignon e pubblicato nella raccolta Contes corses, che è considerata il primo vero studio scientifico sulle fiabe dell’isola, abbiamo cercato di conoscere innanzitutto le condizioni materiali di vita dei pastori del Niolo (in quanto luogo principale di rilevazione), il loro isolamento, in generale il contesto socio-economico entro cui le fiabe inserite nella raccolta, hanno circolato, si sono trasformate e adattate, per avere un quadro più completo sulla narrativa popolare della Corsica e per comprendere meglio le sue caratteristiche. Infine, nell’ultimo paragrafo, illustreremo i diversi modi e strategie adottate dalla scrittrice per l’infanzia Francette Orsoni, affinchè i bambini possano riappropriarsi in maniera ludica, attraverso le immagini, il gioco, il teatro, delle fiabe della tradizione orale, ormai quasi del tutto dimenticate.
Nel quarto capitolo presenteremo la favolistica popolare gallurese. Prima di tutto affronteremo il discorso sulla specificità della Gallura nel contesto sardo, sulle sue peculiarità linguistiche, culturali, sulla singolarità dell’insediamento di tipo disperso, costituito dagli stazzi e sulle condizioni quotidiane dei pastori e contadini che in essi abitavano. Questo discorso ci permetterà di cogliere e di comprendere alcune particolarità dei racconti tradizionali galluresi, quale la gran quantità e varietà di storie macabre, e i nessi tra le credenze e i racconti che si sono sviluppati in seno a questa società. Poi concentreremo la nostra attenzione sulla folla di personaggi spettrali e demoniaci che popolano le fiabe galluresi. C’imbatteremo, ad esempio, nella Réula, la macabra processione d’anime penitenti, che sfortunati viandanti e pastori avevano spesso la disgrazia di incontrare, nella Pajana e in Lu pundacchju di li sètti barrìtti, intervallando il discorso con alcune considerazioni di tipo comparativo con la narrativa popolare corsa.
Infine per terminare il nostro viaggio nei mondi fiabeschi e leggendari della Corsica e della Gallura, nel quinto ed ultimo capitolo, faremo delle ulteriori considerazioni e riflessioni finali per meglio mettere in risalto le loro affinità e differenze.
Per concludere, abbiamo ritenuto opportuno inserire in Appendice le trenta fiabe propriamente dette della raccolta ottocentesca di Ortoli seguite ciascuna da una traduzione letterale in italiano, per far conoscere alcune delle fiabe popolari corse, altrimenti difficilmente reperibili. Di quest’antologia, infatti, in Corsica esistono pochissime copie, una delle quali si trova nella bibliothèque en longue corse du Palazzu Naziunale de Corte, che ospita le Centre de Recherches Corses de l’Université de Corte, di cui siamo venuti a conoscenza grazie alle preziose indicazioni del professor Ghjacumu Thiers.
Riassumendo, quindi, col presente lavoro ci proponiamo prima di tutto di presentare la favolistica popolare tradizionale sia della Corsica che della Gallura al fine di far conoscere le fiabe più diffuse, la costante presenza o assenza di determinati temi e motivi, la preferenza per alcuni intrecci, lo stile e i fattori di maggiore significatività; in secondo luogo di mettere in evidenza, laddove è possibile, alcune somiglianze e diversità e infine di indicare, nell’ambito della letteratura per l’infanzia, alcuni metodi utilizzati per far sì che le fiabe della tradizione orale non vengano dimenticate riacquistando una nuova vitalità e una nuova veste.
(1) trad. It. : «fino a questo momento (…) le fiabe e le leggende sono state completamente dimenticate». Frédéric Ortoli, Les Contes populaires de l’Île de Corse, Paris, Maisonneuxe et Larose, 1883, p. III.
(2) trad. It. : «queste fiabe hanno allungo dormito, ripiegate nelle memorie o appiattite nelle raccolte d’inchieste». Francette Orsoni, Fiordilisa et autres contes corses, France, Syros jeunesse, 2002, p. 12.
(3) trad. It. : «come i grani addormentati hanno bisogno d’acqua per germogliare». Ibidem.
Capitolo primo
I. La narrativa tradizionale sarda tra Ottocento e Novecento.
1.1 Il materiale documentario fino alla seconda metà dell’Ottocento.
Enrica Delitala(1) sostiene che una vera e propria storia degli studi sulla narrativa tradizionale sarda ha inizio dalla seconda metà dell’Ottocento, quando cominciarono ad essere pubblicate le prime edizioni in dialetto di «novelline» e «fole» ad opera essenzialmente di studiosi provenienti dalla penisola. Infatti, secondo la studiosa, precedentemente a questa data si può riscontrare soltanto una esigua traccia di documentazione. Dalla fine del cinquecento in poi si trovano solamente scarse e frammentarie indicazioni documentarie su temi narrativi e su personaggi immaginari. La maggior parte di queste fonti e in modo particolare quelle più antiche, secondo l’autrice, consistono in annotazioni marginali e indirette: nomi d’esseri fantastici quali orcu, paladinos, gigantes, janas e simili, che vengono citati in relazione ai nuraghi o ad altre costruzioni arcaiche, spiegazioni di alcuni toponimi, indicazioni relative al culto di alcuni santi e cenni alle credenze su alcuni animali. Qualche volta, tuttavia, continua Delitala, tra i tanti riferimenti frammentari e occasionali si incontrano anche alcune informazioni più precise e di una certa ampiezza.
La studiosa rileva che una caratteristica di queste prime fonti è la limitata durata dell’interesse degli scrittori per certi temi fondamentali, cosicché di molti motivi narrativi si hanno numerosi riferimenti, ma solo dal Cinquecento all’Ottocento, come quelli sulla distruzione della città di Hiade e sul ritrovamento della statua della Madonna di Bonaria, di altri viceversa non si hanno testimonianze fino all’Ottocento, come è il caso delle leggende sul ponte costruito sul Tirso dal diavolo e sulle miracolose colonne della Basilica di S. Gavino a Porto Torres.
Da Enna(2) apprendiamo che le fonti più arcaiche, anche se non propriamente popolari, che si riferiscono ad un mondo fantastico delle origini e ad eroi leggendari ed eponimi, consistono spesso in informazioni scarse ed incomplete di seconda e di terza mano, in ampi contesti storici documentaristici. Tra le fonti più antiche l’autore cita un frammento dello storico greco Diodoro Siculo, vissuto nel I secolo a.C., che sembrerebbe riportare la notizia da Timeo (III sec. a.C.), in cui si narra che Iolao, nipote di Ercole, insieme a quaranta Thespiadi, nati cioè dalle quaranta figlie di Tespi, andò a colonizzare la Sardegna, dando origine al popolo degli Iolaesi o Iliesi e che alla loro morte furono deposti in grandi tombe, le tombe dei giganti . Enna ricorda anche un altro storico greco, Pausania (II sec. a.C.), che cita esplicitamente come sua fonte Diodoro Siculo, dal quale si viene a sapere che Sardus, l’eroe eponimo per eccellenza, approdò in Sardegna dalla Libia e le diede il suo nome sostituendola a quello più antico d’Icnusa. L’autore afferma che di questi grandi eroi, la tradizione popolare non sembra aver conservato alcun ricordo. A tal proposito, il glottologo Gino Bottiglioni(3), considerato uno dei maggiori studiosi del folklore sardo, soprattutto per quanto riguarda le leggende, afferma che i nomi degli Iliesi, degli eroi mitici della Sardegna quali Sardus Pater, Iolao, Iosto si sono completamente dileguati dalla coscienza del popolo.
La documentazione anteriore alla seconda metà dell’Ottocento, secondo Delitala(4), oltre ad essere esigua è anche limitata ad alcuni generi e di difficile accertamento. Non è inoltre da escludere che, soprattutto nel caso delle documentazioni più arcaiche, talvolta gli autori inventassero tali fonti «per dare fondamento alle tesi sulla classicità della cultura sarda»(5).
In seguito, continua la studiosa, l’atteggiamento nei confronti della narrativa sarda e della cultura popolare in generale non subì particolari modificazioni: gli esseri meravigliosi, le reliquie miracolose e altri temi fantastici furono adoperati solamente come strumenti per una ricostruzione storica ed archeologica, di una politica religiosa o come elementi singolari e bizzarri da utilizzare per vivacizzare un racconto, ma non furono mai visti come espressione di una letteratura caratterizzata da tratti peculiari e con una sua specifica validità. L’autrice sostiene che non si possono cogliere novità, neanche in letterati del tardo Ottocento che pubblicarono romanzi storici e racconti di ambientazione sarda ispirandosi più ai falsi documenti arborensi che a motivi popolari.
A queste ricerche difettose e alterate, continua Delitala, corrispondono giudizi superficiali ed errati sulla situazione narrativa orale della Sardegna quale quello del barone prussiano Heinrich von Maltzan, il quale, secondo Enna(6) è stato uno dei primi a fornire un quadro generale della narrativa tradizionale sarda, anche se fu un quadro molto deludente. Dopo aver visitato la Sardegna nel 1869, come ci riferiscono Delitala e Enna, il barone von Maltzan si sentì autorizzato ad affermare che la maggior parte della narrativa popolare sarda è costituita da narrazioni bibliche e da leggende dei santi e che tra i sardi mancano assolutamente quelle tradizioni semi-pagane o per lo meno profane, delle quali, secondo il barone, sarebbe stata particolarmente ricca la Germania. Sebbene si tratti di poco più di un accenno, secondo Delitala, il giudizio di Maltzan costituì «la più antica formulazione di quel pregiudizio sulla assenza di elementi fiabeschi in Sardegna, che purtroppo è ancora vivo»(7).
Delitala afferma che Maltzan sosteneva l’assenza di quanto nessuno fino a quel momento non aveva mai cercato e la smentita migliore, secondo la studiosa, venne dal materiale messo in luce dai primi raccoglitori e studiosi del folklore tra l’ultimo ventennio dell’Ottocento e i primi anni del Novecento.
1.2. Dall’Ottocento al Novecento.
Da Delitala apprendiamo che l’ultimo ventennio dell’Ottocento e i primi anni del Novecento furono in Sardegna tra i più fecondi dal punto di vista delle iniziative culturali e segnarono, in modo particolare nel campo della dialettologia, una nuova apertura e continuità degli studi scientificamente e metodologicamente fondati e in contatto con le contemporanee linee di ricerca del resto dell’Italia e dell’Europa. L’autrice afferma che proprio in questo periodo si fecero sempre più intensi gli studi di folklore, e cominciò ad intensificarsi l’attenzione per la letteratura tradizionale in prosa, la quale si manifestò essenzialmente attraverso un vivace lavoro di ricerca sul campo che sfociò nella pubblicazione di numerose raccolte. Il rinnovamento degli interessi e dei metodi di ricerca, continua la studiosa, sebbene indubbiamente sollecitò giovani intellettuali sardi a fare indagini nel loro territorio, venne principalmente da un consistente nucleo di studiosi e folkloristi provenienti dalla penisola, i quali, giunti in Sardegna principalmente per un incarico d’insegnamento, in un secondo momento avviarono una sistematica ricerca di materiali narrativi, sostenuti dalle principali riviste italiane di linguistica e di tradizioni popolari quali l’«Archivio per lo Studio delle Tradizioni Popolari» (ASTP) diretto dal Pitrè e la «Rivista delle Tradizioni Popolari» (RTP) del De Gubernatis.
Delitala afferma che il periodo fondamentale di questi studi è compreso nel decennio 1883 - 1893, in cui vennero pubblicate la maggior parte delle raccolte in dialetto di «novelline» per opera di Pier Enea Guarnerio, Francesco Mango, Felice Mariola, Pietro Nurra, Giuseppe Ferraro ed altri. Nel giro di pochi anni si passò dal nulla all’edizione di oltre una cinquantina di testi narrativi in sardo, varie trascrizioni letterali di originali racconti nei diversi dialetti locali e alcune rielaborazioni; molti altri documenti, invece, reperiti in quegli anni rimasero inediti e a lungo ignorati. L’autrice si riferisce all’importante corpus di testi in sardo, raccolti alla fine dell’Ottocento per iniziativa di Domenico Comparetti e conservati nel Museo di Arti e Tradizioni Popolari di Roma.
1.2.1. I manoscritti inediti del Fondo Comparetti
Delitala(8) venne a conoscenza per la prima volta dei documenti inediti ottocenteschi del Fondo Comparetti solamente nella metà degli anni sessanta, durante la preparazione di una bibliografia analitica sulla fiabistica sarda, da alcune citazioni di Paolo Toschi, Gianfranco D’Aronco ed Italo Calvino, il quale esaminò tutto il Fondo Comparetti ed utilizzò vari materiali per le Fiabe italiane(9), ed ebbe il merito di fornire le prime informazioni sui manoscritti sardi, messi insieme da una rete di raccoglitori coordinati da un allievo di Comparetti, Ettore Pais.
A metà degli anni settanta, grazie alla collaborazione tra l’allora direttore del Museo nazionale di Arte e Tradizioni popolari di Roma, Jacopo Recupero, Delitala e altri demologi, fu elaborato un progetto di edizione integrale del corpus, il quale ebbe una sua prima concretizzazione nel 1992 con la pubblicazione dei due volumi curati da Aurora Milillo, delle novelle senesi raccolte nel 1879 e una seconda realizzazione con l’edizione curata dalla studiosa Delitala delle novelline popolari sarde nel 1999.
Nell’Introduzione alle Novelline popolari sarde dell’Ottocento Delitala ci informa che il filologo Domenico Comparetti, considerato uno degli studiosi più fecondi nel campo dello studio della cultura popolare in Italia, organizzò per la prima volta, intorno al 1870, un’inchiesta nazionale sulla narrativa di tradizione orale e si rivolse per la raccolta del materiale narrativo ad altri folkloristi, conoscenti ed allievi, i quali agirono a diversi livelli, direttamente ed utilizzando un’ulteriore rete di collaboratori locali che, a loro volta, facevano le indagini in proprio o si rivolgevano ad altre persone.
Per quanto riguarda la Sardegna Comparetti richiese la collaborazione di un suo allievo di origini sarde, Ettore Pais, il quale era giunto nell’isola nel 1878 per insegnare presso il Ginnasio e Liceo Classico di Sassari. Pais, per rispondere alle richieste del suo maestro Comparetti, come la studiosa ha potuto ricostruire sulla base delle annotazioni interne ai manoscritti e di alcune lettere di Pais a Comparetti allegate alle singole raccolte, si avvalse dell’aiuto di numerosi rilevatori, conoscenti, ma soprattutto colleghi e allievi del Ginnasio di Sassari, i quali rientrando nei loro villaggi per trascorrere l’estate raccoglievano e trascrivevano dai narratori e dalle narratrici novelline spesso unite a importanti indicazioni sulla letteratura popolare locale. Questo modo di procedere non sistematico, secondo Delitala, spiega sia le differenze qualitative e quantitative tra i manoscritti, dovute alle diverse capacità dei raccoglitori di fornire corrette trascrizioni del gallurese, sassarese e logudorese, sia la prevalenza di testi provenienti da Sassari e dai paesi vicini (Sorso, Codrongianus, Villanova Monteleone), l’estensione alla Gallura (Calangianus), al Goceano (Bono) e a Bitti, senza poter intravedere in ciò finalità di tipo linguistico o etnografico.
Esaminando nel suo complesso la documentazione del Fondo Comparetti, costituita da diciotto manoscritti per un totale di centocinque testi in sardo provenienti in prevalenza dalla Sardegna centro-settentrionale, la studiosa mostra l’ampia predominanza nel corpus di fiabe di magia, di racconti romanzeschi, la scarsa incidenza di fiabe d’animali, l’assenza di leggende locali e religiose, la presenza di versioni di fiabe a scarsa diffusione internazionale, non documentate nelle fonti edite ottocentesche, e di motivi del tutto originali e commistioni tra più intrecci.
Questi importanti documenti inediti ottocenteschi della tradizione popolare della Sardegna, secondo Delitala, assumono un particolare valore, sia per le differenze e per le coincidenze col materiale raccolto successivamente e con le modalità di documentazione e trascrizione dei testi, sia per il fatto che collocano con certezza tra il 1878 e il 1880 – 1881, retrodatandolo di alcuni anni, l’inizio di quella attività di raccolta e di edizione di documenti della narrativa popolare che si protrasse fine ai primi anni del Novecento e si concluse nel 1922, l’anno in cui vennero pubblicate le leggende e tradizioni di Sardegna di Gino Bottiglioni.
1.2.2 Le prime raccolte di fiabe.
Da Enna(10) apprendiamo che l’opera del glottologo e folkorista Pier Enea Guarnerio, Primo saggio di novelle popolari sarde, edita nell’«Archivio per lo studio delle Tradizioni Popolari» di Pitrè tra il 1883 e il 1884, fu la prima raccolta di materiale fiabesco ad essere pubblicata. Si tratta di una raccolta di undici fiabe complesse, edite in grafia fonetica, di area logudorese e gallurese, tra le più diffuse e popolari del panorama favolistico europeo: si trovano, infatti, le versioni sarde di Pelle d’asino, trasformata in Maria Intaulata, di Cenerentola, denominata Chisjnera e fiabe del ciclo Jach l’ammazzadraghi che diventa Taghiaferru. Enna afferma che l’opera di Guarnerio si distingue per la ricchezza di motivi, per il rigore scientifico e per la completezza di indagine critica e documentaristica che molto difficilmente si ritrovano negli altri raccoglitori del tempo.
Guarnerio, con questo primo saggio si prefiggeva due obiettivi: da una parte, come scriveva nell’avvertenza, voleva che «anche la Sardegna aggiungesse finalmente il suo manipolo di conti alla larga messe, (…) e offrisse così il suo tributo ai cultori della novellistica comparata; dall’altra (…) di raccogliere dei testi, che potessero servire di documento a nuove ricerche sui dialetti di quest’isola, che, (…) non è molto esplorata, anche in fatto di lingua, dalla scienza moderna»(11).
In questo modo Guarnerio, come ci informa Giulio Paulis(12), si adattava alla consuetudine dell’epoca di affrontare contemporaneamente i problemi glottologici e quelli demologici della realtà linguistica studiata. A quell’epoca, scrive ancora Paulis, il connubio tra linguistica e demologia era favorito sia dalle peculiarità stesse della ricerca dialettologia, la quale portava il linguista a vivere per un certo tempo con la gente del luogo di cui studiava la lingua e ne stimolava al tempo stesso l’interesse per le espressioni della vita culturale e spirituale, sia dalla mancanza in Italia di uno studioso specialista solamente di folklore. Delitala(13), a tale proposito, afferma che, in questo periodo gli studi sul folklore risentono molto dell’interesse prettamente linguistico degli studiosi, i quali rivolgevano essenzialmente la loro attenzione alla lingua e alla forma dei materiali favolistici che rilevavano piuttosto che ai loro contenuti.
Enna(14) ci dice che successivamente all’opera di Guarnerio, nel 1890, furono pubblicate le Novelle popolari sarde(15), di area campidanese raccolte da Francesco Mango.
Secondo Delitala(16) le novelle di Mango sono molto meno rigorose delle edizioni di Guarnerio, soprattutto dal punto di vista della «ragionevole» grafia piuttosto dubbiosa adottata nelle trascrizioni in sardo e della mancanza di localizzazione dei testi. Tuttavia, continua la studiosa, la raccolta di Mango appare interessante per le differenze che sussistono con il materiale edito da Guarnerio e successivamente da Mariola e Nurra. Mentre questi ultimi raccolsero quasi esclusivamente fiabe di magia nelle aree settentrionali e centrali dell’isola, Mango, invece, offrì una documentazione più varia di fiabe aneddoti ed altri racconti difficilmente classificabili dell’area campidanese.
Delitala(17) afferma che i lavori di questi primi ricercatori, nonostante le differenze che riguardano soprattutto i criteri di edizione e l’ampiezza dei contributi, sono accomunati da alcuni elementi; la studiosa rileva che tutte le edizioni rivolgono essenzialmente l’attenzione sulla documentazione e trascrizione dei materiali e riducono al minimo l’analisi dei testi; che tutti gli autori, fatta eccezione di Guarnerio, non forniscono dati sui narratori e sulle località di raccolta; e che la documentazione in area settentrionale e centrale è nettamente più ampia di quella meridionale. Tutte queste indicazioni, continua l’autrice, si riferiscono al prevalere dell’interesse in Italia e in Europa per gli intrecci e per la scarsa attenzione per la struttura testuale e la figura del narratore. Delitala, in oltre, fa notare che i materiali messi in luce da questi primi raccoglitori-editori si riferivano in prevalenza a fiabe di magia, narrazioni formulari, scherzi e aneddoti, sottolineando il fatto che appartenevano, in altre parole, a quel genere di cui il barone von Maltzan aveva negato l’esistenza. Ciò smentì completamente le opinioni del barone, anche perché fino a quel momento paradossalmente non furono rilevate leggende religiose, le quali, secondo Maltzan, costituivano le uniche forme narrative della Sardegna.
Delitala afferma che intorno al 1890 prevale l’assenza di un criterio unitario di pubblicazione dei materiali rilevati. Gli studiosi sardi e della penisola oscillano tra edizioni rigorosamente scientifiche attente alla lingua e alla forma e edizioni che curavano principalmente i contenuti, ma non la forma. La maggior parte degli studiosi che collaboravano con la «Rivista delle Tradizioni Popolari» del De Gubernatis e con l’«Archivio per lo Studio delle Tradizioni Popolari» di Pitrè si rifacevano alla raccolta di Mango, di cui ripetevano, secondo l’autrice, soprattutto i difetti: trascrizione non scientifica, traduzione dei testi solo in italiano, spesso con rielaborazioni non dichiarate e assenza di fonti. Tuttavia, Delitala sostiene che nonostante la mancanza di criteri e la asistematicità della ricerca, l’apporto di materiale documentario degli scritti di questo periodo è fondamentale per la conoscenza dei generi narrativi dato che l’interesse andava estendendosi dalle fiabe normali, ai racconti del ciclo di Gesù e di S. Pietro, alle leggende locali e di carattere religioso e ai racconti dello sciocco.
L’assenza di criteri unitari e il prevalere dell’interesse per gli intrecci indipendentemente dalla forma, dipendevano, secondo l’autrice, dagli studi comparativistici in atto sia in Italia sia in tutta Europa, ma soprattutto dall’atteggiamento delle principali riviste italiane di folklore di Pitrè e di De Gubernatis, le quali tuttavia diedero un contributo fondamentale alla conoscenza della narrativa popolare sarda. Delitala afferma che questo rinnovato interesse per gli studi sul folklore e sulla narrativa tradizionale dell’isola interessò anche molti studiosi sardi i quali, consapevoli dei propri limiti, riuscirono a cogliere l’occasione offerta dalla presenza in Sardegna di studiosi preparati provenienti della penisola, per uscire dal provincialismo a cui la situazione dell’isola li costringeva.
Si costituì in questo modo la «Società nazionale per le tradizioni popolari» e nacquero riviste specialistiche interessate alla letteratura popolare quali La stella di Sardegna, Nella Terra dei nuraghes, Vita sarda che ebbero però, come scrive la studiosa «un atteggiamento oscillante tra l’idealizzazione del mondo popolare, la negazione di un valore e il tentativo di farne uno strumento di recupero di un mondo sardo genuino»(18). Tuttavia, secondo Delitala, nell’attività culturale sarda della fine dell’Ottocento, che pure attraversava un periodo di risveglio, era evidente un generale attardamento culturale rispetto a quanto stava accadendo in campo nazionale e internazionale. Solo all’inizio del Novecento, continua la studiosa, con il «Bullettino Bibliografico Sardo» e con l’«Archivio Storico Sardo» anche la Sardegna ebbe due riviste culturali riconosciute a livello nazionale, che sollecitarono, per quanto riguarda la narrativa popolare, il mondo degli studiosi sardi ad un lavoro più scientifico.
Tra i collaboratori del Bullettino e dell’Archivio, Delitala ricorda Pietro Lutzu, un modesto studioso, i cui scritti sono fra i più interessanti di quel periodo per il materiale documentario riportato.
Dal 1914, secondo l’autrice, la prima guerra mondiale pose fine drasticamente alle ricerche e agli studi sul folklore annientando tutti i germi di interesse per la narrativa popolare. Per anni non furono editi nuovi libri, fino al 1922, quando gli studi ripresero vigore con gli stessi caratteri con cui erano iniziati nel 1883: con un prevalente interesse per il documento linguistico più che per quello etnografico, grazie all’opera di un glottologo della penisola: Gino Bottiglioni.
1.3. Gino Bottiglioni e le leggende sarde.
Delitala(19) sostiene che la raccolta di Gino Bottiglioni Leggende e tradizioni di Sardegna, pubblicata nel 1922 da Olschki nella “serie linguistica” della «Biblioteca dell’Archivium Romanicum» è stata la prima raccolta ad estensione regionale, in altre parole, la prima a raccogliere ben centoventisette testi di leggende e tradizioni, in trascrizione fonetica e con traduzione letterale a fronte, provenienti da tutte le aree linguistiche della Sardegna. Questo testo, secondo Enna(20), è considerato ancora oggi una delle più ampie raccolte di testi narrativi sardi, anche se limitato in massima parte alle leggende locali e a carattere religioso.
Nella premessa alle Leggende Bottiglioni rileva con immediatezza i precisi intenti di documentazione linguistica e solo secondariamente etnografica che sono alla base della sua raccolta; del resto anche la sede di pubblicazione dell’opera, cioè la “sede linguistica” della collana Biblioteca dell’«Archivium Romanorum», è indicativa di tale finalità. Bottiglioni scrive chiaramente che «Dimorando in Sardegna per un tempo assai lungo» volle soprattutto «raccogliere documenti linguistici» con l’intenzione di servirsene «per l’esame di alcune particolarità dialettali non ancora ben lumeggiate» e ritenne che il mezzo migliore per «ottenere dalla viva voce del popolo la parlata nativa, schietta e genuina (…) fosse quello d’indurre le (…) fonti a narrare liberamente ciò che più poteva interessarle, cioè le varie leggende arrivate fino a loro attraverso i racconti dei più anziani»(21). Bottiglioni, tuttavia era consapevole di aver raccolto una quantità di materiale che avrebbe interessato anche specialisti di demopsicologia e di folklore, ma, cosciente del limite dei suoi interessi, demandava ad altri studiosi l’approfondimento delle leggende. L’autore, infatti, non credeva che «i pochi cenni (…) sui caratteri generali della leggenda sarda ─ che precedono l’antologia dei testi ─ esauriscano l’argomento interessantissimo; altri, affrontando la questione assai difficile delle fonti, potrà far meglio di me che ho avuto soprattutto uno scopo linguistico»(22).
Le finalità linguistiche all’origine dell’inchiesta e alla base dei criteri editoriali, secondo Delitala(23), passano in secondo piano nella lunga introduzione alla raccolta delle leggende, in cui Bottiglioni illustra gli elementi e i caratteri generali della leggenda sarda.
La prima fondamentale caratteristica rilevata dall’autore in base all’analisi delle leggende e di un accurato esame bibliografico, consisterebbe nella «povertà (…) degli elementi derivanti dall’antico»(24). In particolare Bottiglioni constata una quasi totale assenza di elementi preromani e romani, i quali, secondo l’autore, sono stati sovrastati nella fantasia dei sardi dal processo di cristianizzazione. Bottiglioni scriveva, infatti, che «Gli elementi antichi che si possono rinvenire qua e là nelle leggende appaiono (…), per dir così, cristianizzati e non hanno quasi nulla di peculiare per quello che riguarda la Sardegna, giacché si trovano più o meno anche altrove»(25).
Bottiglioni costatava come il cristianesimo avesse completamente trasformato i simbolismi dell’ideologia religiosa precedente e, per esempio, per quanto riguarda le pratiche magiche-religiose precristiane, connesse al culto delle acque, l’autore osservava che «di queste superstizioni s’impossessò la Chiesa che le adottò alle sue pratiche e ai suoi riti» in modo tale che «oggi nulla di pagano si ritrova nelle credenze sarde intorno alle virtù delle acque, le quali anzi, quasi sempre, portano il nome di un santo»(26). Anche le pietre fitte, continua Bottiglioni, che documentano una religione antichissima «servono ormai di base a delle narrazioni leggendarie di carattere puramente cristiano»(27) così come avviene per i nuraghi e le tombe dei giganti.
Tra i numerosi testi raccolti, l’autore sostiene che le leggende sulle streghe vampiro, sul malocchio e sugli incubi notturni, molto diffuse in Sardegna, non hanno nulla di caratteristico poiché si ritrovano con alcune varianti presso quasi tutte le popolazioni. Elementi caratteristici invece, continua Bottiglioni, si riscontrano nei racconti sulle Domus de Janas, le quali nella fantasia del popolo sardo sono le abitazioni di piccoli esseri denominati nella maggior parte dell’isola Janas.
Bottiglioni constata che nelle leggende sarde non si trovano neppure elementi riconducibili alle invasioni barbariche e all’epica medievale e spiega questo fatto con la mancata penetrazione nell’isola della narrativa popolare sulle gesta carolinge e bretoni e con la circostanza che la storia della Sardegna non è caratterizzata dalle incursioni barbaresche ad eccezione di quella degli arabi. L’autore rileva che nelle leggende dell’isola sono abbastanza notevoli gli accenni alle scorrerie dei Mori, che rimasero particolarmente impresse nella fantasia e nella coscienza del popolo, ai Giudici, in modo significativo ad Eleonora d’Arborea e agli Aragonesi.
In una conclusione parziale Bottiglioni scriveva che le leggende che aveva raccolto rispecchiano, a larghi tratti, le vicende storiche della Sardegna e illustrano i sentimenti che i sardi avevano provato verso i vari dominatori. Tuttavia egli si rammarica per non essere stato in grado di cogliere tutti gli altri atteggiamenti del popolo sardo rispetto alle vicissitudini politiche dell’isola affermando che il materiale rilevato offre soltanto pochi elementi storici, poiché la maggior parte delle leggende erano di argomento religioso.
Bottiglioni osserva che in Sardegna le leggende sui santi, su Cristo, sulla Vergine e i loro miracoli sono alquanto numerose e ciò è dovuto, secondo l’autore, al profondo sentimento religioso del popolo in generale.
Oltre a questi tipi di leggende, l’autore rileva anche un buon numero di racconti che narrano dei castighi divini inflitti a chi ha offeso la divinità, agli invidiosi e a chi si è macchiato del peccato d’avarizia. Questa, osserva Bottiglioni, è concretamente in antitesi con l’ospitalità e lo spirito di fratellanza, caratterizzanti le comunità sarde. Tra i diversi esempi d’avarizia, quello più emblematico e più noto, secondo l’autore, è quello narrato dalla leggenda di Lucia o Giorgia rabbiosa che «era tanto potente e ricca quanto avara e maligna: un giorno ebbe a rifiutare l’elemosina a un povero frate e Dio le trasformò in pietra tutto quel che possedeva»(28). Mario Atzori(29) sostiene che questo tipo di narrativa popolare, caratterizzata da storie di punizioni esemplari degli avari, costituiva un supporto ideologico particolarmente efficace per la conservazione della coesione sociale della comunità e per la celebrazione dei valori e dei comportamenti che presiedono a quella coesione e per il controllo di qualsiasi possibile devianza.
Analizzando i diversi tipi di leggende, Bottiglioni constata che un certo consistente numero narra della fondazione miracolosa per opera della divinità o di un santo di alcune chiese dell’isola, nelle quali, come in antichi monumenti preistorici, il popolo sardo crede siano nascosti dei tesori. L’autore, in un passo di Vita sarda(30), afferma che le leggende sui tesori nascosti, le quali hanno avuto una grande diffusione dappertutto nel Medio Evo, in nessuna regione fiorirono così numerose come in Sardegna, dove la ricerca dei tesori divenne e rimase per molto tempo una vera «febbre di passione» per il popolo. Secondo l’autore questi racconti hanno nel loro complesso un fondo di verità; egli sostiene infatti che gli assalti frequenti dei saraceni dovettero probabilmente indurre le varie popolazioni costiere a fuggire e a salvare i loro averi nascondendoli. Tuttavia, continua l’autore, in generale il popolo sardo attribuisce un’origine meravigliosa al tesoro, il quale, come narrano le leggende, può essere trovato del ricercatore solo per una fortuita combinazione ed esclusivamente dopo aver portato a termine l’impresa prescritta dallo spirito, di solito di natura infernale, che gelosamente custodisce il tesoro. Bottiglioni ci informa che spesso il guardiano del tesoro è proprio il diavolo stesso, il quale viene di solito rappresentato abilissimo nel tendere insidie e nell’ordinare inganni, dai quali però, continua l’autore, ci si difende «ricorrendo ad un’invocazione sacra, al segno della croce o ad uno scongiuro (…) sicché la vittoria finale resta all’uomo assistito dalla divinità»(31). Secondo Atzori(32) questo tipo di leggende riguardanti il diavolo costituivano un sottile strumento di controllo ideologico dei detentori del potere morale e religioso nei confronti della comunità continuamente sottomessa dalla paura del demonio e dell’inferno.
Bottiglioni afferma che le leggende sul ritorno dei defunti sono quelle che meglio rispecchiano il grande terrore che il popolo sardo ha di fronte ai fenomeni soprannaturali. Questa paura, secondo l’autore, si spiega considerando che nella fantasia dei sardi, gli spiriti dei morti che ritornano nel mondo con la loro figura umana provengono generalmente dall’inferno per nuocere ai vivi e questo, scrive Bottiglioni è «il motivo che svolgono quasi sempre le nostre leggende»(33).
Da Delitala(34) apprendiamo che la quantità e la qualità dei testi narrativi, le riflessioni e le analisi fatte da Bottiglioni furono interpretate erroneamente come corrispondenti interamente della narrativa tradizionale sarda, facendo riemergere quel antico pregiudizio formulato per la prima volta da Maltzan sull’assenza di elementi fiabeschi nel patrimonio narrativo della Sardegna.
Capitolo secondo
2. La prima raccolta di fiabe e leggende della tradizione popolare corsa.
2.1. Caratteristiche generali dell’opera.
Hyacinthe Yvia Croce(35) afferma che alla fine del XIX secolo, in Francia, sotto l’influenza di insigni studiosi quali Claude Fauriel, Hersart De La ville Marque, Paul Sébillot(36) e grazie all’apporto della «Societé des Traditions Populaires» e della «Revue des Traditions Populaires», principali organi per la diffusione e pubblicazione dei più importanti articoli scientifici sulle tradizioni popolari francesi, fondati da Sébillot, le ricerche folkloriche si fecero sempre più feconde ed intense.
In questo periodo, continua l’autrice, in tutte le regioni della Francia iniziarono ad essere pubblicate le prime raccolte di canti, proverbi e danze tradizionali, le quali apportarono alla storia e all’etnografia francese un importante contributo.
In Corsica, scrive Hyacinthe Yvia Croce, fu l’eminente folklorista Frédéric Ortoli a pubblicare, nel 1883, la prima antologia di testi narrativi della tradizione popolare corsa, Les Contes populaires de l’Île de Corse(37), e a raccogliere, quattro anni dopo, alcuni tra i più struggenti Lamenti e Voceri(38) della Corsica, i quali furono riuniti in un volume intitolato Les Voceri de l’Île de corse(39), la cui introduzione è, secondo l’autrice «un petit chef d’œuvre de documentation et d’analyse (sui più tradizionali canti popolari corsi) (…) enrichi de commontaires precis, d’annotations judicieuses et claires»(40).
Frédéric Ortoli, nell’Avant-Propos ai Contes populaires de l’Île de Corse, si rammarica del fatto che «jusqu’à présent» fatta eccezione, secondo l’autore, per alcune ricerche particolarmente rilevanti «la littérature populaire n’avait pas fait l’objet d’un travail spécial»(41). Ortoli ritiene, infatti, degne di nota, fino a quel momento, solamente l’opera di Prosper Mérimée(42), nella quale l’autore analizza gli usi e costumi dei corsi, il lavoro di felice Mattei(43), il quale aveva edito nel 1865 un volume di proverbi e motti dell’isola e lo scritto di Salvatore Viale(44), che raccoglie alcuni Voceri della Corsica.
Lo scrittore costata in modo particolare che «les contes et les légendes ont été complètement oubliés»(45) dagli studiosi di folklore, interessati dall’inizio dell’Ottocento quasi esclusivamente ai canti popolari della Corsica, nonostante, sostiene l’autore, l’ampiezza e la varietà del patrimonio narrativo popolare in prosa dell’isola. Ortoli afferma, infatti, che «il n’est presque personne, parmi les gens de la montagne ou de la plaine, qui n’ait à raconter des histoires de fées, de saints ou de diable, qui n’en puisse rapporter une foule ayant trait aux guerres que l’île eut à soutenir contra les envahisseurs, Sarrasins ou Génois; car le souvenir de ces luttes s’est conservé tout à fait vivace dans la mémoire du peuple et est encore soigneusement entretenu dans les longues veillées d’automne et d’hiver»(46).
2.1.1. Rievocazione della Veghja intornu a u fucone.
Ortoli, nell’introduzione che precede l’antologia dei testi, descrive in maniera precisa ed essenziale le lunghe veglie autunnali ed invernali durante le quali, terminate le vendemmie, quando ormai tutti i pastori erano rientrati nei villaggi, le famiglie si riunivano presso un amico o un vicino o un parente per condividere, intorno a u fucone(47), alcune ore della notte ed ascoltare storie fantastiche che, come scrive Mathée Giacomo Marcellesi «les conteurs occasionnels ou les conteurs habituels (…) appelés parfois Capifulaghji»(48) sapevano narrare con gran talento ed abilità.
Ortoli narra che d’inverno, durante le veglie, mentre le castagne cuocevano nel camino e il vino era servito abbondantemente in ampie brocche, inizialmente gli uomini parlavano di caccia o di pesca, dell’avvenimento del giorno, dell’ultima vendetta o della grandezza d’animo di qualche celebre bandito come Antonu Santa Lucia, Galeazzinu o tanti altri. In seguito, la conversazione si faceva sempre più animata grazie al calore del fuoco e al vino della costa, il rumore aumentava e diventava sempre più difficile capirsi. Allora, continua l’autore, quando gli argomenti del giorno erano esauriti e la stanchezza cominciava a farsi sentire, qualcuno si alzava e rivolgendosi al vecchio narratore lo invitava a narrare una fola. Immediatamente tutti i presenti, come descrive abilmente Ortoli, dai più anziani, dai visi incartapecoriti che fumavano le loro pipe d’erba tabacca, ai più giovani seduti per terra, tacevano e, senza mai interrompere, rimanevano in silenzio ad ascoltare i suoi racconti.
Ortoli sostiene che, qualora nel villaggio vi erano dei figli di un eroe di Ponte Nuovo(49) tutto l’auditorio insisteva affinché il narratore raccontasse in modo particolare «cette heure solennelle où la Corse cessa de s’appartenir!»(50) e altre storie su quei tempi di lotta e di dedizione.
A volte il narratore, prima di iniziare a raccontare, come apprendiamo da Geneviève Massignon,
«il se fait (…) prier et lance (…) une formulette pleine d’humour, comme celle-ci:
Una volta, per fortuna
Tecchju di castagne cotte
E cabre, a u lucen di luna, mi parianu giovannotte
Eju corre, corre, corre
C’eranu cabre senza pastore!(51)
Spesso, continua l’autrice, il narratore terminava il racconto con una formula rituale in corso, che ritroviamo alla fine di una sola fiaba nella raccolta di Ortoli:
Fola Foletta
Dite la vostra
Che la mea è detta(52)
Oppure, come possiamo leggere al termine della fiaba di Marie la fille du roi della raccolta di Ortoli, il narratore, allacciandosi al lieto fine conviviale della fiaba, quando essa si concludeva con un matrimonio o un banchetto, esprimendo in maniera umoristica la rassegnazione per non aver potuto partecipare alla festa, concludeva dicendo «Quant à moi, qui n’étais ni princesse ni marquise, on me mit sous la table, et c’est là que je reçus sur le nez une grande partie des os du festin»(53).
2.1.2. Classificazione del materiale narrativo.
Ortoli pubblica in francese, in conformità al piano generale della collection « Les littératures populaires de toutes les nations » fondata nel 1881 da Paul Sébillot e Charles Leclers, della quale Les Contes populaires de l’Île de Corse, costituisce il XVI volume, trent’otto contes e diciassette légendes, classificate «selon un classement rudimentaire par thèmes»(54) come sostiene Paul Arrighi(55) nella Préface ai Contes corses di Geneviève Massignon.
Ortoli ammette di aver avuto notevoli difficoltà a classificare il materiale narrativo e afferma di aver seguito, per superare tale problema, la suddivisione adottata in alcune raccolte analoghe e in particolare nelle opere di Paul Sébillot sulla letteratura orale della Bretagna e di M. Henry Cornoy sulla narrativa popolare della Picardie.
Ortoli suddivide i Contes populaires, che costituiscono la prima parte dell’opera, in una prima sezione intitolata Contes proprement dits (fiabe propriamente dette), che comprende trenta racconti fiabeschi e rappresenta il nucleo più consistente della raccolta e in una seconda sezione denominata Contes pour rire (fiabe per ridere) comprendente racconti di furbi e di sciocchi, i quali costituiscono la parte umoristica del volume.
La seconda parte della raccolta è composta dalle Lègendes ed è ripartita in quattro sezioni in base al tema: la prima, intitolata Les fées, comprende due leggende sulle fate corse, la seconda, La Vierge et les saints, è costituita da cinque storie leggendarie sulla Vergine e sui santi, la terza, Le diable et les revenants, comprende cinque leggende sul diavolo e sulle anime dei defunti che ritornano sulla terra e la quarta, Les légendes diverses, infine, raggruppa cinque narrazioni di vario genere a carattere leggendario.
2.1.3. Narratori e narratrici.
I cinquantacinque testi di contes e légendes, come è possibile ricostruire da alcuni accenni fatti da Ortoli nell’Avant-Propos e soprattutto dalle indicazioni sull’anno e sul luogo di rilevazione, riportate in seguito ad ogni racconto, sono stati rilevati dall’autore tra il 1881 e il 1882, nella circoscrizione di Sartène, nella Corsica meridionale e in modo particolare nei paesi di Olmiccia, Poggio, Zoza, Altagène, Sante-Lucie-di-Tallano e Porto Vecchio, direttamente, come sostiene Ortoli «de la bouche même des paysans»(56).
D’ogni narratore e narratrice, l’autore indica alla fine d’ogni testo, dopo la data di rilevamento, il nome, il cognome, il luogo di provenienza e in alcuni casi la condizione sociale e lo stato civile.
Le informazioni essenziali e precise sull’identità d’ogni informatore ci permettono di stabilire il numero esatto degli intervistati per ogni punto di rilevazione e la percentuale d’uomini e donne.
I narratori, da cui Ortoli rilevò la maggior parte delle fiabe e delle leggende, sono undici:
Antoine Joseph Ortoli, fratello dell’autore, a cui si devono ben undici narrazioni; Antoine Lucien Ortoli, officer d’Acadèmie, proprietario terriero e padre dell’autore; M. Don. Georges Ortoli, di cinquantaquattro anni; M. A. P. Ortoli, cognato dello scrittore; Joachin Ortoli; Alexandre d’Aurelio, proprietario terriero; Vincent Bucchino, coltivatore, tutti residenti ad Olmiccia; Antoine Mattei di Zoza; Joseph Quilichini, proprietario di Poggio e infine François Filippi d’ottantuno anni di Sainte-Lucie-di-Tallano.
Le narratrici sono sei: madame Marini di Porto Vecchio, dalla quale Ortoli rilevò undici fiabe; madame Margherite Colonna, proprietaria e Madamioselle Adelaide de Alma, anch’esse di Porto Vecchio; Madamoiselle Marie Ortoli; Madame Térisina Ortoli entrambe d’Olmiccia e infine Rosalinda Mattei, proprietaria di Zoza.
Purtroppo Ortoli non esplicita i criteri adottati per la scelta della località e degli intervistati né offre spunti per capire il suo modo di procedere.
Arrighi sostiene che la validità delle fonti e le informazioni sull’identità dei narratori indicate da Ortoli, furono sicuramente pregi notevoli per l’epoca, quando gli studi folklorici erano solo agli inizi, tuttavia, secondo l’autore, l’autenticità dei documenti «paraît avoir été trahie par le désir de l’enquêteur de faire oeuvre personnelle»(57).
Anche Hyacinthe Yvia Croce afferma che nonostante il rigore narrativo di Ortoli, l’autore ha eliminato dalle fiabe «tout élément étranger à la source populaire. Ecartant même de son œuvre le souci de la belle forme, lorsque celle-ci pouvait nuire au pittoresque du récit»(58) e senza preoccuparsi di essere accusato di non essere un semplice traduttore, continua l’autrice, Ortoli «il a voulu avant tout, nous restituer dans la leur rude concision, ces légendes séculaires ou l’âme de la Corse est enclose et que les générations se sont transmises pieusement, comme un dépôt sacré»(59).
Lo stesso Ortoli era consapevole che qualcuno potesse sorprendersi per il fatto di trovare nell’opera «des images et des expressions que l’on n’a point toujours costume de rencontrer dans ces sortes de récits»(60). Tuttavia l’autore sostiene di aver raccolto tutti i testi dalla viva voce dei paesani e di aver cercato «autant qui il a été possible, à reproduire non seulement l’idée (delle fiabe) mais la forme et la tournure particulières que leur donnent les conteurs. Cela tient sans doute à la violence des passions, excessives en tout sous cet ardent climat et à richesse de l’idiome qui sert à les exprimer»(61).
2.2. Il contenuto delle fiabe.
2.2.1. Sistema classificatorio del folklore favolistico d’Aarne e Thompson.
Stith Thompson(62) afferma che il materiale narrativo tradizionale è così straordinariamente vario nelle sue forme, esteso geograficamente e storicamente che non può essere preso in esame in tutto il suo complesso senza una catalogazione sufficientemente logica ed esauriente. Ogni ramo della conoscenza, secondo l’autore, per diventare oggetto di studio serio e rigoroso deve, infatti, essere inquadrato in una classificazione.
Thompson rileva che il primo tentativo di un riordinamento regionale della produzione favolistica, per mezzo di un sistema di catalogazione fu fatto nel 1864 da J.G. Von Hahn. Il suo sistema, tuttavia, non fu mai usato, innanzi tutto perché si basava su un numero relativamente piccolo di racconti, per la portata geografica limitata e per l’eccessiva preoccupazione dell’autore di collegare le fiabe moderne con gli antichi miti greci e in secondo luogo, per la mancata differenziazione tra tipo della fiaba e gli elementi che lo compongono. La maggior parte dei folcloristi continuò dunque a fare riferimento alle fiabe adoperando titoli ben noti, come quello di Cenerentola o d’Amore e Psiche oppure riportando i numeri o la sigla puramente casuali che quei titoli avevano nelle grandi raccolte favolistiche, come nei Kinder-und Hausmarchen di Jacob e Wilhelm Grimm. Ad ogni modo, questi tre sistemi di riferimento (il titolo ben conosciuto, i numeri dei Grimm e il siglario) adoperati fino all’inizio del Novecento erano d’aiuto solo a chi conosceva i siglari o i titoli impiegati ed aveva assoluta familiarità col linguaggio usato. Tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento, continua l’autore, furono fatti diversi tentativi di costruire dei siglari completi ma nessuno di questi, secondo Thompson, determinarono un progresso nel campo della classificazione del materiale narrativo tradizionale, poiché consistevano semplicemente in elenchi alfabetici di motivi e temi mescolati senza discriminazione.
Per una catalogazione sistematica del folclore favolistico, è, infatti, indispensabile, ad avviso dell’autore, una netta differenziazione tra tipi e motivi, poiché i problemi di riordinamento sono alquanto differenti per i due settori. Per Thompson «un tipo è una fiaba tradizionale con un’esistenza indipendente» la quale «può essere raccontata come narrazione completa ed avere un suo significato, indipendentemente da quello di qualsiasi altro racconto. (…) può consistere di un motivo solo o anche di più motivi»(63). Un motivo, invece, è «il più piccolo elemento di un racconto capace di persistere nella tradizione. La maggior parte dei motivi, continua l’autore, si divide in tre classi. Nella prima sono compresi i personaggi di un racconto (…). La seconda classe comprende certi elementi che si trovano nello sfondo dell’azione: oggetti magici, costumi inusitati, credenze strane e simili. Nel terzo gruppo si trovano i singoli episodi, che comprendono la gran maggioranza dei motivi. È questa ultima classe quella che può avere un’esistenza indipendente e assume valore di vero e proprio tipo di racconto»(64).
Thompson rileva che il primo indice di tipi di fiabe in cui comparve una chiara distinzione tra tipi e motivi e che acquistò importanza e validità internazionale fu compilato da Antti Aarne nel 1910, con lo scopo pratico di elaborare un sistema comune d’ordinamento e classificazione dei vari tipi di fiabe, la cui necessità era sentita ormai da lungo tempo in molti paesi. Thompson c’informa che, solo dopo che Aarne mostrò chiaramente il suo sistema generale di classificazione e in particolar modo dopo aver dimostrato l’obiettiva validità del suo metodo, gli studiosi della favolistica compresero il valore del suo indice e iniziarono ad utilizzarlo come base pienamente soddisfacente del loro lavoro.
Secondo il sistema generale di classificazione d’Aarne, esposto nell’introduzione ai suoi Verzeichnis der marchentypen «le fiabe, prese nel loro insieme, si dividono, agli effetti della classificazione, in tre gruppi principali: favole di animali, fiabe normali, e fiabe umoristiche. Per quanto riguarda le favole di animali, i gruppi sono differenziati a secondo del tipo di animali che entra nella storia; in ciascuno di questi gruppi, poi, sono riunite insieme le favole che trattano degli stessi animali. (…) Il maggior gruppo di racconti, quello delle fiabe normali, si divide in fiabe magiche, o meravigliose, fiabe religiose, fiabe romantiche, e fiabe che trattano di un orco stupido. Nelle fiabe magiche si trova sempre un elemento soprannaturale, mentre le storie romantiche si svolgono tutte entro i limiti del possibile.(…) Quale prima suddivisione del gruppo delle facezie e degli aneddoti la classificazione presenta le storie del semplicione (…) seguono le “coppie maritate” (…) In quest’ultimo gruppo, che è il più numeroso, vi sono ulteriori suddivisioni in racconti di uomini astuti, di casi fortunati, di uomini stupidi, di parroci. L’ultima sezione del gruppo delle facezie e degli aneddoti è formato dai “racconti di bugie”, che si suddividono in racconti di caccia, di animali enormi, di oggetti».(65)
Nel 1924, date le numerose aggiunte dei tipi proposte a partire dalla pubblicazione dell’indice di Aarne nel 1910, Thompson avvertì l’esigenza di una revisione e un ampliamento del catalogo che pubblicò col titolo The types of Folk-Tale nel 1928.
I cambiamenti attuati nella revisione dall’autore, consistevano in aggiunte prese da fiabe francesi e da storie letterarie ben conosciute, entrate a far parte della tradizione popolare; nel caso di racconti complessi, in descrizioni del contenuto dei tipi in forma estremamente compendiata e in analisi condotte per gruppo di motivi, in riferimenti alle versioni americane, indiane e africane, senza però intaccare lo schema generale d’Aarne.
In seguito, Thompson, cominciò ad interessarsi anche del problema di classificare i motivi particolari, gli elementi narrativi del racconto e dopo un lungo lavoro di ricerca, numerazione e sistemazione di materiale etnografico, riuscì ad individuare una serie di forme e di categorie, una costellazione di motivi ricorrenti nelle trame fiabesche e le ordinò in un’opera intitolata Motif-Index of Folk-Literature, la cui pubblicazione cominciò nel 1932 e fu completata nel 1936.
Lo scopo dell’opera, fu quello essenzialmente pratico, come precisa Thompson, di «raccogliere insieme elementi narrativi dal maggior numero possibile di campi diversi della narrativa tradizionale (…) fiabe e miti di popoli primitivi d’ogni luogo, storie e ballate europee e orientali, leggende locali (…) in modo da agevolare il reperimento (…) di fornire un prezioso stile di riferimenti, ai fini sia dello studio analitico sia preparazione di repertori accurati per vasti complessi di materiali»(66).
2.2.2. Tipi e motivi fiabeschi.
Analizzando minuziosamente il materiale narrativo compreso nella prima sezione Contes proprement dits, esaminando attentamente il contenuto dei testi, gli intrecci e confrontandoli con i tipi di fiabe presi in esame nell’indice internazionale d’Aarne e Thompson(67), che come abbiamo già detto, registra numerandoli gli intrecci narrativi internazionalmente attestati, ciascuno con le proprie varianti, il quadro che emerge è caratterizzato da una netta prevalenza sulle altre categorie narrative, di fiabe di magia e di racconti a carattere religioso e moralistico. Nel corpus sono inoltre presenti due aneddoti burleschi, una fiaba romantica, un racconto d’animali, una fiaba a formula e due leggende, una dei mesi e una di fate.
In seguito all’analisi contenutistica dei racconti, abbiamo individuato, sebbene talora in modo parziale e con attribuzione incerta, ventiquattro tipi internazionali, come indicato dallo schema seguente, in cui riportiamo il numero di riferimento del testo nella raccolta, il titolo, il genere narrativo, il tipo rappresentato oppure il solo motivo riscontrato, nel caso in cui non è stato possibile un’identificazione del tipo.
NUMERO | TITOLO | CATEGORIA NARRATIVA | TIPI E MOTIVI |
I | Le berger et le mois de mars. | Leggenda dei mesi. |
|
II | Les trois crapauds. | Fiaba a carattere religioso. | T756C. Il grande peccatore. |
III | Les sept paires de souliers de fer et les trois baguettes de bois. | Fiaba di magia. | D791. Rottura dell’incantesimo ad un’unica condizione. |
IV | L’anneau de la princesse. | Fiaba di magia. | T560. L’anello magico. |
V | La jeune fille amoureuse du rossignol. | Fiaba di magia. | B600. Lo sposo animale. |
VI | L’anneau enchanté. | Fiaba di magia. | T451. La fanciulla che cerca i fratelli. |
VII | Le deux boites. | Fiaba romantica. | T870A. La piccola guardiana delle oche. |
VIII | La fontaine a l’eau de rose. | Fiaba di magia. | T551. I figli alla ricerca di una medicina miracolosa per il padre. |
IX | Marie la fille du roi. | Fiaba di magia. | T510A. Cenerentola |
X | La soupe aux pierres. | Fiaba a carattere religioso. | T750. Ospitalità premiata. |
XI | La bonne servante. | Fiaba a carattere religioso. | D1500. 1.4. La pianta magica curativa. |
XII | Les trois oranges. | Fiaba di magia. | T408. Le tre melarancie. |
XIII | Les trios pommes de Mariucella. | Fiaba di magia. | T511. Un occhio, due occhi, tre occhi. |
XIV | Ditu Migniulellu. | Fiaba di magia. | T700+T510B. Pollicino e Cenerentola. |
XV | Le petit teigneux. | Fiaba di magia. | T554. Gli animali riconoscenti. |
XVI | Marie au fil d’or. | Fiaba di magia. | T500. Tom-Tit-Tot. |
XVII | L’austeria di I figli di u diauli. | Fiaba romantica. | T910A. L’esperienza rende saggi. |
XVIII | La bête a sept têtes. | Fiaba di magia. | T300+T851. L’ammazzadraghi e La principessa che non sa risolvere l’indovinello. |
XIX | Harpalionu. | Fiaba di animali. | B240. Il re degli animali. |
XX | Le trésor des sept voleurs. | Fiaba di magia. | T676 +T954. Apriti Sesamo e I quaranta ladroni. |
XXI | Le ruse valeur. | Fiaba d’astuzia. | K602. Nessuno. |
XXII | Saute en mon sac! | Fiaba di magia. | T330B. Il diavolo nello zaino. |
XXIII | Bastuncedu dirida. | Fiaba di magia. | T563. I tre doni: la tovaglia, l’asino e il bastone. |
XXIV | L’âne aux sequins d’or. | Fiaba di magia. | T554. Gli animali riconoscenti. |
XXV | Poverello. | Fiaba a carattere religioso. | Q200. Azioni punite. |
XXVI | Comment André coupa le nez du curé. | Fiaba d’astuzia. | T1735. Accordo truffaldino. |
XXVII | Le joyeux Misère. | Fiaba di magia. | T8OO. Il sarto in paradiso. |
XXVIII | Il faut mourir. | Leggenda di fate. |
|
XXIX | La mère de saint Pierre. | Fiaba a carattere religioso. | T804. La madre di San Pietro cade dal cielo. |
XXX | Pedilestu et Mustaccina. | Fiaba a catena. | T2021A. La morte del gallo. |
Come si può notare, Ortoli inizia la raccolta con un racconto a carattere leggendario, Le berger et le mois de mars(68), che narra di un pastore che, dopo aver trascorso tutto l’inverno a pregare i mesi, ne sfida e bestemmia uno, il quale, fattosi prestare alcuni giorni dal mese successivo gli si scatena contro come un nume irato, distruggendo tutto il gregge, per punire la sua insolenza.
«Furieux de tant d’ingratitude, Mars alla trouver son frère Avril et lui dit:
O April lu me fratedu,
Impresta tre di li to di,
Par punì lu pasturedu
Li ni vodu fa pinti.
Et Avril (…) les lui donna.
Aussitôt, parcourant toute la terre, Mars rassembla en un instant et vents, et maladies, et tempêtes effroyables. Tout cela fut déchaîné en même temps sur le malheureux troupeau»(69).
Questa leggenda, come apprendiamo da Massignon(70), è particolarmente attestata in Corsica e si presenta in diverse varianti. Tuttavia, secondo l’autrice, il tema dei giorni prestati non è peculiare dell’isola, poiché è diffusa nella maggior parte dei paesi del mediterraneo e in modo particolare nell’Africa del nord. Massignon afferma anche che questo racconto leggendario è stato oggetto d’alcuni studi approfonditi, nel 1874 per opera di Paul Meyer e nel 1889 per conto di Lazare Shaineanu, i quali hanno rilevato alcune varianti italiane (in Sicilia, a Bergamo e in Sardegna) spagnole e portoghesi.
Accanto a temi ad ampia diffusione internazionale, come ad esempio alcune versioni della storia di Cenerentola, tra i contes proprement dits compaiono commistioni tra più intrecci che variano e vivacizzano la narrazione, in cui si trovano associati elementi narrativi appartenenti a tipi fiabeschi differenti. È il caso della fiaba di Ditu Migniulellu(71), della Bête a sept têtes(72) e di Le trésor des sept voleurs(73).
La fiaba di Ditu Migniulellu, che rappresenta una variante di Cenerentola, esordisce con l’episodio, con il quale ha inizio la storia resa popolare da Perrault con il titolo di Le petit poucet (fiaba tipo 327), ossia l’episodio della nascita miracolosa di una creatura minuscola, non più alta di un pollice, chiamata proprio per la sua statura Ditu Migniulellu.
«Malgré le grand désir qu’elle en avait, une femme, mariée depuis longtemps, ne pouvait avoir d’enfants.
Un jour elle se dit:
─ Ah si j’avais une petite fille, comme je serais heureuse! Il me suffirait qu’elle fût aussi grande que mon petit doigt. (…)
Neuf mois après cette femme eut une petite fille, si petite et si mignonne que jamais on avait vu de pareille. C’est pour cette raison qu’on l’appela Ditu Migniulellu»(74).
Nella fiaba de La Bêtes a sept têtes, invece, troviamo intrecciato il tema dell’Ammazzadraghi (fiaba tipo 300) e quello de La principessa che non sa risolvere l’indovinello (fiaba tipo 851), che costituisce la parte centrale della narrazione.
Questa fiaba racconta di un giovane, Bertuolo, ultimogenito di tre figli, che un giorno «ne voyant revenir aucun de ses deux frères (…) dit à sa mère:
─ Je veux me mesurer avec le serpent à sept têtes qui est en France. Lorsque je l’aurai tué, je me marierai avec la fille du roi et je viendrai vous chercher»(75). Dopo aver viaggiato a lungo, il protagonista vede qualcosa che gli offre lo spunto sul quale costruire l’indovinello che era necessario proporre al re (oltre l’uccisione del serpente) per ottenere la mano della principessa: vede morire avvelenato il suo asino Bertu, dopo aver mangiato una delle sue Freccie (tipico dolce corso al Brocciu) che causano la morte di sette briganti, i quali sono mangiati da cento corvi, che a loro volta cadono avvelenati, infine, mentre si trova su di un ponte, vede nel fiume un tronco d’albero trasportare un uccello. Ecco dunque l’indovinello proposto dall’eroe al re: «J’avais deux Freccie, Qui ont tué Bertu, Qui en a tué sept, Qui en ont tué cent. Je n’étais ni au ciel ni sur terre, Et j’ai vu un mort qui portait un vivant»(76). Il re rimane sconcertato e nonostante i numerosi tentativi non riesce a risolvere l’enigma. Bertuolo si reca nel luogo dove vive il serpente e con la spada gli taglia tutte le teste. Ritornato al palazzo del re, il giovane dichiara di aver ucciso il mostro e sposa immediatamente la principessa.
Le trésor des sept voleurs, invece, variante corsa della celebre fiaba Apriti Sesamo (fiaba tipo 676), entrata nella tradizione orale di quasi tutti i paesi europei, dopo che, all’inizio del XVIII secolo, Gallard tradusse in francese Le mille e una notte, si conclude con la storia ugualmente nota de I quaranta ladroni (fiaba tipo 954).
In Le trésor des sept voleurs, Stevanu, un povero cercatore di fortuna, vede, nascosto su un albero sette ladroni che entrano in una montagna dopo aver pronunciato le parole magiche: «Serchia, ouvre-toi». Subito «une porte s’ouvrit, et les voleurs, après avoir pénétré dans la caverne, direct aussitôt:
─ Serchia, ferme-toi.
Le lendemain matin les brigands s’en allèrent.
Lorsqu’ils furent bien loin, le pauvre chercheur de fortune, qui était encore perché sur son arbre, descendit doucement; à son tour, il dit en touchant la porte de la grotte.
─ Serchia, ouvre-toi»(77). Entrato nella grotta, Stevanu prende tutto l’oro che è in grado di recuperare e lo porta a casa. Da Francesco, suo fratello, si fa prestare una bilancia, ma una moneta rimasta attaccata rileva però il suo segreto. Francesco, cerca allora di imitare il fratello povero, ma una volta dentro la montagna dimentica la formula per uscire e viene sorpreso dai ladroni, che lo uccidono. Dopo aver scoperto di essere stati derubati, i briganti tentano di entrare in casa di Stevanu, nascosti dentro otri per l’olio.
«Les brigands arrivèrent à la maison de Stevanu au commencement de la nuit.
─ I Balaninchi! I Balaninchi! Chi da alloghiu?
─ Entre ici, mon brave, ma maison est toujours ouverte aux voyageurs.
Et le chef entra.
Le maître de la maison (Stefanu) l’aida même à décharger ses mulets; mais, en faisant cette besogne, un soupçon lui vint à l’esprit; les outres étaient bien dures pour être remplies d’huile. Si c’étaient des voleurs?»(78). Stevanu, scoperto il piano dei briganti, riesce astutamente ad ucciderli e a consegnare il capo alla giustizia.
Tra i contes proprement dits vi sono alcuni racconti, che a causa della complessità della loro trama sfuggono ad una classificazione precisa, in cui è possibile individuare solamente alcuni motivi registrati e catalogati da Thompson(79), come ad esempio nella fiaba Le sept paires de sauliers de fer et les trois baguettes de bois(80), in cui si può distinguere il motivo della liberazione dall’incantesimo, la cui rottura è condizionata da una serie d’avvenimenti (D791). In questa fiaba l’incantesimo si spezza nel momento in cui Caterinella, la protagonista, giunge a compiere un’ardua impresa: logorare sette paia di scarpe di ferro e tre bastoni di legno, le une bussando alle porte, le altre percorrendo i reami.
Un’altra fiaba di cui non abbiamo ritrovato un riscontro nell’indice dei tipi d’Aarne e Thompson, è la fiaba di La jeune fille amoureuse du rossignol(81), in cui appare il motivo dello sposo animale (B600). Questa fiaba narra di una fanciulla «nommée Belladonna, si jolie, que jamais on n’en avait vu de pareille»(82) la quale desidera sposare un usignolo. Per questo motivo è rinchiusa dalla madre che cerca di ostacolare l’unione. Belladonna, ad ogni modo, riesce a fuggire trasformandosi in una mosca ed a ricongiungersi col suo sposo. La fiaba si conclude tuttavia in maniera drammatica, infatti «se voyant découverte, la belle amoureuse se changea en rosier.
Mais cette fois elle n’eut pas de chance. Sa mère s’empara du rosier (…) et s’en retourna à la maison.
Pendant son voyage, le rossignol chantait tristement:
─ Rendez-moi mon l’épouse;
Nous sommes unis pour toujours.
(…) son coeur et le mien ne formaient qu’un seul coeur, et lorsqu’elle mourra, je mourrai.
(…) Lorsque la mère de Belladonna arriva chez elle le rosier tout entier était desséché (…) le rossignol(…) aussi était mort de douleur»(83).
2.2.3. Storie a carattere religioso.
Come abbiamo già accennato, abbiamo costatato nella raccolta un’alta incidenza di racconti a carattere religioso, che illustrano argomenti morali e ammonitori.
Il tema su cui si fonda la maggior parte di essi è la dura giustizia di Dio nei confronti dei trasgressori del volere divino. In alcuni casi si tratta di punizioni orribili, sempre in ogni modo giustificate, nella mente del novellatore, dalla considerazione che il peccatore riceve quel che si merita. Così avviene nella fiaba Les trois crapauds(84) (fiaba tipo 756 C) in cui una povera peccatrice, dopo aver condotto una vita dissoluta e aver abortito per ben tre volte, deve cercare di assolvere una durissima penitenza affinché possa ricevere il perdono di Dio.
«Vous irez remplir ce calice à la fontaine de l’Eau Bénite ─ le dice il confessore ─ vous y rencontrerez un dragon à sept têtes qui cherchera à vous dévorer. Voici une épée, vous l’en frapperez. Si vous réussirez à lui couper une tête vous serez sauvée, sinon c’est que Dieu ne veut pas vous pardonner, et vous serez dévorée»(85). La povera donna, non dimostrando alcun pentimento, viene divorata dal dragone con sette teste.
In alcuni casi, i misteriosi castighi divini sono meno severi e si manifestano in forme razionalizzate, ma ugualmente esemplari, come in Poverello(86) (Q200), in cui il presidente del tribunale di Bastia condanna il fratello di Poverello, il protagonista, a pagare un’ingente somma di denaro per averlo costretto a trasgredire il divieto di lavorare il giorno di Natale «malgré les observations des paysans et du curé»(87) rischiando la scomunica. Poverello, infatti, bisognoso di lavorare, aveva supplicato il fratello di prestargli il suo carro e i buoi ed egli aveva acconsentito all’unica condizione di lavorare il giorno di Natale, ma «au dernier tintiment de la cloche qui sonnait midi, la terre s’entr’ouvrit et engloutit la charrue et les boeufs»(88). Il fratello di Poverello non credendo alla sua versione dei fatti, lo accusa di furto e gli intima di recarsi davanti al giudice di Bastia. Il presidente del tribunale condanna oltre al fratello di Poverello, anche un oste, incontrato lungo la strada per Bastia, il quale si era rifiutato di offrirgli ospitalità e che per giunta lo accusava di essere la causa dell’aborto della moglie; un mulattiere, che lo incolpava di aver crudelmente mutilato il suo mulo, mentre in realtà cercava di salvarlo da un terreno fangoso, e un monaco, che a sua volta lo accusava di avergli spezzato le braccia precipitando da un monte, mentre in verità aveva solamente l’intenzione di porre fine alla sua vita.
Un’altra storia di castigo è La soupe aux pierres(89) (fiaba tipo 750), in cui il Signore, in sembianze di un mendicante, premia l’ospitalità ricevuta da una povera donna mentre riduce in miseria la sorella per punirla della sua mancanza di carità. «Il faut que j’humilie l’orgueil des méchants ─ dice il Signore alla sorella generosa che ─ en était bien désolée, mais elle n’avait rien pu contre la volonté de Dieu»(90).
Tra questi tipi di racconti abbiamo riscontrato la versione di due fiabe particolarmente diffuse e note in tutti i paesi cristiani che hanno come tema l’ammissione del protagonista in paradiso e che presentano San Pietro come custode del regno celeste. Si tratta delle fiabe di Le joyeux Misère (fiaba tipo 800) e di La mère de saint Pierre (fiaba tipo 804).
In Le joyeux Misère(91), Misère «le bon vivant que l’amour du vin et des femmes a si vite conduit à l’indigence et à la mort»(92) chiede a San Pietro il permesso di lasciare le sue scarpe in paradiso «afin que j’y puisse avoir quelque chose qui m’ait appartenu»(93). Con quest’espediente, un giorno che San Pietro è assente, Misère riesce ad introdursi in paradiso. Una volta entrato, Misère continua la vita dissoluta che aveva condotto sulla terra e per questo motivo «fut chassé du paradis. Il retourna su terre, où toujours et partout vous le trouverez»(94).
Thompson(95) afferma che questa fiaba è stata una delle storie preferite dagli scrittori di libri burleschi del Rinascimento e presume che i novellatori l’abbiano desunta da queste versioni scritte, diffondendola in varie parti d’Europa e ad Oriente.
In La mère de saint Pierre(96), la madre di San Pietro è stata mandata all’inferno per la sua cattiva condotta in vita. San Pietro ottiene il permesso di liberarla facendola arrampicare su di una foglia di pero per elevarla in paradiso. Ma gli altri dannati le afferrano i piedi ed essa li colpisce; per punizione, la donna ripiomba nell’inferno.
La storia letteraria di questo racconto, secondo quanto sostiene ancora Thompson, è stata ripercorsa fino ad un poema tedesco del XV secolo, ma si tratta principalmente di una fiaba orale, nata dalle labbra dei novellatori illetterati dell’Europa orientale e meridionale, dove sono state raccolte oltre cento versioni.
2.2.4. La storia di Cenerentola.
Analizzando gli intrecci dei racconti rilevati da Ortoli, abbiamo individuato nel corpus di fiabe tre varianti della fiaba di Cenerentola: Marie la fille du roi(97), Les trois pommes de Mariucella(98) e Ditu Migniulellu(99).
La storia di Cenerentola (fiaba tipo 510A) è probabilmente la più celebre di tutte le fiabe popolari, specialmente, come sostiene Thompson, se s’include sotto questo titolo anche lo sviluppo speciale di questa fiaba nota come Peau d âne (fiaba tipo 510B). Queste fiabe, che spesso si fondono insieme o si scambiano gli elementi di cui costano, non soltanto entrarono a far parte delle raccolte fiabesche di Straparola, di Basile e Perrault, ma hanno una storia letteraria ancora più antica. È stata rilevata, infatti, una versione cinese di Cenerentola risalente all’IX secolo d. C., e una variante di Peau d’âne del XVI secolo. Entrambe le fiabe sono state oggetto di numerosi studi, tra i quali, quello di Marian Roalfe Cox, Cinderella del 1893, considerato il più vasto e quello di Anna Brigitta Rooth, The Cinderella cycle del 1951.
La fiaba di Marie la fille du roi (fiaba tipo 510B) comincia con il racconto dell’allontanamento della protagonista da casa per opera del padre, poiché essa non risponde all’attesa del padre quando questi le chiede quanto lo ami. Marie risponde, infatti al padre: «Moi, mon père, je vous aime comme une fille soumise et dévouée doit aimer un père comme vous»(100). La principessa, dopo aver a lungo viaggiato, trova ai bordi di una strada il cadavere di un asino e «lui éleva la peau avec son couteau, la fit ensuite sécher, puis elle s’en revêtit afin qu’on la prit pour simple servante»(101). Così vestita, Marie prende servizio presso un castello. «Tous les matins marie allait conduire les chèvres dans les montagnes, mais la peau d’âne dont elle s’enveloppait la rendait si laide que personne n’osait la regarder»(102). Il figlio del re la vede nei suoi abiti meravigliosi e se ne innamora perdutamente. Marie fugge ma «malheureusement avait oublié, dans sa précipitation, un beau petit soulier. Il était si petit, si petit, que jamais on n’en avait vu de semblable»(103). Grazie alla scarpetta perduta il principe riconosce la fanciulla. La fiaba termina con il ravvedimento del padre di Marie e con le nozze dell’eroina con il principe.
La fiaba di Les trois pommes de Mariucella è una versione della storia di Un’ occhio, due occhi, tre occhi (fiaba tipo 511), la quale è cosi vicina, nei particolari, a Cenerentola e a Peau d’âne, che, secondo Thompson, può essere considerata una variante.
Mariucella «la plus jolie fille du royaume»(104) è tormentata e umiliata dalla matrigna «une femme laide comme le péché mortel»(105) e dalla sorellastra Dinticona, invidiose della sua bellezza, le quali la costringono a custodire le vacche e a filare enormi quantità di filo di capra. Mariucella riceve però l’aiuto di una vacca (reincarnazione della madre) che assolve il compito imposto. La matrigna insospettita, la spia e uccide la vacca. Mariucella segue le ultime istruzioni date dalla madre e si reca alla fontana, a lavare le sue interiora. Qui, incontra il figlio del re che promette di venirla a cercare. All’interno delle interiora, la fanciulla trova tre mele e come suggerito dalla madre «elle jeta une pomme sur le toit, et aussitôt il en sortit un coq aux grandes ailes; l’autre pomme donna naissance à un magnifique pommier qui se couvrit immédiatement de fruits exquis. Mais, chose curieuse, l’arbre se changeait immédiatement en ronce lorsqu’une autre personne que Mariucella venait à s’en approcher»(106). La matrigna, appreso che degli ambasciatori del principe stavano venendo a prendere Mariucella, la rinchiude in un barile e veste sontuosamente Dinticona, ma mentre Dinticona si appresta a partire con gli ambasciatori, il gallo canta quattro volte: «Couquiacou! Couquiacou! Mariucella est dans le tonneau et Dinticona sur le beau cheval».(107) Gli ambasciatori allora, insospettiti, corrono in cantina e aprono tutti i barili. «Dans l’un d’eux ils y trouvèrent Mariucella, plus belle que jamais, habillée qui elle était, on ne sait comment, d’une robe de soie bleue, toute garnie de fils d’or»(108).
La fiaba di Ditu Migniulellu, come abbiamo già messo in evidenza, vede intrecciarsi la storia di Pollicino e di Cenerentola. In questa fiaba, la madre della minuscola eroina decide un giorno di liberarsi della figlia perché: «restait toujours petite. Elle était dans sa seizième année et sa faille n’avait pas beaucoup grandi. Sa maman (…) la détestait alors pour cette raison. Elle ne pouvait plus la voir.
Un jour elle se dit:
─ Que puis-je faire d’une fille aussi petite. Elle ne sait pas travailler et se noierait dans un verre d’eau.
Comme la mère de Ditu Migniulellu, était alors dans le jardin, voyant une marmite, elle y mit sa fille dedans»(109). Rinchiusa nella pentola, la piccola eroina, per distrarsi, si mette a cantare dolcemente. In quel momento passa il figlio del re che udendo la sua voce e giurando di sposarla, la libera e la conduce alla reggia. Il principe, che «il s’ennuyait beaucoup de voir comme Ditu Migniulellu était petite»(110) decide di dare un ballo ma, proibisce a Ditu Migniulellu di partecipare minacciandola per tre sere consecutive con uno degli oggetti della bardatura (la bride, l’éperon e la cravache). Rimasta sola, l’eroina si dispera e piange ma compare la fata-madrina che le domanda: «─ Qu’as-tu donc, ma belle enfant? C’est parce que tu ne vas pas au bal que tu pleures ainsi?
─ Oui, ma belle dame.
─ Calme-toi, je suis la fée qui, à ta naissance, s’est chargée de ton bonheur.
Et d’un coup de sa baguette, la bonne fée transforma Ditu Migniulellu en la plus belle jeune fille qu’on pût voir. Elle était grande, svelte et toute habillée de soie et d’or.
─ Maintenant je vais te conduire au bal.
Et Ditu Migniulellu fut aussitôt dans une voiture traînée par de jolis papillons»(111). Il principe se ne innamora e le chiede da dove proviene. La fanciulla risponde allusivamente d’essere, la prima sera, del paese della briglia, la seconda, del paese dello sperone e, la terza, del regno della cravatta e sparisce ogni volta prima che il ballo ha termine. Alla fine, il riconoscimento si compie con un anello che Ditu Migniulellu fa trovare in una torta, al principe ammalato di malinconia.
Confrontando i tre testi, possiamo notare che, nonostante le differenze tra queste tre versioni corse di Cenerentola siano alquanto vistose, la trama essenziale del racconto non è alterata. Nelle tre storie, infatti, sono presenti i sei gruppi di motivi, che costituiscono gli elementi caratteristici, costanti della fiaba di Cenerentola, fissati nell’indice d’Aarne e Thompson: l’eroina perseguitata, l’aiuto magico, l’incontro con il principe, la prova d’identità e infine il matrimonio col principe.
2.2.5. Fiaba a catena o a sovrapposizione.
La sezione delle fiabe propriamente dette si conclude con una fiaba a catena o a sovrapposizione intitolata Pedilestu et Mistaccina(112) .
La fiaba narra di un gatto, chiamato Pedilestu che per impedire che la gatta Mustaccina muoia strozzata da una mandorla, va a procacciarsi del lardo, che si trova in un armadio, ma l’armadio si rifiuta di aprirsi. Il gatto, allora, invoca aiuto, ma l’aiuto dipende sempre da un altro aiuto; soltanto Dio, infine glie lo concede. La formula finale è: «─ O mon Dieu! Envoie de la pluie, pour que la rivière donne de l’eau au pré, qui produira beaucoup d’herbe, la quelle fera donner aux vaches beaucoup de lait au marchand, qui me donnera de l’argent pour que je paie le serrurier qui me fera la clef qui ouvrira l’armoire où est renfermé le lard qui doit graisser le gosier de Mustaccina, étranglée par une amande.
Dieu eut pitié du pauvre chat.
Il envoya de la pluie, et aussitôt la rivière donna de l’eau qui, produisant de l’herbe, engraissa les vaches, qui donnèrent du lait au marchand, qui donna de l’argent à Pedilestu, qui court payer le serrurier, qui fit aussitôt la clef qui ouvrit l’armoire»(113).
Tutto l’interesse della fiaba è concentrato nel ripetersi di una conversazione che man mano si arricchisce di sempre nuovi argomenti, che trovano la loro ragione nel precedente episodio. L’effetto di questa storia è un effetto scherzoso, caratteristica peculiare delle fiabe a catena o a sovrapposizione. Questa storia appartiene ad un gruppo di fiabe a formula che ha per tema la morte di un animale, di solito un gallo o una gallina, la più nota tra le quali è, secondo Thompson(114), La morte del gallo (fiaba tipo 2021A), di cui la fiaba rilevata da Ortoli, a nostro avviso, è una variante.
2.3. Elementi e caratteri generali delle leggende corse.
2.3.1. Les Fées (Le fate).
Ortoli, nell’introduzione alle légendes de fées, afferma che in tutti i villaggi della Corsica sono particolarmente diffuse le creazioni leggendarie intorno alle fate. Secondo quanto si narra in queste leggende popolari, generalmente le fate vivono nelle grotte più profonde e inaccessibili all’uomo oppure costruiscono la loro dimora sul fondo dei laghi, sulle alte montagne della Corsica. Esse sono concepite, nella fantasia del popolo corso, come splendide donne dotate di una bellezza straordinaria, eterna e di una voce deliziosa e incantevole.
«Francesco(…) il vit alors la plus belle jeune fille qu’il soit possible d’imaginer. Elle était toute resplendissante de diamants. Sa longue chevelure blonde lui couvrait les épaules. Sa robe était de soie bleue brode d’or, et ses petits souliers disparaissaient sous deux grandes étoiles de pierres précieuses»(115).
Le fate, in Corsica, come si deduce dai testi leggendari, non hanno un nome speciale; solitamente prendono il nome dell’antro o del lago che esse abitano. Le leggende raccontano che, nonostante vivano in luoghi impenetrabili, è possibile a volte sorprendere queste creature meravigliose a fare il bucato ai bordi dei laghi o all’entrata delle grotte in cui dimorano, ma «malheur à elles si le sommeil les surprend!» scrive Ortoli, sempre nell’introduzione, infatti «celui qui sémparerait d’une fée ─ precisa l’autore ─ croyant sa fortune faite, ne la laisserait pas partir pour tout au monde»(116). Questo è il caso della leggenda intitolata La fée du Rizzanese(117). Essa racconta che un uomo denominato Poli d’Olmiccia, portando al pascolo il proprio gregge presso il fiume Rizzanese (oggi chiamato Lavu di a fata(118)) sorprese una fata «plus belle que le jour»(119) e innamoratosi perdutamente di lei decise di catturarla «la prenant par ses cheveux blonds comme l’or et écriant: Enfin, te voilà prise, tu es à moi! (…) tu seras ma femme»(120). La leggenda termina però tristemente: un giorno, infatti, Poli, sopraffatto dalla curiosità, rompendo la promessa fatta alla fata di non provare mai a scoprire la sua spalla, perdette ogni diritto su di lei e la fata sparì dicendo «tant que ta race existera, il n’y aura plus de trois chefs dans ta famille (…) Poli en fut désespéré. Il retourna bien des fois, le matin et le soir à la grotte du Rizzanese, jamais il ne vit ni sa femme ni ses filles. Suivant les prédictions de la fée, depuis le temps, il n’y eut jamais plus de trois chefs dans la famille des Poli. Quant à la fée et à ses enfants, ils ont sans doute passé le détroit pour se retirer en Sardaigne»(121).
Nelle leggende popolari corse, le fate appaiono inoffensive, spesso benefattrici; esse, infatti, assumendo i tratti di persone comuni, escono dalle loro abitazioni per elargire preziosi consigli, ma solamente a coloro che lo meritano. Tuttavia, a questa concezione, che rappresenta le fate come esseri amorevoli e ben disposte nei confronti degli uomini, nelle leggende corse si contrappone un’altra secondo cui esse sono anche terribili e estremamente vendicative. Questa concezione si riscontra in particolar modo in La fée amoureuse(122), che narra la terribile vendetta di una fata nei confronti di un uomo, che osò tradirla fuggendo con un’altra donna, dopo aver accettato di sposarla. «la terre trembla, des éclairs sillonnèrent les nues et les deux parjures furent engloutis dans un gouffre profond qui s’ouvrit à leurs pieds. La fée s’était vengée»(123).
2.3.2. La Vierge et les saints (La Vergine e i Santi).
Ortoli sostiene che le fiabe e le leggende sui Santi e la Vergine, in Corsica, contrariamente alle leggende sulle fate hanno una mediocre incidenza. Nei racconti leggendari rilevati dall’autore, la vergine e i Santi sono concepiti come dei validi protettori, disposti a soccorrere gli uomini buoni e caritatevoli ed a ricompensare la loro lodevole condotta, ma allo stesso tempo anche a punire severamente i malvagi e i trasgressori della volontà divina. La Vergine solitamente viaggia per il mondo accompagnata da suo figlio Gesù, sotto le sembianze di una povera mendicante e infligge severe punizioni a chi le nega assistenza e premia con saggi consigli chi le presta soccorso. Così avviene nella leggenda Les trois frères et la vierge(124), dove si racconta di tre fratelli, i quali, partiti in cerca di fortuna a causa della loro estrema povertà, incontrano lungo il cammino, una donna con suo figlio «qui n’était autre que la vierge»(125). I primi due insolenti e altezzosi muoiono annegati dopo essersi rifiutati di condividere il loro cibo con la Vergine, il terzo, invece, in cambio della sua generosità ottiene la sua protezione, grazie alla quale trova un tesoro.
I Santi, invece, secondo le credenze popolari corse, scendono sulla terra per farsi edificare una Chiesa in un determinato luogo e qualche volta, sono essi stessi a designare la località che preferiscono, come avviene per la costruzione miracolosa della Chiesa di San Giovanni a Poggio, presso Sarténe, secondo quanto si narra nella leggenda L’Eglise de Saint Jean(126) raccolta da Ortoli ad Olmiccia.
Spesso, nelle leggende corse, i santi entrano in contrasto con il demonio, il quale soccombe sempre.
La leggenda di Saint Martin et le Diable(127), ad esempio, racconta dell’animata discussione tra San Martino e il diavolo, durante la quale il demonio, furioso contro il santo, che aveva pietrificato i suoi buoi e gli ordinava di abbandonare l’isola, lanciò un enorme martello, che passò attraverso un monte presso Corte, e che sarebbe, secondo la tradizione corsa, all’origine della forma del Monte Tafanatu. Questa leggenda, ad avviso di Massignon(128), è una dei più celebri racconti corsi appartenenti al ciclo di leggende dette orografiche, ossia, che spiegano le particolarità geografiche, come la forma delle montagne, la creazione dei laghi, dove l’immaginazione delle popolazioni locali crede spesso di ritrovare le tracce di personaggi soprannaturali.
2.3.3. Le diable et les revenants (Il diavolo e le anime dei defunti).
Le fiabe e le leggende corse che hanno per protagonista il diavolo, secondo quanto rilevato da Ortoli, sono poco diffuse. Nella maggior parte di esse il demonio è rappresentato come il custode dei tesori o abilissimo nello sfruttare l’avidità e la cupidigia degli uomini per impadronirsi delle loro anime. Qualche volta il diavolo si pone in agguato per le strade e nei crocicchi delle vie, per tendere insidie, come nella leggenda Le chien qui se change en diable(129) in cui «un paysan (…) il s’aperçut que son chien gonflait terriblement, puis il le vit tout à coup se transformer et prendre la forme d’un homme»(130); oppure «sous la forme d’un bel adolescent»(131) il demonio ama intrattenersi con gli uomini in lunghe partite a carte a Moriana «où se rendaient tout les grands joueurs de la Corse et de l’Italie»(132) e dopo aver ridotto in miseria i suoi avversari acquista loro l’anima «en leur faisant faire des action infâmes»(133). Solitamente però, satana è riconosciuto prima che riesca a mettere in atto le sue perfide intenzioni, tradito dalla sua coda o dai suoi zoccoli mal dissimulati.
«Si la croyance au diable n’est pas fort répondue dans l’île» afferma Ortoli, al contrario «les revenants (…) font souvent parler d’eux. Bien des gens, qui n’ont pas peur quand un fusil est braqué sur eux, tremblent lorsqu’il s’agit de passer près d’un cimetière ou d’un champ dans le quel des morts ont été ensevelis»(134). La paura dei morti è un fatto universale e non c’è un popolo che, secondo Stith Thompson(135), non abbia una vasta tradizione di racconti, legati al luogo, tanto da essere considerati leggende locali, fondati sulla credenza del ritorno dei morti.
In queste narrazioni, gli spiriti dei defunti che ritornano sulla terra, hanno l’apparenza di fantasmi bianchi, «spectre enveloppe d’un linceul»(136) ma conservano i lineamenti caratteristici del loro corpo al momento della sepoltura. Si tratta, nella maggior parte dei casi d’anime in pena, che abbandonano il silenzio dei loro sepolcri e ricompaiono fra gli uomini, per vendicarsi di qualche disonore subito in vita. Nella leggenda La Vendetta di L’animi in Pena(137) tre giovani fanciulle morte suicide, dopo essere state sedotte e abbandonate da un fiero cacciatore, tornano tra i vivi per compiere la loro terribile vendetta.
«spectres et chasseur se mirent à tournée en rond sans cesse, sans relâche (…) la ronde infernale continue, continue toujours, toujours (…) le pauvre Rinaldo (…) il tombe mort»(138).
In qualche caso lo spirito riappare sulla terra per tormentare un parente affinché faccia dire delle messe in suo suffragio.
Dall’abate Casanova, nella sua Histoire de l’Eglise de Corse(139) apprendiamo che, secondo la tradizione corsa i defunti, riuniti in una confraternita, composta da un numero infinito di morti, chiamata la Squadra d’Arrozza, sono soliti ritornare nella notte tra il primo e il due novembre, nelle loro antiche dimore e i viventi sono tenuti a riservargli una buona accoglienza. La dimenticanza di quest’usanza provoca, continua l’autore, la collera dei morti, i quali scatenano contro le famiglie disattente una spaventosa tempesta che è chiamata in corso timpesta di i morti. La leggenda narrata ad Ortoli nel 1882, intitolata La burrasque de Morts(140), descrive la spietata rappresaglia compiuta dalla Squadra d’Arrozza nei confronti di un uomo, che trascurò di sistemare sul balcone un recipiente d’acqua per i defunti. I morti, infatti, «étaient venus, et n’ayant pas trouvé d’eau ni pour boire ni pour se laver et se purifier de leur péchés, ils avaient fait un bruit épouvantable et lancé de terribles malédictions contre celui qui n’avait pas pensé à eux. (…) durant trois nuits, le malheureux homme entendit des cris, des gémissements, des imprécations terribles, les cloches sonnèrent le glos des morts(…) quelque temps après, cet homme mourut»(141).
Nelle leggende corse, la Squadra d’Arrozza è rappresentata anche come presagio di morte. Una sera, alla veglia, presso l’Abate di Poggio-di-Tallano, ad Ortoli, come ci riferisce nell’introduzione alle leggende sul diavolo e sulle anime dei morti, fu narrato che, la notte in cui morì uno degli uomini più rispettabili della località, apparve La Squadra d’Arrozza «chacun avec l’habit de pénitent, avec le richet et le capuchon noir, et tient à la main un cierge allumé(…) le lendemain mourut Jacques marie Ortoli»(142). Secondo il narratore, la loro comparsa fu percepita come un cattivo presagio.
2.3.4. Légendes diverses (Leggende diverse).
Nella parte introduttiva che precede l’ultima sezione delle Légendes diverses, Ortoli constata che nella maggior parte delle leggende corse è possibile rilevare accenni abbastanza notevoli a fatti e avvenimenti della Corsica, in modo particolare alle lunghe e sanguinose lotte che l’isola dovette sostenere, nella seconda metà del VII secolo, contro gli invasori saraceni.
Alcuni racconti ad esempio incominciano nei modi seguenti: «Du temps où les Corses luttaient contre les Maures»(143) oppure «Avant l’invasion des sarrasins»(144) collocando l’inizio della vicenda all’epoca delle scorrerie dei mori. Altre illustrano i sentimenti che il popolo corso nutriva nei confronti dei suoi dominatori e in particolare il loro profondo desiderio d’indipendenza e libertà, com’emerge chiaramente nella fiaba Saute en mon sac(145), in cui il protagonista, domanda alla fata come ultimo desiderio «seulement que la Corse soit heureuse et qu’elle ne voie plus les ravages des Sarrasins»(146).
I Saraceni devastarono così profondamente le coste della Corsica a tal punto che, Ortoli scrive ironicamente «comment la légende ne se serait-elle pas forme autour d’eux? Comment aussi expliquer tout l’héroïsme des anciens Corses, victorieux de ces pirates sans l’intervention d’une puissance surnaturelle?»(147).
Un fatto degno di nota, infine, secondo Ortoli, è che un gran numero delle leggende sui saraceni è stato congiunto ad altre leggende già esistenti in Corsica.
Capitolo terzo
3. Prima catalogazione del materiale narrativo corso di nuova rilevazione (1955 - 1959)
3.1. L’inchiesta sulla narrativa tradizionale di Geneviève Massignon.
Nel 1893 Paul Sébillot(148), in un ampio e documentato quadro sulle inchieste documentarie, fino allora eseguite sulla narrativa popolare in tutte le regioni della Francia, per quanto riguarda la Corsica, fa riferimento esclusivamente alla rilevazione compiuta da Ortoli tra il 1881 e il 1882 nella circoscrizione di Sartène, con un numero complessivo di cinquantacinque documenti.
Successivamente all’opera di Ortoli, come constata Massignon(149), gli specialisti di folklore concentrarono il proprio interesse soprattutto sulle leggende corse, trascurando le fiabe; solo alcuni scrittori, come Jean-Marc Salvadori(150) e Edith Southwell- Colucci(151) pubblicano delle raccolte di fiabe, che consistono, tuttavia, in rielaborazioni letterarie di alcuni temi folklorici insulari, o come l’Abate Domenicu Carlotti(152), il quale dedica alla letteratura popolare due volumi in dialetto corso di fole, senza, però, localizzarle.
La constatazione dell’assoluta carenza, in Corsica, di ricerche documentarie sul patrimonio narrativo popolare e l’assenza di studi scientifici sull’argomento, inducono l’etnologa Geneviève Massignon a realizzare a partire dal 1955 un indagine avente come oggetto la registrazione su magnetofono, la trascrizione, la traduzione e la classificazione di testi narrativi tradizionali corsi.
Massignon comincia ad interessarsi del problema di raccogliere documenti narrativi della Corsica alcuni anni prima di affrontarlo effettivamente. La studiosa, infatti, incaricata dal «Centre National de la Recherche Scientifique», di svolgere a partire dal 1945 delle ricerche per «Le Nouvel Atlas Linguistique et Ethnographique de la France», nel 1951, ha l’occasione di visitare il Niolo e di effettuare delle indagini etnografiche, i cui risultati furono pubblicati nel 1958 dalla «Revue de Linguistique Romane», con il titolo «Aspects linguistiques d’une enquête etnografique en Corse»(153).
Durante il soggiorno in Corsica, nei paesi del Niolo, popolati soprattutto da pastori transumanti, l’etnologa francese ha modo di venire a diretto contatto con l’ambiente pastorale niolino.
L’originalità e la peculiarità del dialetto locale, che, secondo l’autrice, non è stata messa in sufficiente rilievo dall’informatore scelto da Gino Bottiglioni per il suo Atlante Linguistico Etnografico Italiano della Corsica, le fa intravedere «quelques traits du caractère niolin, dont les traditions, demeurées vivaces, m’attirèrent aussi»(154).
Nel 1955, Massignon, spinta dal profondo interesse per «le milieu traditionnel corse, d’abord étudié sous l’angle des mots liés aux choses»(155)e consigliata dall’etnografo Paul Delarue, che allora preparava il primo volume del Catalogue des Contes Français, intraprende una prima raccolta di testi nei villaggi del Niolo. Lo stesso anno si reca anche nella Castagniccia, località celebre della Corsica per i suoi castagneti.
Le ottanta fiabe reperite durante questa prima inchiesta vengono sottoposte all’esame di Paul Delarue, che le classifica secondo l’indice internazionale di Aarne e Thompson.
Nel 1959, Massignon effettua una seconda rilevazione che interessa nuovamente il Niolo e alcune località presso Bastia e nel Cap Corse.
Il materiale acquisito in questa seconda inchiesta, che supera le sessanta fiabe, viene analizzato da Marie-Louise Téneze, allieva di Delarue, la quale aveva avuto, in quel momento, l’incarico di continuare la redazione del secondo volume del Catalogue des Contes Français.
3.2. I luoghi di rilevazione.
Massignon nell’Avant propos ai Contes corses, che costituisce, insieme ai Commontaires des contes des trois recueils, un vero e proprio apparato scientifico, «le première étude scientifique sur le sujet»(156), sottolinea che a differenza della raccolta di Ortoli, realizzata alla fine del XIX secolo, nella circoscrizione di Sartène, presso persone già istruite, la sua inchiesta è stata condotta nella parte centro-settentrionale dell’isola, soprattutto tra i pastori transumanti e i raccoglitori di castagne.
Le campagne di rilevazioni effettuate da massignon tra il 1955 e il 1959 ha interessato complessivamente undici località della Corsica(157), di cui quattro villaggi isolati nel Niolo: Calasima, Pietra, Zitamboli e Albertacce; tre nella Castagniccia: Saint Laurent, Loriani e Carticasi e quattro nella regione di Bastia e nel Cap Corse: Bastia, Nonza, Olciani e Lupino, dove in modo particolare sono stati registrati cinque fiabe in dialetto corso «auprès d’une diseuse, dont les gestes et les intonations exprimaient à merveille la part que chacun devait prendre aux péripéties de ses récits»(158).
Figura 1. Localizzazione delle inchieste sulla narrativa tradizionale corsa di Geneviève Massignon (1955 - 1959)
Elenco dei punti di rilevazione: 1. Nonza; 2. Olciani; 3. Bastia; 4. Lupino; 5. Calasima; 6. Albertacce; 7. Pietra; 8. Zitamboli; 9. Saint Laurent; 10. Loriani; 11. Carticasi.
3.2.1. L’isolamento del Niolo attraverso lo sguardo dei viaggiatori.
Prima di procedere all’analisi del materiale reperito, riteniamo opportuna, a questo punto, una breve considerazione sulle particolari condizioni materiali di vita pastorale, sull’isolamento delle popolazioni sparse nel Niolo, in generale, sul contesto socio-economico entro cui le fiabe inserite nella raccolte di Massignon, hanno circolato e vissuto la loro vita di trasformazione e adattamento locale, per comprendere meglio le caratteristiche della narrativa popolare corsa.
Col nome Niolo, dal latino nigellus, «le pays noir»(159) secondo la tradizione francese, perché fino al Medioevo era ricoperto da vaste foreste, si indica la regione centrale della Corsica, costituita dall’alta Valle del Golo. I suoi confini sono precisi: è delimitata nel versante Sud-Ovest dal Col de Verghju e dal massiccio montuoso Punta Antica, a Nord dal Monte Cinto.
Nella prima metà del XVI secolo, Giustiniani in Description de la Corse, parlando del Niolo riconosce che Strabone e altri autori, che in passato avevano descritto la Corsica come un paese in molte zone inaccessibile e impraticabile, avevano detto la verità. Costata, infatti, che nel Niolo «il n’y a pas un cheval du continent qui pourrait, avec un cavalier sur le dos, descendre ou monter par ces sentiers. On peut croire que ceux qui les ont pratiqués n’ont pu avancer que pas à pas, en faisant à chaque fois, à force de travail et au prix de plus grandes fatigues, une lente conquête sur ce terrain montueux et accidenté. Tels son les passages qui donnent accès dans le Niolo. La raideur et la difficulté de ces sentiers sont telle qu’on pourrait à peine en donner un idée; non seulement ils sont presque impraticable à pied comme à cheval, mais ils sont encore très dangereux»(160). Proprio a causa di questo isolamento, nella seconda metà dell’Ottocento, Blancqui, viaggiatore e etnologo, nota che «pour la plupart de ces hommes enfermés dans leur prison de granit, la civilisation finit où la montagne voisine commence (…) et c’est même un trait distinctif de leur caractère, l’horreur de ces montagnards pour l’élément qui les entoure»(161).
Solamente verso la fine del XIX secolo il Niolo, viene reso in parte accessibile, come apprendiamo dal viaggiatore Vuillier(162), da una strada carrozzabile denominata Scala de Santa Regina, per i suoi novantaquattro tornanti, che formavano una sorta di scala diretta verso il cielo, e che lo collegava a Ovest a Porto e a Est a Corte.
Facendo riferimento a questa strada, nel 1898, Victor Adouin e Uegénie Dumazet in Voyage en France, scrivono che grazie ad essa «on avait finalement relié le Niolu au reste du monde (…) Donc la route a ouvert le pays, et les idées»(163).
Quaranta anni dopo la costruzione della strada di Santa Regina si constata, tuttavia, che il Niolo rimane ancora «le refuge des traditions (…) un pays difficilement accessible, où les habitants vivent sur eux-mêmes sans autre commerce avec l’extérieur que les hommes allant conduire leurs troupeaux à la plage»(164).
Tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento, dunque, il Niolo appare agli occhi dei visitatori stranieri, provenienti per lo più dalla Francia, i quali approdavano nell’isola armati di taccuino e di penna, con l’intento di osservare e di annotare testimonianze della vita e della cultura corsa, una zona difficilmente accessibile, abitata esclusivamente da pastori transumanti che vivono dei prodotti del loro gregge, in gran parte isolata dal resto del mondo, per certi versi semiselvaggia, ferma nel tempo per caratteristiche naturali e per i modi vita.
Tuttavia, è necessario precisare che tutte queste testimonianze provengono da autori francesi, esterni alla Corsica, da personaggi in visita o rappresentanti di un autorità presente nell’isola.
Questa visione esterna del Niolo, rappresentato come un paese selvaggio ai margini della civilizzazione che tanto aveva colpito i primi viaggiatori ed etnografi ottocenteschi e molti visitatori dei primi del Novecento, per l’arcaicità delle tradizioni, dell’organizzazione socio-economica, secondo Georges Ravis-Giordani(165), non coincide totalmente con la realtà ma deve essere affiancata a quella di una società rurale, un sistema sociale ed economico complesso frutto di una gestione del territorio estremamente elaborato e intelligente; una gestione cha ha permesso per secoli di soddisfare tutti i bisogni delle «communautés villageoises» sfruttando le estreme diversità ambientali che caratterizzano la regione: diversità di altitudini, dal mare al Monte Cinto, del suolo, contraddistinto da un’alternanza di zone montuose, pianure fertili e foreste.
3.2.2. La vita pastorale della Corsica centrale.
In Itinéraire général de la France del 1894, Paul Joanne fornisce una definizione generale degli abitanti del Niolo: «Les niolins sont aussi tous bergers; il ont la réputation d’être assez rudes, mais aussi d’ être très généralement fort intelligents. Possédant d’immenses troupeaux, ils louent des pâturages et ils émigrent avec leurs troupeaux vers les plages de Galeria dès le commencement du mois de septembre, avant que les chutes de neige aient interrompu la circulation. Comme ils ne peuvent que difficilement communiquer avec les centres civilisés, ils ont mieux conservé les anciens usages; en autre, ils sont le plus souvent obligés de se muffire à eux-mêmes: les hommes fabriquent les instruments en bois qui leur servent pour l’industrie des fromages; les femmes tissent la toile et le drap pendant l’hiver et confectionnent les vêtements de toute la famille»(166).
Sempre nello stesso anno, anche Adouin e Dumazez scrivono a proposito delle popolazioni del Niolo: «Bergers sont restés les habitants du Niolo, ils ne vivent guère du produit des chèvres et des moutons, les femmes seules restent dans les villages, où elles cultivent les terres avec le concours des italiens, filent le lin et la laine»(167).
Ravis-Giordani(168) ci dice che i pastori del Niolo, che vivevano nelle alte montagne, tra 800 e 1100 metri, almeno fino ai primi decenni del Novecento, lasciavano il loro villaggio all’inizio di settembre, per stabilirsi in pianura o à la piaghja (in riva al mare), dove vi era un clima più mite. Era spesso la fiera di Casamuccioli, la Fiera della Santa di Niolu, continua l’autore, che si teneva ogni anno l’8 settembre e ancora oggi conserva allo stesso tempo i suoi differenti caratteri di manifestazione religiosa, commerciale, ludica e folklorica, a dare il segnale di partenza. I pastori si separavano dalle loro famiglie e partivano soli, verso le valli principalmente della Balagne, dove vivevano fino al mese di maggio, spesso senza altro riparo che quello del loro pilone(169), oppure in capanne di lentischio e mirto costruite appositamente per la stagione.
A la piaghja, la vita trascorreva nei pascoli e presso la mandria o presa, recinto circolare entro il quale le pecore potevano circolare liberamente, ma non solo. Minuscoli appezzamenti di terreno venivano lasciati alla coltivazione delle vigne, del grano, dell’avena o dell’orzo. Le donne e un certo numero di uomini, durante la stagione invernale, invece, rimanevano nei villaggi dove si dedicavano ai lavori legati ad una agricoltura e ad un allevamento di sussistenza: raccolta, essiccazione e torcitura delle castagne, allevamento e uccisione dei maiali, coltivazione dei giardini.
Verso la fine del mese di maggio, continua l’autore, i pastori niolini raggiungevano nuovamente il loro villaggio, mentre una parte della famiglia scendeva in Balagne per fare la mietitura e riportare nel Niolo una quantità di grano sufficiente alla consumazione familiare. I pastori, tuttavia, rimanevano nelle loro abitazioni solo per un breve periodo, per poi ripartire e stabilirsi, per tutta la stagione estiva, negli stazzi o piazzili situati negli altipiani tra i 1500 e i 1800 metri di altitudine.
Ravis-Giordani ci informa che lu stazzu sorgeva al centro di un vasto appezzamento di terreno destinato per lo più al pascolo brado, con radure pulite dagli arbusti e sterpaglie in modo tale da poter seguire gli spostamenti del gregge e sempre in prossimità di una fonte, à funtana. Nell’area centrale si trovava la capanna del pastore, una rudimentale costruzione di una sola stanza posata spesso su fondamenta di pietre a secco, con un tetto di tronchi d’albero sopra i quali venivano sistemati delle assi di pino, scambule, per consentire l’uscita del fumo. Il focolare, u fucone, delimitato da pietre fitte in circolo ne occupava il centro. Delle nicchie ricavate nelle pareti, delle casse e delle travi appese al soffitto, servivano a sistemare i viveri, gli utensili e gli indumenti. Un tavolo, delle panche rudimentali e il letto, costituito da una sottile stuoia, completavano il mobilio ridotto all’essenziale. La capanna era circondata da muri a secco al fine di impedire l’accesso, a tutti gli altri animali: maiali, asini, pecore e capre, ad eccezione dei cani. Questo recinto, u chjustrone, continua l’autore, era sia un luogo di riposo, sia un luogo, in cui, nei momenti di tranquillità, i pastori fabbricavano i vari utensili come lu tinellu, recipiente in legno dove veniva servita la polenta, la cochja, un grande mestolo forato che serviva a scolare il latte, e il cosgiaghje o fattoghja, tradizionale stampo per il formaggio in giunco, ma oltre a ciò, u chjustrone era soprattutto un ambiente riparato e protetto in cui si faceva il celebre formaggio chiamato u brocciu, che insieme alla farina di castagne, con la quale si preparava la polenta, costituiva l’alimento più importante e la fonte principale di sostentamento. A riguardo di u brocciu, sempre da Ravis-Giordani apprendiamo che tra i pastori si erano formate numerose leggende, in modo particolare sulla sua origine mitica. L’autore ricorda soprattutto quella che si narra a Santu Petru di Tenda (trascritta da De Montillet nel 1892) secondo la quale a insegnare il segreto di u brocciu ai pastori fu un orco che insieme a sua madre terrorizzava, in un tempo remoto, gli abitanti dell’isola. Essa racconta che «durant de longues années, les corses avaient tout fait pour s’emparer de l’Ogre, afin d’en délivrer le pays; (…) Un jour, enfin, les bergers eurent une ingénieuse idée. Il placèrent près de sa demeure, une grosse et lourde botte enduite de goudron à l’intérieur. L’Ogre ayant vu cette chaussure, y introduisit le pied, qui il ne put retirer. Ses adversaires fondirent alors sur lui pour le massacrer. Comme il lui était impossible de fuir, l’Ogre se rendit et parla ainsi : “ Laissez-moi la vie et je vous apprendrai à tirer grand parti du petit-lait de vos chèvres.” Telle serait l’origine du brocciu»(170). Secondo Ravis-Giordani, l’importanza di queste leggende consiste proprio nel rapporto che esse hanno con l’universo tecnico dei pastori che in esse è racchiuso.
Ritornando alla descrizione della vita che i pastori conducevano in u stazzu, l’autore c’informa che nei pressi del chjustrone, i pastori edificavano dei recinti di muri a secco destinati al gregge, uno più vasto, circolare, chjostra, che serviva a raggruppare le capre al momento della mungitura e uno di dimensioni più ridotte e di forma allungata, detto camputu, che aveva la funzione di riunire le capre già trattate. I casgili, luoghi di conservazione del formaggio, costituivano la zona più importante di u stazzu, poiché da essi dipendeva tutta la produzione e la qualità del formaggio. Potevano essere di due tipi: alcuni venivano sistemati in grotte umide, altri erano ricavati scavando delle fosse lungo i pendii, le quali venivano poi ricoperte da assi e da uno strato di terra. La sera, terminati tutti i lavori, i pastori avevano la consuetudine di circolare da uno stazzu all’altro per trascorrere alcune ore in compagnia e rompere in questo modo la solitudine nella quale trascorrevano la maggior parte della giornata. Secondo Massignon, questo isolamento dei pastori era particolarmente propizio alla sopravvivenza delle fiabe dato che «favorisait les rassemblements autour du feu, à la veillée (…) ou se disent des contes»(171).
Occorre precisare a questo punto che il tipo di transumanza e la sua durata, l’ampiezza degli spostamenti e le regioni della stanziamento finale non erano le stesse per tutti i pastori che popolavano l’esteso territorio del Niolo. Come apprendiamo da Claire Tiévant e Lucie Desideri(172) si potevano distinguere tre gruppi differenti. I comuni situati tra i 600 e i 900 metri di altitudine e generalmente in zone ricche di castagneti, la transumanza si articolava in tre tappe che comprendeva l’insieme del calendario pastorale. Da giugno a settembre, i pastori conducevano i loro greggi in alta montagna; nel mese di settembre ritornavano nei villaggi per la raccolta delle castagne, infine dal quindici novembre e fino al mese di giugno, discendevano in pianura, solitamente nella Balagne. Tutta la famiglia faceva parte di questa spedizione invernale. Infine all’inizio del mese di giugno solamente gli uomini salivano sugli altipiani dopo aver fatto benedire il gregge.
I pastori che vivevano in zone pianeggianti, invece, associati alla coltura estensiva del grano, restavano tutto l’inverno nei loro villaggi praticando un trasferimento di breve durata, sulle montagne, durante la bella stagione. Anche in questo caso la transumanza annuale verso le alture era generalizzata e comportava lo spostamento dell’intera famiglia. Ma la transumanza più rilevante, sia per l’ampiezza degli spostamenti che arrivava fino a centocinquanta chilometri (fino alla Filasorma e al Cap Corse), sia per la durata, come abbiamo visto con Ravis-Giordani, era quella che coinvolgeva solamente gli uomini dei villaggi che occupavano le pendici più elevate del Niolo, tra i quali Calasima (il più alto paese della Corsica situato a 1050 metri di altitudine). Una duplice transumanza stagionale, a’mpiagjera e a’ muntanera, regolava, infatti, in modo più rigoroso il ritmo della vita pastorale di questi uomini, costringendoli a condurre un’esistenza nomade divisa tra mare e montagna, in continua e perpetua migrazione, «da la piaghja à la muntagna, da la muntagna à la piaghja»(173), come diceva un detto corso.
Sempre le etnologhe Tiévant e Desideri ci informano che, le transumanze stagionali, implicando una parte alquanto consistente della popolazione, favorivano la costituzione di forti legami tra i membri delle diverse comunità rurali che occupavano gli stessi stanziamenti in pianura, ma, allo stesso tempo, contribuivano ad inasprire le rivalità, come ad esempio quelle tra i pastori di Coscione e quelli del Niolo. I primi, infatti, che non transumavano mai senza le loro famiglie, erano soliti deridere i pastori niolini per il fatto che si assentassero per lungo tempo dalle loro abitazioni, lasciando sole le mogli e le figlie, come si legge in un canto satirico, u scherzu, composto da un pastore di Coscione, in cui si mette in dubbio la fedeltà delle donne del Niolo e l’onore dei loro uomini.
Massignon afferma che l’influenza del mondo pastorale è particolarmente visibile in certi racconti fiabeschi, in cui il pastore si trasforma in eroe, ottiene la mano della principessa o riesce a tenere testa alla Morte e alla malattia, oppure affiora in quelle narrazioni nelle quali modi di dire, esclamazioni, oggetti dell’esperienza quotidiana, notazioni gastronomiche rinviano tutti a modi di esprimersi e di vivere tipici corsi. Si tratta ovviamente di piccoli dettagli, sfumature che ci riportano entro la storia minore e il vivere quotidiano dei pastori della Corsica, che inseriscono la vicenda fantastica in un ambiente familiare al narratore e al suo uditorio, ossia il mondo pastorale, quasi che il novellatore non riuscisse a immaginare al di là del suo mondo. Precise informazioni sulla vita sui pascoli si trovano, ad esempio, in due racconti a carattere leggendario narrati da un anziano pastore originario di Zitamboli, nel Niolo. Nella prima, I prestaticci ou les jours prêtés, il narratore introduce numerosi elementi propri della vita di tutti i giorni, che non si ritrovano nella versione di questa leggenda registrata da Ortoli(174), ad Olmiccia, nel 1881. In questa versione niolina, il momento in cui Marzo scatena una terribile tempesta per vendicarsi dell’insolenza di «u falsu picuraghju», che ingrato aveva osato insultarlo con queste parole ingiuriose: «Marzu, Catarzu, Figliolu di rognone, facciu li brocci, tamante li spurtone!»(175) viene sviluppato in questo modo, ricco di riferimenti al mondo pastorale: «Il n’était pus question de faire paître les brebis, encore moins de les traire et de fabriquer du brocciu. Parmi les brebis, même celles qui avaient pu se réfugier dans la mandria, furent anéanties par les chutes de grêle, accompagnées du vent le plus froid qu’on ait jamais vu. Le berger chercha, mais en vain, à sauver les agneaux; il réussit seulement à cacher une petite agnelle sous le paghjulu (grand chaudron, qui sert à faire cuire le brocciu), mais c’est tout ce qui fut sauvé du troupeau! Quant au berger, il eut beau s’abriter dans son stazzu, et s’envelopper dons son pilone(cape tissée en poil de chèvre). Il faillit suffoquer de froid pendant les prestaticci!»(176).
Nella seconda, intitolata Saint Martin berger chez le Diable, quando Saint Martin, assunto come pastore presso il diavolo, terminato il suo contratto di tre anni, chiede di essere ricompensato, il diavolo gli chiede: «Veux-tu être payé en argent, ou bien en brebis?»(177). L’uso di offrire delle pecore in cambio del lavoro svolto dal pastore era, infatti, una consuetudine in Corsica. In questo modo il pastore poteva cominciare a costituire un suo gregge. Sempre in questo racconto si trova un riferimento alla transumanza: «Alors, Saint Martin prend tout le troupeau, et, en octobre, il s’en va transhumer en Filosorma; c’est-à-dire près de Galeria (toutes les terres, là-bas, appartiennent à des Niolins, et même, à l’heure actuelle, la région de Filosorma est peuplée de gens de Pietra; chaque Niolin y a sa parcelle!)»(178). Questi sono alcuni degli innumerevoli esempi.
La sensazione di trovarci in un mondo fiabesco e leggendario, ma anche corso è dato, dunque da tutta questa serie di piccoli dettagli tratti dalla vita quotidiana, un paesaggio, un costume, una moralità o semplicemente un vago accento o sapore locale, che tendono a collocare spesso il racconto entro la cultura tradizionale della Corsica.
3.3. Il materiale reperito.
Nell’ambito delle due campagne di rilevazione condotte da Massignon in Corsica, in totale sono stati acquisiti centocinquanta testi narrativi di tradizione orale.
La raccolta del materiale è stata effettuata, come precisa l’autrice, con diversi metodi di rilevazione: trentatre fiabe sono state registrate su magnetofono in dialetto corso e in un secondo momento tradotte, tre sono state registrate in francese mentre centoquattordici testi sono stati dettati dai novellatori in francese, con le formule di chiusura e i nomi degli eroi in corso. Sicuramente, scrive l’etnologa , i narratori e le narratrici si sentivano maggiormente più a loro agio ad esprimersi in dialetto che in francese, tuttavia «le bilinguisme est si répandu qu’on est même surpris de la facilité avec la quelle les montagnards s’expriment en français»(179).
Non tutti i documenti rilevati sono stati inseguito pubblicati nella raccolta di Contes corses edita da Massignon nel 1963. Nell’Avant propos, infatti, l’etnologa rileva chiaramente di aver voluto presentare nella raccolta un panorama delle varie aree indagate, adottando una scelta tra le fiabe, dettate o tradotte in francese, in modo tale che l’opera fosse accessibile a tutti, anche ai ricercatori francesi incapaci di comprendere i diversi dialetti dell’isola. Massignon, tuttavia, consapevole del fatto che l’analisi linguistica dei testi narrativi popolari, potesse costituire oggetto di uno studio distinto e particolarmente interessante, demanda comunque ad un secondo momento l’approfondimento di questo aspetto nell’ambito di una pubblicazione dialettologia a carattere regionale.
Classificando tutto il materiale raccolto secondo l’indice internazionale di Aarne e Thompson, Massignon individua centoquattro tipi narrativi, di cui riportiamo qui di seguito l’elenco, limitandoci, però, ai tipi narrativi rappresentati nella raccolta, che contiene solo centosei testi scelti dall’autrice tra i centocinquanta documenti registrati.
3.3.1. Elenco dei tipi Aarne-Thompson registrati in Corsica.
I. Racconti di animali(T 1 – 299):
T 1, T 9, T 56B, T 130.
II. Fiabe normali.
a) Fiabe di magia(T 300 – 749):
T 300, T 301A, T 307, T 310, T 311, T 313, T 314, T 329, T 327, T 328, T330D, T 400, T 408, T 428, T 433, T 563, T 570, T 571, T 592, T 613, T 653, T 670, T 706, T 707, T 709.
b) Fiabe di carattere religioso(T 850 – 849):
T 875.
c) Racconti romanzeschi(T 850 – 999):
T 851, T 854, T 875, T 884A, T 910, T 956B.
d) Storie dell’orco stupido(T 1000 – 1999):
T 1000.
III. Scherzi e aneddoti(T 1200 – 1999):
T 1290, T 1365, T 1525, T 1535A, T 1535B, T 1538, T 1540, T 1696A, T 1696B, T 1735, T 1737, T 1791.
IV. Narrazioni formulari(T 2000 – 2199):
T 2032, T 2300.
3.4. I temi più diffusi.
La documentazione raccolta, come si può vedere dall’elenco, ha messo in luce la netta prevalenza di fiabe normali ed in modo particolare di fiabe di magia, per le quali, come ha potuto notare Massignon, i narratori e soprattutto le narratrici sembrano avere una predilezione particolare. Nel corpus hanno un alta incidenza anche gli aneddoti e le storie di furbi e di sciocchi, mentre si può osservare una quasi totale assenza di racconti di animali.
Massignon rileva che la maggior parte degli intrecci narrativi attestati nell’isola, sono stati rilevati con un numero elevato di versioni.
È interessante notare che i temi più diffusi, tra i quali la fiaba tipo T 300 ossia L’Ammazzadraghi, di cui Massignon ha registrato sette versioni (una a Lupino, quattro nella Castagniccia e due nel Niolo), la fiaba tipo T 313, la ragazza che favorisce la fuga dell’eroe, di cui l’autrice ha raccolto cinque varianti (una nel Cap Corse, tre nella Castagniccia e una nel Niolo) e la fiaba tipo 613, i due viaggiatori, rilevata in quattro versioni, pur essendo intrecci noti in tutta Europa, risultano essere estremamente diversi e differenti nella loro affabulazione.
Tra l’ampia serie di storie rilevate in Corsica, il tema dell’Ammazzadraghi (fiaba tipo 300), a giudicare dal numero di versioni (Massignon ne ha, infatti, registrato, come abbiamo accennato qui sopra, ben sette) sembra essere senza dubbio l’intreccio con maggiore diffusione e popolarità.
L’Ammazzadraghi, come apprendiamo da Thompson(180), è una delle più note e antiche storie, che oppongono l’eroe a qualche avversario soprannaturale, un drago, un animale orribile e semplicemente un mostro non ben definito. L’autore ci informa che Ranke, mediante l’analisi minuziosa di trecentosessantotto versioni de l’Ammazzadraghi e di circa settecentosettanta versioni della storia de I due fratelli (fiaba tipo 303), che contiene quasi interamente l’Ammazzadraghi, come vera e propria parte della sua costruzione, ha individuato una trama generale della storia, dalla quale, secondo l’autore, potrebbero essere derivate tutte le altre varianti e che sembra comprendere tutti gli elementi originali quali: il combattimento e l’uccisione del drago, l’impostore, le sette lingue, il matrimonio con la principessa; La trama è la seguente: due coniugi molto poveri hanno due figli, un ragazzo e una ragazza. Alla loro morte lasciano in eredità una casetta e tre pecore. La casetta va alla ragazza, le pecore al ragazzo. Questi scambia con un personaggio misterioso le pecore ricevute dal padre, contro tre cani meravigliosi, con i quali decide di andare per il mondo in cerca di fortuna. Un giorno si imbatte in un vecchio (o vecchia), da cui riceve, quale ricompensa per una cortesia usata, una spada magica.
Il giovane arriva in una città parata a lutto, dove viene a sapere che un drago con sette teste, che vive su di una montagna nelle vicinanze, esige periodicamente in sacrificio una fanciulla, pena la distruzione dell’intero paese. La sorte ha voluto che la prescelta fosse in quel momento la foglia del re. Il sovrano promette di concedere in sposa la figlia a colui che sarà capace di uccidere il mostro. Il ragazzo si reca con i suoi tre cani al luogo dove vive il drago con l’aiuto del quali riesce a tagliargli le sette teste. Il giovane dopo aver ucciso il mostro taglia le sette lingue e le nasconde in tasca. La principessa ormai salva lo invita a tornare da lei, per ricevere il premio promesso ma l’eroe vuole ancora provare nuove avventure e le promette di ritornare dopo un certo periodo di tempo. A questo punto, il cocchiere, che ha accompagnato la principessa, si fa avanti e minaccia di ucciderla se non giura che dirà al re che è stato lui ad ammazzare il drago. Come prova porta con se le teste del drago. Il re felice, fissa la data del matrimonio. Ma la figlia riesce abilmente a rinviare il giorno fino alla data in cui lei e il giovane avrebbero dovuto rivedersi. Proprio il giorno delle nozze, il ragazzo giunge in città e apprende del matrimonio imminente. Il giovane invia più volte i suoi cani con un cesto e un messaggio legati al collo. La figlia del re riconosce i tre cani e segue le istruzioni datele dal vero salvatore. Essa,o il re, ordina che il ragazzo sia invitato. Appena arriva al palazzo del re, il giovane dichiara di essere lui l’uccisore del drago e chiede se le sette teste abbiano la lingua. Allora egli tira fuori le lingue dalla tasca e il re e tutti i presenti riconoscono in lui il salvatore e le nozze dei due giovani si celebrano seduta stante mentre l’impostore viene punito.
Un particolare aspetto che si riscontra nelle quattro versioni corse riportate dalla studiosa nella raccolta è rappresentato dall’elemento pastorale che accompagna sempre la figura del protagonista. Il vincitore del serpente dalle sette teste emerge da una condizione pastorale: è un giovane pastore, coraggioso e impavido che, dopo aver scambiato le sue tre pecore o capre con dei cani dotati di straordinaria forza, ucciso il drago, smascherato l’usurpatore, ottiene alla fine la mano della principessa.
Nel complesso le versioni corse, fatta eccezione per piccole differenze nei particolari, rivelano una notevole stabilità nella trama, tuttavia, è interessante osservare che la versione registrata nel Niolo, Le serpent à sept têtes, pur conservando la struttura narrativa di base, si distingue dalle altre per un aspetto molto significativo, in cui è possibile notare un riflesso dell’ambiente sociale in cui è circolata. In questa versione al posto del re compare «u Caporale, le chef du village»(181).
Da Antonetti in Histoire de la Corse(182) apprendiamo che col nome di Caporali o Capi-popoli vennero designati nella Corsica settentrionale, in seguito alla rivolta antinobiliare del 1358 condotta dalle «communautés rurales», i rappresentanti delle famiglie dominanti delle comunità rurali. A partire dal XIV secolo, scrive l’autore, i Caporali divennero un nuova aristocrazia a carattere misto e ambiguo: protettrice degli interessi delle comunità da una parte, di cui erano i rappresentanti e difensori, e dall’altra dominatrice, imponendo tributi ai paesani. I Caporali furono, fino al XV secolo, dunque, dei personaggi che ebbero una grande importanza nella storia della Corsica, come mostra in maniera approfondita lo storico Casanova(183) nei suoi studi sul rapporto tra i Caporali e le comunità rurali della Corsica. Incaricati originariamente, come i loro omonimi italiani (i Caporali di popolo) di difendere gli interessi del popolo contro gli eccessi di potere e le estorsioni dei signori feudali, ci dice lo storico, non tardarono a prendere rapidamente il posto dei Signori, creando nuova agitazione in una società in crisi, in cui le strutture feudali de «l’Au-delà-des-Monts» (Corsica settentrionale) contrastavano con le comunità autonome de «l’En-deçà-des-Monts» (Corsica meridionale). La loro ascesa sociale, continua l’autore, fu rapida. Da popolani che erano all’inizio, i Caporali divennero prima dei notabili e ben presto autentici Signori di fatto. Circondati di «clienti», si assicurarono le funzioni più importanti e lucrative e finirono per esercitare il potere a livello amministrativo, diventando così i rappresentanti della massima autorità. Tutto ciò può spiegare il fatto che nella nostra fiaba il ruolo del re è assunto dal Caporale.
La fiaba de Le serpent à sept têtes offre un altro motivo di interesse: l’eroe, che in questo caso è un cavaliere (e probabilmente non è un caso), dopo aver ucciso il serpente ed essere stato invitato dalla figlia del Caporale a tornare con lei, per ricevere il premio promesso dice: «J’ai fait le voeu d’aller combattre les Turcs; et je ne porrai me rendre chez votre père que dans un ans»(184). Vediamo, dunque, apparire un altro motivo molto diffuso nella narrativa popolare corsa, ossia la lotta contro i Turchi, come abbiamo potuto costatare nella raccolta ottocentesca di Ortoli. Un altro particolare degno di nota riguarda la figura dell’usurpatore,cioè del personaggio che arroga a sé la liberazione della fanciulla. Abbiamo notato, infatti, che nelle versioni corse la figura del falso eroe è spesso associata al carbonaio o boscaiolo italiano. Il fatto che nelle fiabe il carbonaio o boscaiolo italiano venga identificato come personaggio negativo non è un caso ma è significativo in quanto è possibile cogliere in ciò la connotazione dispregiativa che, nella regione del Niolo, veniva dato ai lavoratori stagionali italiani, chiamati generalmente Lucchesi, perché provenivano per lo più dalla Toscana, che giungevano in Corsica, dal mese di ottobre al mese di maggio per essere impiegati nei lavori agricoli o prevalentemente come taglialegna. Ravis-Giordani(185) ci dice che i pastori del Niolo, i quali avevano modo di venire in contatto con i lavoratori italiani durante la loro lunga permanenza in Balagne, usavano spesso il termine Lucchese come un ingiuria, poiché con questa espressione i pastori erano soliti designare colui che non aveva terra, né diritti civili, né famiglia, né parenti, insomma una persona che non era un uomo nel senso sociale del termine. Massignon riscontra ,tuttavia, una notevole influenza italiana nelle fiabe corse, dovuta sicuramente all’apporto di racconti fiabeschi trasmessi dai lavoratori italiani durante il loro soggiorno in Corsica, i quali col tempo sono poi entrati a far parte del patrimonio narrativo tradizionale dell’isola. Questo influsso italiano, ci informa l’autrice, è evidente ad esempio nella storia di Les moines et le porcher,che gli fu raccontata da un pastore niolino (ma che no è presente nella raccolta), in cui il toscano è la lingua con cui si esprime il superiore mentre il dialetto corso è il linguaggio adottato dal porcaro. L’italiano è considerato, dunque, dalla narratrice come una lingua più elegante, raffinata rispetto al dialetto corso sicuramente espressivo ma rude.
3.5. L’originalità delle fole corse secondo Massignon.
Ha la narrativa corsa una sua specificità? Sarebbe possibile riconoscere immediatamente una fiaba corsa? Massignon sostiene che il patrimonio narrativo della Corsica presenta indubbie particolarità. Prendendo in esame nel suo complesso la narrativa tradizionale rilevata, l’etnologa nota che i fattori di maggiore significatività sono: il gusto dell’avventura e il disprezzo del pericolo. La maggior parte dei racconti hanno, infatti, per protagonisti impavidi giovani in cerca di fortuna che si espongono a pericoli soprannaturali e ad avventure di ogni genere per la conquista di oggetti meravigliosi o per ottenere la mano della principessa. Altri elementi caratteristici sono un forte sentimento per la giustizia, che comprende anche la vendetta, e questo vale sia per il mondo degli uomini sia per il mondo degli animali e, infine, il culto della bellezza, privilegio che esalta l’eroina e le serve anche da difesa.
Sobrietà, chiarezza, vivacità comunicativa contraddistinguono, secondo Massignon lo stile narrativo dei novellatori corsi.
Non esistono, continua l’autrice, formule precise di apertura. Il novellatore inizia solitamente il racconto in modo stereotipato e convenzionale, con il classico: «una volta era…». In chiusura, invece, le formule sono peculiari, riportano ironicamente l’attenzione alla realtà dell’enunciazione narrativa e contrassegnano l’invito a un cambio di turno dei narratori. La formula più semplice e diffusa è : «Fola Foletta, Dide a vostra, C’ha mea è detta»(186), talora dilatata in : «Fola Foletta, Mett’in calzetta, Dide a vostra, A mea è detta»(187) o ancora in : «Fola Foletta, Schinche rilletta, Dide a vostra, A mea è detta»(188). Sono ricorrenti anche chiusure costruite in forma ritmata del tipo: «M’hanu dadu una sporta di vinu, Una zucca di pane, Unu schincu di jallu, Per andà à cavallu!»(189) di cui esistono alcune varianti. Infine vi sono formule meno usuali quale quella in cui si fa riferimento ad alimenti tipici: «Hanu fattu una grande festa, c’eran’sigari di tutte sorte, Canistrelli e fritelli, Pezzi di brocciu, A! la bella festa, M’hanu dadu un’pede di jallina, che mi n’ardes’à casa mea»(190).
3.6. Rielaborazioni di fiabe per l’infanzia.
3.6.1. Francette Orsoni: (ri)scrittrice di fiabe.
Nel 2002, quasi quaranta anni dopo la pubblicazione dell’imponente raccolta di fiabe corse di Massignon, Francette Orsoni, scrittrice e illustratrice corsa per bambini, nell’Avant la séance de Fiordilisa et autres contes corses, scrive che «Ces contes ont longtemps dormi, repliés dans les mémoires ou aplatis dans les recueils d’enquêtes. Lorsque je les ai découverts, je les ai aimés malgré l’était dans le quel ils se trouvaient. Depuis, ils sont allés sur les chemins, sur les sentiers, dans les villages et dans les villes, dans mon île et ailleurs. Ils sont passés d’une langue à l’autre, car c’est la musique de cette autre langue qui les a aidés à trouver leur forme et à avancer»(191).
Secondo la scrittrice, dunque, è necessario infondere a queste fiabe della tradizione orale, ormai dimenticate, una rinnovata carica di vitalità. Esse hanno bisogno della parola, continua l’autrice, per rivivere «comme les graines endormies ont besoin d’eau pour germer…»(192).
In questa raccolta, Orsoni propone una rielaborazione destinata all’infanzia di Le Miroir, la fleur et le cheval. U fiore, u specchju, u cavallu, Trascritta in francese da Geneviève Massignon, in Contes Corses, una adattazione del racconto di Harpalionu, registrato da Frédéric Ortoli, in Les Contes populaires de l’île de Corse, una adattazione ritmata di Pedilestu et Mustaccina,inserita anch’essa nell’opera di Ortoli e una riscrittura di un breve racconto tradizionale registrato da Ghjuvan Battistu Straboni, intitolato U secretu di a Volpi. Questa raccolta, della collana Paroles de Conteurs, nasce dall’idea di riscrivere le fiabe «plutôt come on les dit que comme on les écrit»(193), ossia di far emergere dal testo scritto, l’intensità, il ritmo e la forza delle emozioni impresse in ogni parola. Uno dei metodi adottati da Orsoni è quello di utilizzare caratteri differenti, come il grassetto, per dare rilievo e importanza ad una determinata parola, spazi bianchi per creare i silenzi, le rotture, per aumentare le attese verso gli altri sviluppi del racconto, e la ripetizione di medesime parole, come è il caso di é viaghja, é viaghja, é viaghja…, al fine di dilatare l’idea dell’ampio spazio attraversato dal protagonista della fiaba e del tempo impiegato a percorrerlo.
Orsoni, pur rimanendo comunque piuttosto fedele alla trama classica, introduce nelle fiabe dei cambiamenti sostanziali, innanzitutto sul piano dell’espressione, in cui l’autrice esercita maggiormente la sua libertà creativa: modernizzazione del linguaggio, arricchimento del vocabolario, uso del gergo giovanile o di altri registri specifici.
Anche i titoli, fatta eccezione per Pedilestu et Mustaccina(194), presentano varianti più o meno significative rispetto a quello originario. Le modifiche si collocano lungo una scala che va da variazioni minime di tipo grafico, è il caso di Harpalionu, che in Orsoni diventa Arpalionu(195), fino a titoli completamente diversi come Le contrat(196), originariamente U sicretu di a volpi e Fiordilisa(197), il cui titolo nella raccolta di Massignon, come abbiamo già accennato qui sopra, è Le Miroir, la fleur et le cheval.
Un dato immediatamente evidente dal confronto fra i testi originari e le riscritture di Francette Orsoni è l’accentuazione del dialogato. L’autrice sviluppa dialoghi assenti nei testi di partenza e aggiunge battute nei dialoghi, ampliando quelli originari, per dare maggiore ritmicità al racconto. Così, per esempio, in Harpalionu, (che narra la storia di un ciuco che grazie alla sua astuzia riesce a far credere ad un leone d’essere più forte di lui e a farsi incoronare re di tutti gli animali), il momento in cui l’asino e il leone devono oltrepassare un corso d’acqua, in Ortoli, è sviluppato in questo modo:
«Or, il arriva qu’il fallut traverser une rivière.
D’un saut, le lion atteignit la rive opposée.
L’âne, au contraire, se mit à nager si maladroitement, qu’il risqua mille fois de se noyer.
Enfin, il réussit à la passer.
─ Comment, dit le lion, étonné de tant de maladresse, tu ne sais donc pas nager?
─ Moi! Je nage mieux qu’un poisson.
Le lion se contenta de la réponse, et, de nouveau, les deux animaux se mirent en route»(198). Mentre Orsoni lo sviluppa in quest’altro modo:
«Mais la vie n’est pas toujours simple :
Les voilà tout à coup obligés
De franchir un torrent !
En ce temps-là, il faisait chaud,
Mais quand il pleuvait, il pleuvait à flots.
Sans l’ombre d’une hésitation,
d’un bond souple,
Le lion s’élance au-dessus
des tourbillons.
Arpalionu voudrait bien en faire
autant, il hésite et finalement
se jette à l’eau !
Mais il nage si maladroitement
que lorsqu’il rejoint avec peine
l’autre rive, le lion
lui dit :
Ma sé un strampalatu, un’intravanatu,
Un veru balalò !
Vexé, l’âne répond :
─ Moi, maladroit et lourdaud ?
Tu n’as rien compris !
J’avais au bout de la queue
Un poisson grand comme ça,
Et toi, en criant, tu l’as fait fuir !
─ Ha ! Ha ! tu pêches en nageant ?
Tu es un animal intéressant !
À nous deux, nous allons régner sur tout ce continent»(199).
Altri cambiamenti rilevanti riguardano l’inizio e la fine delle fiabe. Forse l’esempio più lampante è dato dalla versione di Pedilestu e Mustaccina, che racconta la rocambolesca avventura du un gatto, chiamato Pedilestu, che cerca di salvare in ogni modo la sua amica gattina, Mustaccina, che rischia di morire strangolata da una mandorla. Mentre nella versione di Ortoli, l’ azione narrativa ha inizio immediatamente con la proposta del gatto di andare in soffitta: «Le petit chat a dit à la petite chatte: ─ Viens au grenier, et là nous mangerons de belles noix et de belles amandes»(200). Nella fiaba rielaborata da Orsoni, invece, l’esordio vero e proprio, che inizia con lo strangolamento di Mustaccina a causa di una mandorla, è preceduto da una introduzione dettagliata del futuro eroe e dell’amicizia che lo lega a Mustaccina:
Il était une fois, dans ce pays-ci,
dans cette île-là,
un grand et gentil chat,
dégourdi et agile,
nommé Pedilestu.
Il était très ami, plus qu’ami,
Avec une chatte gracieuse
Et gourmande nommé
Mustaccina.
À eux deux, il font une telle paire et une belle peur aux souris et aux rats qu’aucun n’ose s’approcher des maisons.
Les maîtres des lieux peuvent ainsi laisser sécher en toute tranquillité les récoltes, dans le grand et mystérieux grenier.
Pedilestu et Mustaccina ont beau être choyés, chouchoutés,
Il n’ont pas non plus le droit d’aller dans le grenier,
Car ils risquent d’y faire des dégâts, en se roulant dans les pommes, les amandes et les noix…
Mais on préfère toujours
Ce qui est interdit !
c’était comme ça hier,
c’est comme ça aujourd’hui !
C’est pareil chez les chats…aussi !»(201).
Sempre in questa fiaba Orsoni, introduce un’altra modificazione significativa nel finale rispetto al testo originale di Ortoli,che termina semplicemente con la morte della gattina e la decisione del gatto di non catturare più topi per vendicarsi di chi non gli ha voluto prestare soccorso . Nella versione di Orsoni, invece, la condanna morale nei confronti di chi non ha voluto aiutare il gatto, che è solamente accenna in Ortoli, è resa esplicita. La scrittrice fa terminare, infatti, la fiaba in questo modo:
«dans ce pays-ci, dans cette île-là, tout le monde sait, même les chats, qu’il ne faut jamais refuser d’aider quelqu’un qui est en danger,
et qu’un coup de main,
ça ne se remet jamais
à demain !»(202)
Un’ulteriore novità, in queste rielaborazioni delle fiabe tradizionali corse rivolte all’infanzia, consiste in una descrizione più accurata dei personaggi, che sono rappresentati con un maggiore spessore, una personalità più ricca e con dei sentimenti. La scrittrice introduce, infatti, caratteristiche che servono a tracciare meglio il personaggio. Così Arpalionu, non è un semplice âne che un giorno si mise in testa di andare a fare fortuna e dopo aver rotto la fune che lo teneva legato, corse nei prati e per la felicità «se mit à braire tant et si fort et si joyeusement, qu’un lion qui, par hasard, se trouvait par là, vint voir de quoi il s’agissait»(203).Ma è un’ asino :
«qui avait un nez démesuré
Et une crinière courte, raide,
ridicule !»(204)
È un asino ambizioso, che venuto a sapere di un leone che si era proclamato re di tutti gli animali, decise di diventare anche lui re di tutti gli animali.
«─ Moi aussi, j’aimerais devenir aussi puissant que lui!
Alors il décida de partir
Conquérir le pays.
Pour se donner du courage, et pour impressionner l’entourage,
il se mit à braire comme seuls les ânes savent le faire,
et il se fit entendre jusqu’au fin fond du pays!»(205)
Oppure, in Pedilestu e Mustaccina, i due protagonisti non sono solamente «le petit chat (…) la petite chatte»(206), come nella fonte originale, bensì «un grand et gentil chat, degourdi et agile ─ e ─ une chatte gracieuse et gourmande»(207). O ancora, in Fiordilisa, la generica «jeune fille»(208) contesa da tre giovani, che partono per un anno alla ricerca di un regalo straordinario, affinchè la giovane possa decidere chi dei tre sposare, diventa:
«une princesse,
(…) une reine,
car elle a toujours eu une cour autour d’elle.
(…)
Chaque jeune homme rêve
De l’épouser, et trois jeunes hommes en particulier passent leur vie
à l’entourer,
à la servir,
à l’accompagner…»(209)
3.6.2. «La légende du brocciu. U secretu di u Magu».
La fiaba raccontata con le immagini.
Numerosissime sono le strategie impiegate da Francette Orsoni per far rivivere ai bambini l’incanto della tradizione orale del popolo corso. Un altro modo, come si può ben notare in La légende du Brocciu. U secretu di u Magu(210), che racconta come i pastori corsi appresero il segreto di u Brocciu, è quello di cercare di trasmettere la magia del racconto non soltanto col testo, scritto sia in corso che in francese, ma anche e soprattutto con le illustrazioni.
Fig. 1. «i “ magunelli” so qui, à nantu à i cantoni è si sciaccani fittoni di pani cù un casgiu frescu, frescu, cusì lighjeru, chì pari piu cà bonu!»(211)
La storia, dal fascino sorprendente, è affidata sia alla parola sia alle immagini che avvolgono il testo. Questa creazione, infatti, dice la stessa autrice nell’Avant-Propos «est le fruit d’un rencontre entre Ecriture, Parole et Image, mise au service d’un légende dont on trouve la trace à travers plusieurs variantes dans le sud comme dans le nord de l’île»(212).
L’autrice e illustratrice si propone di far rivivere ai bambini in maniera ludica e «colorée» questo importante tassello della mitologia agro-pastorale della Corsica (di cui abbiamo già parlato nella descrizione della vita pastorale nel Niolo) poiché si tratta di una significativa leggenda fondatrice, che narra l’origine mitologica del formaggio chiamato Brocciu. Inoltre, scrive Orsoni, «puisque notre société tient encore à marquer ses événements par de symboliques “ Friteddi” ou “frittelli” il nous a semblé également important qu’elle récupère, avec cette légende, une parcelle de cet imaginaire, autre facette de son savoir -être…»
Fig. 2 : «Ma cù pedi calzu è l’altru nò, inciampa, rutuleghja è casca à mezi petri!
Bon prò pà i pastori! Escini tutti insemi dà u so piattatoghju è saltani in cresta à u magu, briuneddu: “VITTORIA, VITTORIA! U MAGU HÈ NOSTRU!”
(…) Tandu u magu prega, supplicheghjia i pastori è dici: “ Lascetimi andà chì eiu vi possu dà un sicretu maragliosu chì vi ampararà à fa un frumagliu frescu savuritu è gustosu!
(…) È dici à i pastori chì a moglia, sta magona, hà pinsatu à mischià latti è seru. (…) U Magu spiega cumu a moglia faci scaldà tuttu, pianamenti è bè, senza lu coci troppu, chì si dinò incutalisci. Dici dinò: “Cosa mai vista, stu frumagliu si magna cù u zuccaru è si chiama BROCCIU!”»(213)
3.6.3. I bambini giocano con la tradizione orale.
Fiaba e teatro a scuola.
A partire da ricerche approfondite sulla letteratura orale e sul patrimonio culturale della Corsica, «l’Association U filu di a Memoria», animata da Francette Orsoni, ha perseguito un movimento artistico e creativo che si è manifestato attraverso diversi ateliers di pratica artistica e teatrale «Conte et Théâtre», indirizzati ai bambini tra i sei e i dodici anni e organizzati in ambito scolastico.
Il primo volume della collana «Les enfants jouent avec la traditions orale» intitolato La mère de Vents. A mamma di i Venti(214), indirizzato agli insegnanti, agli animatori ma anche ai bambini interessati alla preparazione di uno spettacolo teatrale, ci permette di scoprire i risultati del primo laboratorio di «Conte et Théâtre», realizzato nel 1997, durante tutto l’anno scolastico, nell’ambito dell’insegnamento di lingua corsa di due o tre ore settimanali e durante «le temps cantine», in collaborazione dell’associazione teatrale «Jeux de mains et de mots», e «l’Association Peintres en herbe» e presentato in lingua corsa e in francese dai bambini delle scuole elementari «St Jean et Salines» nella Salle des congrès ad Ajaccio.
In un primo momento Francette Orsoni ha realizzato una rielaborazione della fiaba I Venti(215) registrata da Massignon, e l’ha presentata con una trama musicale in maniera da suscitare l’immaginazione dei bambini.
A mamma di i Venti, narra la storia di Ghjuvanninu che va alla ricerca della Mamma dei venti, per sapere chi tra i suoi figli, Livanti, Tramuntana e Libecciu, ha distrutto il suo campo di grano e per chiedere una riparazione per il gravissimo danno subito.
Libecciu per pagare la sua colpa regala a Ghjuvanninu un piccolo sacco, ma non un sacco qualsiasi, grazie al quale potrà avere ogni sorta di pane, pronunciando queste parole:
«Saccu Sacchitteddu
Dà mi un canistreddu,
Saccu sacchittonu
Dà mi un canistronu»(216).
Tornato a casa, Ghjuvanninu rivela il potere del sacco alla madre e per lungo tempo divide tutti i tipi di pane, canistreddi, finucchjetti, che il sacco produce con tutto il villaggio, fino a quando, però, la madre non rileva ad una vicina il segreto del sacco, che perde perciò il suo potere. Ghjuvanninu si rimette allora in viaggio verso la dimora della Mamma di i Venti. Giunto presso i venti, Libecciu gli dice:
«Tu as été averti, et tu l’as dit, mais…ton blé a repoussé, depuis!»(217). Tuttavia, la madre dei venti, per non lasciarlo partire a mani vuote, chiede ai figli di consegnare al giovane un altro sacco, ma dove questa volta «Chacun de nous y mettra des secrets et ces secrets là, Ghjuvanninu pourra aller les raconter au monde entier (…) de merveilleux secrets qui viennent du pays du soleil Levant! (…) les mystères des sources et des fées qui habitent les rivières et les vallées (…) les terribles histoires du Magu, du Monti Tafanatu, et du fameux Basgiliscu du Celavu!»(218) perché, dicono in coro tutti i recitanti, alla fine della rappresentazione teatrale : «pour grandir on a besoin de pain, mais on a aussi besoin d’histoires et de chansons»(219).
Durante il laboratorio «Conte et Théâtre» i bambini oltre all’acquisizione di nozioni teatrali primarie e a migliorare la gestualità corporea, l’espressività e la creatività, attraverso disegni, pitture, realizzazione di maschere, la fabbricazione di costumi, la conoscenza di strumenti tradizionali vengono fatti avvicinare al loro patrimonio culturale.
La fiaba della tradizione orale così riadattata, nell’ambito del laboratorio, diventa un veicolo, uno strumento oltre che per potenziare la creatività, soprattutto per permettere ai bambini di riappropriarsi della lingua corsa e per trasmettere loro il sapere culturale della loro isola.
Capitolo quarto
4. Il tradizionale patrimonio narrativo dei pastori e contadini di Gallura.
4.1. La specificità della Gallura e dei galluresi nel contesto sardo.
Salvatore Brandanu(220) afferma che nel contesto geografico, etnico e culturale estremamente composito e frammentario quale è quello della Sardegna, la Gallura si presenta senza dubbio come l’area più omogenea e allo stesso tempo come la regione più marcatamente «diversa» dal resto dell’isola. A segnare questa diversità c’è, continua l’autore, l’origine del galluresi, che è corsa e non sarda, la lingua gallurese, che ha una sua peculiarità espressiva e che, secondo il glottologo tedesco Wagner, è «un dialetto essenzialmente corso e si avvicina più particolarmente al dialetto oltremontano parlato nella parte meridionale della Corsica»(221), la peculiarità delle componenti fisiche e geografiche e, infine, la singolarità dell’insediamento di tipo disperso, costituito dagli stazzi.
La Gallura, per questi motivi di differenziazione geografica, culturale, linguistica, può essere considerata, adottando la prospettiva che Alberto Merler(222) definisce «insulare», una realtà che in qualche modo presenta i connotati dell’isola, un’isola nell’isola.
La prospettiva insulare di Merler si contrappone a quella che comunemente tende ad associare il termine isola a quelli di isolamento, emarginazione, distanza. Nell’accezione utilizzata dall’autore, infatti, il concetto di isola si riferisce non solo a quei territori geograficamente definiti tali, definibili cioè in base al fatto di essere circondati dal mare, ma ogni realtà che si differenzia, oltre che sul piano fisico anche su quello socio-culturale «da tutto ciò che le sta intorno, traendo da ciò elementi di distinzione»(223). Un’ isola, continua l’autore, non è un sistema a sé, uno spazio chiuso, ma è «parte di un sistema relazionale»(224), che trae dagli altri spazi circostanti non soltanto la sua identificazione in termini di differenziazione, di auto-riconoscimento, ma anche possibilità di rapporti, di scambio, di collegamento. In questo senso, noi dobbiamo intendere la Gallura, come appunto uno spazio non soltanto fisico ma socio-culturale che «si differenzia rispetto agli altri modi di essere società dell’altra gente che vive tutt’intorno»(225) con i quali, tuttavia, stabilisce una relazione, un confronto. Essere un’isola, dunque, secondo l’autore, non significa affatto isolamento, estraniazione, anche se spesso le realtà caratterizzate da elementi di insularità sono state (e lo sono ancora in molti casi) identificate come realtà caratterizzate da assenza di comunicazione, d’interruzione dei rapporti umani e di mancanza di informazioni. Tutti questi elementi, come vedremo parlando della «civiltà degli stazzi», non hanno caratterizzato la Gallura. Infatti, anche se è storicamente innegabile che la Gallura, come apprendiamo da Le Lannou(226), sia stata caratterizzata da una bassissima densità e da una oggettiva marginalità rispetto alle altre sotto-regioni della Sardegna, marginalità imputabile sia alla sua collocazione geografica, sia alla naturale povertà del suolo, poco produttivo, che non poteva esercitare che poche attrattive, sia sulle popolazioni indigene, sia sui vari dominatori che si sono succeduti in Sardegna, non era isolata nei termini suddetti. La vita dei pastori-contadini negli stazzi, infatti, sebbene trascorresse per la maggior parte del tempo in solitudine, era interrotta da momenti d’incontro, di scambio e di convivialità, tutti comportamenti estranei ad una realtà «isolata». Non bisogna poi dimenticare dei continui rapporti tra Gallura e Corsica, che si sono svolti nel corso dei secoli e che sono ampiamente documentati sin dall’età punica e romana, come ci informa Mastino(227). Anche da Cossu(228) apprendiamo, inoltre, che non c’è dubbio che, fin dai tempi più antichi, la Sardegna Settentrionale fu soggetta ad una corrente migratoria dalla vicina Corsica, che fu particolarmente intensa nel XVIII secolo e che continuò sino a non molti anni fa. Come testimonianza della vastità e della profondità dei continui contatti tra la Corsica e la Gallura, ad esempio, Cossu cita la progressiva penetrazione della parlata dei corsi immigrati nelle campagne e nei paesi della costa settentrionale dell’isola, che mescolandosi e fondendosi con la parlata degli indigeni galluresi, avrebbe dato origine ad un corso-gallurese che, tuttavia, con le proprie caratteristiche forme e accenti, si contraddistingue in un certo grado da quello oltremontano, parlato nella Corsica meridionale. Un’ulteriore conferma dei rapporti tra corsi e galluresi, secondo l’autore, è segnata anche dalla presenza di numerosissimi cognomi di provenienza corsa, in particolar modo nella zona di Santa Teresa di Gallura, ma è facilmente riscontrabile sino ai limiti estremi di San Teodoro ed all’interno del territorio.
4.2. La civiltà della stazzo.
Fresi(229) sostiene che ciò che più d’ogni altro elemento caratterizza la Gallura è l’insediamento rurale sparso, costituito dagli stazzi, aziende agro-pastorali, in genere cellule abitative unifamiliari autosufficienti che, come sosteneva Le Lannou «mettono nel paesaggio una nota singolare»(230) e finiscono per dare «a questa fascia marittima poco privilegiata, che non ha mai provocato niente di più che iniziative individuali di colonizzazione, la sua paradossale originalità»(231).
Pare che a costituire gli stazzi, o per lo meno ad accrescerli notevolmente, secondo quanto afferma Renzo De Martino(232), siano stati, tra la fine del Seicento e i primi del Settecento, dei profughi fuggiti dalla Corsica a causa di faide familiari devastanti, di rovinose difficoltà economiche e profonde crisi sociali, che unitisi ai pochissimi abitanti della Gallura, allora quasi deserta, costruirono con la pietra locale, il granito, piccole case nei siti più soleggiati e riparati dai venti dominanti, in sostituzione delle capanne in frasche utilizzate dai pastori nomadi.
Non si trattò, naturalmente di vero e proprio esodo, continua l’autore, ma fu un’emigrazione considerevole e persistente, favorita dalla prossimità delle due sponde e dalla facilità di inserirsi in una terra quasi disabitata, che comunque svolse sicuramente un ruolo di grande rilievo, se non addirittura determinante nel processo di evoluzione della «civiltà della stazzo».
Da Fresi(233) apprendiamo che durante il periodo di vera floridezza di questa civiltà, ossia intorno agli anni 1850 - 1870, la stazzo non era altro che una costruzione in muratura di una sola stanza col pavimento in terra battuta arredata con un letto, la banca (il tavolo da pranzo), lu bancu (panca rudimentale), alcune catrei e banchìtti (sedie e sgabelli), una macina e il forno. Al centro della casa manna, che veniva sempre accresciuta da altre stanze, l’appusènti, quando ad ogni matrimonio la famiglia si allargava, c’era lu fuchìli (il focolare), delimitato da pietre sistemate in circolo e, appesi al soffitto di canne e travi, i graticci con il formaggio e gli insaccati. Nelle vicinanze della casa vi era l’ovile, il vaccile, la porcilaia, l’orto e la vigna. Tutto in torno, un appezzamento di terreno più o meno vasto, quasi sempre boscoso, parte del quale veniva riservato alla coltivazione dei cereali e parte destinato al pascolo brado.
Brandano(234) ci dice che la vita nello stazzo comportava disagi veramente notevoli. Tra tutti i fattori di disagio quelli che, secondo l’autore, rendevano particolarmente dura l’esistenza nello stazzo erano la scarsissima viabilità e la mancanza di acqua nelle vicinanze dell’abitazione.
Mancavano le strade: solo piccoli sentieri allargati nel corso dei secoli dal calpestio di uomini e animali e dal passaggio dei carri o semplici mulattiere percorribili solo a piedi e a cavallo, collegavano tra loro i diversi nuclei abitativi. Ma, durante il periodo invernale, spesso l’ingrossamento e lo straripamento dei ruscelli interrompevano le comunicazioni, rendendo intransitabili queste strade e isolando in questo modo, per diversi giorni, i vari stazzi dagli insediamenti limitrofi.
L’assenza d’acqua nello stazzo comportava la necessità del suo rifornimento quotidiano sia per uso domestico che per uso potabile. Cercare di procurarsi una quantità d’acqua sufficiente a fare fronte alle esigenze familiari, continua l’autore, comportava non poche difficoltà e soprattutto nel periodo estivo, dato che ci si avvaleva di ruscelli, che tuttavia già a partire da giugno andavano in secca, di pozzi, la cui portata era piuttosto modesta e di fontane, che erano situate in luoghi disagiati dello stazzo.
Ciò che rendeva ancora più dura la vita dei pastori-contadini galluresi, scrive Brandano, era il fatto che l’esistenza fosse condizionata dal susseguirsi ciclico delle stagioni e costantemente turbata dall’ossessiva preoccupazione per il loro andamento, e non a torto, visto che se per qualche ragione il raccolto andava male ciò significava fame e carestia per tutta la famiglia. Tutto, dalla semina alla raccolta dei prodotti agricoli, dalle attività d’allevamento alle attività domestiche, era programmato dal succedersi ritmico delle stagioni. I lavori agricoli iniziavano in agosto con la preparazione dei terreni da seminare e proseguivano a settembre e ottobre; a novembre e dicembre avveniva l’aratura e la semina, mentre a febbraio e marzo i lavori riprendevano con la zappettatura. A giugno, i pastori-contadini provvedevano poi alla mietitura e a luglio alla trebbiatura per ricominciare il ciclo in agosto. Anche l’attività pastorale, continua l’autore, pur essendo limitata a qualche ora al giorno, era continua e richiedeva la presenza costante del pastore nello stazzo e non consentiva la possibilità di riposi lavorativi. Come abbiamo appena visto, dunque, vivere nello stazzo comportava un carico lavorativo molto pesante, che il pastore-contadino doveva affrontare, per giunta, per la maggior parte del tempo, da solo a contatto con un ambiente ostile e minaccioso.
4.2.1. Fatalismo e superstizione tra gli abitanti degli stazzi.
Perché l’esistenza nello stazzo potesse scorrere senza troppe difficoltà, scrive Fresi(235), le forze naturali dell’uomo non erano considerate sufficienti, c’era bisogno del soprannaturale, che era lì, a portata di mano per chi sapeva cogliere i segni e il loro significato. Tra i pastori-contadini della Gallura, infatti, continua l’autore, c’era la convinzione che parallela alla vita reale scorresse un’altra vita nascosta, misteriosa, ma in ogni modo determinante, che si poteva conoscere solo attraverso dei segnali che bucavano, per così dire, il mistero, permettendo a chi ne era in grado di scrutare quella seconda realtà, mentre chi non riusciva a riconoscere questi segni o addirittura li ignorava di proposito, doveva fare i conti con le forze del male, che cercavano in ogni modo di intralciare la vita dei poveri mortali. Le insidie del maligno, l’usbellu, dice Fresi, venivano scongiurate con formule magiche di cui sia i bambini sia gli adulti non potevano fare a meno. C’erano scongiuri speciali per togliere lu colpu d’occhj, il malocchio, vi erano formule per proteggere la salute della casa, dei beni, dei greggi o contro ogni strobbu ,ogni cattivo evento, che venivano recitate in ogni occasione, ma soprattutto quando ci si metteva in viaggio. Ma nello stazzo, le occasioni di pericolo e di paura erano veramente tante e per queste esisteva un’unica e lunga formula magica che le comprendeva tutte e alla quale si attribuiva una potenza illimitata: li dódici paràuli, ossia le dodici parole, che, secondo la tradizione popolare, fu Gesù Cristo in persona ad averle dettate ad una donna di grande fede vissuta sempre in uno stazzo.
Magia, fatalismo, superstizione, paura d’essere agiti da forze sopranaturali imperscrutabili costituivano, dunque, un notevole aspetto della mentalità degli abitanti degli stazzi, che influiva e condizionava non poco i loro comportamenti e in generale tutta la loro vita, e che si rispecchia profondamente nella loro narrativa popolare, come vedremo con Mossa(236) parlando del patrimonio narrativo popolare gallurese.
4.2.2. Momenti comunitari.
Fresi(237) afferma che nelle condizioni di isolamento diffuso in cui gli stazzi si trovavano per gran parte dell’anno, l’esigenza di socialità era soddisfatta da diverse occasioni di incontro e di socializzazione tra le famiglie del vicinato, molte delle quali erano legate al lavoro come l’aglióla, la trebbiatura, lu tunditògghju, la tosatura, lu bibbinnatògghju, la vendemmia, l’ammazzatògghju di lu polciu, l’uccisione del maiale e li manialìi, ossia l’aiuto comunitario per i lavori più urgenti.
Altri momenti di incontro che allietavano la difficile e solitaria vita nello stazzo, continua l’autore, erano costituiti dalle feste campestri e padronali, dagli sposalizi, e dai balli, li baddatogghji, che venivano organizzati in tutte le stagioni ed in particolare nel periodo di carnevale. Tra queste situazioni di socialità rientravano anche le veglie notturne intorno al focolare. Durante le lunghe notti invernali, spesso per rendere meno opprimente la solitudine, continua l’autore, venivano invitati negli stazzi gli improvvisatori, li puètti oppure canzunadóri, e i cantanti dialettali, chiamati cantadóri che girovagavano da un’abitazione all’altra ricevendone ospitalità e raccogliendo consensi dagli uditori. Pirredda(238) ci informa che, in queste notti, un posto speciale era occupato dalle narrazioni di fiabe, che assicuravano una partecipazione attenta e interessata di tutta la famiglia. Dipendeva molto, ovviamente, dall’abilità dei narratori, i quali con le loro doti narrative e grazie alla varietà del materiale offerto dalla favolistica gallurese, riuscivano a catturare un uditorio composito e attento, facendo vivere quel incanto che aveva appassionato e nutrito generazioni di pastori, alimentandone il fatalismo, la radicata superstizione, il cupo mistero della vita e della morte e di tutto un mondo, considerato parallelo, popolato da spettri, da spiriti penitenti e leggendari castelli. Talvolta, continua l’autore, i narratori solevano intrecciare queste fole con i cosiddetti conti di fuchìli, i racconti del focolare, che destavano un grande interesse fra i pastori, anche se non bisogna mai dimenticare, come scrive Thompson, che «gli uomini e le donne che raccontano non conoscono né si curano di conoscere distinzioni di genere»(239). Si trattava, continua Pirredda, di narrazioni di fatti avvenuti in tempi remoti, che attraverso deformazioni in senso fiabesco ed aggiustamenti vari degli stessi narratori, entravano nella leggenda; erano storie di banditi, ma anche racconti leggendari sull’amore romantico di giovani che, sfidando le ire dei genitori che si opponevano alle loro nozze, fuggivano per andare a vivere nelle grotte per poi venire accettati, dopo qualche tempo, in seno alla famiglia.
Ma i racconti che destavano maggiore interesse, scrive l’autore, erano li conti di timì(240), le fiabe che incutevano paura, storie che rievocavano fatti delittuosi, incontri notturni agghiaccianti, visioni ultraterrene, racconti di spiriti maligni che di notte uscivano a disturbare il sonno degli abitanti di certi stazzi, provocando sinistri rumori sul tetto o tutto in torno alla casa. La predilezione per questo tipo di storie è evidente e la si può dedurre leggendo una qualunque raccolta di fiabe galluresi in cui, tutti i racconti sono avvolti dall’alone di paura e di mistero proprio del sopranaturale e hanno la maggior parte come protagonisti spiriti, streghe che succhiano il sangue, il diavolo e morti che tornano dall’aldilà per tormentare i vivi.
4.3. I racconti tradizionali di Gallura.
4.3.1. «Li conti di timì».
Il discorso fino ad ora affrontato sulla specificità del caso Gallura e sulla vita negli stazzi ci sembrava doveroso perché, come ci dice Mossa(241), questo ci permette di cogliere e di comprendere i nessi tra le condizioni materiali degli abitanti della Gallura e le credenze, le storie che si sono sviluppate in seno a questa società agro-pastorale, e dunque, ci consente di capire meglio le caratteristiche della narrativa popolare gallurese.
Come abbiamo già detto in precedenza, sia a proposito della paura del sopranaturale e della superstizione che condizionava l’esistenza dei pastori galluresi, sia parlando delle narrazioni predilette durante le veglie invernali negli stazzi, non si può fare a meno di notare, nell’ambito del patrimonio favolistico della Gallura, l’ampia diffusione , rispetto alle altre zone della Sardegna, di racconti che hanno per protagonisti esseri infernali e demoniaci.
Mossa ci spiega che il motivo di tanta inquietudine che contraddistingue tante storie galluresi è da ricercare nelle particolari condizioni di vita negli stazzi. Abbiamo visto, infatti, parlando della dura esistenza quotidiana dei pastori-contadini, che essa trascorreva solitaria, fatta eccezione per alcuni momenti di socializzazione, e in un ambiente percepito spesso come ostile e minaccioso. Secondo l’autore, proprio questa solitudine e i profondi silenzi della natura avevano intensificato nel pastore gallurese il senso d’angoscia per l’ignoto, il terrore di soccombere di fronte a forze sconosciute e lo sgomento dinnanzi alla morte. «Non può avere di certo il cuore sereno ─ scrive Mossa ─ chi percorre lunghe distanze o vive giorni e giorni isolato con la sua famiglia, conducendo una vita in un ambiente naturale estremo e pressato dall’assillo della ricerca laboriosa di un benessere difficile»(242). La durezza del vivere quotidiano, la rarefazione dei contatti, le immense difficoltà causate da una natura incerta, continua l’autore, aveva favorito, la diffusione di messaggi misteriosi e ambigui, sui quali si fondavano le riflessioni sul significato della vita, della morte, del destino dell’anima. Mossa, riprendendo le parole dello studioso Lewis Munford, afferma che quando ci si trova di fronte a scarse risorse, al buio, alla morte, all’ignoranza, allora i fenomeni del sogno come l’apparizione o la sparizione di persone o di personaggi sopranaturali, l’ossessione di immagini spettrali e demoniache incontrollabili, diventano elementi veri, corporei come le vacche, le pecore, i campi. Costruire mondi fantastici, sostituire alla realtà elementi irrazionali o sogno, continua Mossa, era quindi , anche per i pastori galluresi, un modo di sfuggire agli insopportabili condizionamenti quotidiani, un modo per stupirsi, di avere paura ma «tenendo i piedi ben piantati sulla terra»(243). Ecco, dunque, spiegato, secondo Mossa, il motivo di questa grande quantità e varietà di storie macabre nella narrativa tradizionale gallurese.
Tra la folla di esseri fantastici e spaventosi, che popolano le fole della Gallura, incontriamo innanzi tutto la cosiddetta Réula, ossia «la processione di anime penitenti»(244) che, non prima di mezzanotte, lasciavano le loro tombe, con indosso una lunga camicia bianca, probabilmente l’abitu (veste che serviva ad avvolgere il morto) e tenendo in mano una candela accesa, e vagavano senza requie nelle vie deserte dei paesi o nelle campagne, per scontare in penitenza i loro peccati. Numerosi racconti riuniti nella raccolta di Mossa, che si ritrovano anche in Bottiglioni, narrano di sfortunati viandanti o pastori cha avevano avuto la disgrazia di imbattersi nella spaventosa e macabra processione. Il minimo che poteva succedere al malcapitato che la incontrava era di ricevere «una passatina di ruvide botte»(245). Affinché la Réula non provocasse danni peggiori, il viandante o il pastore doveva mettersi sul margine della strada, inginocchiarsi, fare il segno della croce e cominciare a recitare «le dodici parole», che secondo la tradizione gallurese, come abbiamo già detto, rappresentavano la summa degli scongiuri dai poteri illimitati, ma guai a sbagliare poiché sarebbe stato «segno di disgrazia inevitabile»(246).
Molte storie, come le tre rilevate da Bottiglioni, raccontano di pie donne che, recatesi di notte in chiesa o presso un cimitero, venivano circondate dalla schiera di morti ma riuscivano a salvarsi facendosi il segno della croce e pronunciando queste parole: «Ho incontrato in via Paolo, Pietro e Andrea, e stanno venendo con meco, Andrea, Paolo e Pietro, son con meco in compagnia, Paolo, Pietro e Andrea»(247). Oppure queste altre «Se siete anime buone, andate alla buon’ora, se siete anime cattive, andate dove Dio vi ha destinate»(248).
Un’altra caratteristica della Réula, che si può dedurre in questi racconti, era la danza macabra. Spesso queste anime penitenti si abbandonavano a canti e danze sfrenate nelle chiese o per le strade, le quali potevano causare la morte a chi capitava in mezzo senza più riuscire a liberarsi. Anche in questo caso, l’unico modo per non essere trascinato nel loro mondo freddo e sotterraneo, era di recitare formule magiche oppure avere la fortuna di trovare tra la schiera dei morti «un compare di battesimo»(249) che, dati preziosi consigli, permettesse al malcapitato di sfuggire, come era capitato ad un cacciatore che in una notte di settembre, andato a caccia di cinghiali presso la chiesa di san Paolo di Monti, si era imbattuto nella Réula, in una storia reperita da Bottiglioni.
Anche in Ortoli(250) abbiamo incontrato una serie di racconti che parlano di morti che ballano in una ronda infernale, di anime in pena che vagano in processione, che in Corsica vengono chiamati Squadra d’Arrozza. A nostro avviso tra la Squadra d’Arrozza e la Réula si possono notare molti tratti in comune. Entrambe sono schiere di morti, che appartengono al mondo infernale. I luoghi e i momenti di azione sono comuni: tutte e due possono uscire dai loro sepolcri non prima di mezzanotte e vi devono rientrare prima che giunga l’alba, si incontrano presso i cimiteri, o in luoghi dove vi è stato seppellito qualcuno o ancora vicino alle chiese. Sia l’una che l’altra, infine, sono in alcuni casi presagio di morte.
Oltre alla Réula, nei racconti galluresi incontriamo anche altri personaggi spettrali come ad esempio la fugliètta, il folletto femmina, che aveva dalla vita in su sembianze e abiti femminili, mentre, dalla vita in giù aveva l’aspetto di una capra. In La fantasmina(251) si narra che quando la Gallura era ricoperta di boschi e rari pascoli, tra gli alberi secolari si aggiravano numerosi folletti femmine, le quali erano solite rapire i bambini.
Un altro di questi esseri spaventosi era la pajana(252), anima inquieta di una donna morta di parto, che era obbligata per sette anni, come lunga penitenza, a lavare ogni notte «dalla mezzanotte fino al terzo canto del gallo»(253) sulla sponda di un ruscello, i panni del suo neonato. Se per caso un viandante, che si trovava a passare per caso presso il corso d’acqua, osava disturbare l’anima della penitente, sicuramente sarebbe morto entro l’anno a causa dei colpi inferti dalla pajana, che per colpa dell’interruzione era costretta a iniziare da capo la sua penitenza. Qualche volta, scrive Mossa, secondo la tradizione, una parente della puerpera si assumeva questa incombenza, per sollevare lo spirito dal pesante compito e per permetterle di riposare in pace.
Studiando la narrativa tradizionale corsa, abbiamo notato che anche questo personaggio, che si trova in molte storie galluresi, si riscontra anche nelle leggende della Corsica rappresentata con caratteristiche simili. Francette Orsoni, in Chemins de l’île, chemins de l’oeil, ci parla di a sciaquaghjola o Paiana e la descrive in questo modo: «Cette femme morte en couches emprunte le chemin de l’eau. Comme elle ne trouve pas le repos elle revient la nuit par la rivière. On l’entend gémir et bercer son enfant, on l’entend faire claquer le linge sur la pierre et sur l’eau. C’est pour cela qu’on la surnomme “a sciaquaghjola”»(254).
La Réula, la pajana e la fugliètta sono solo alcuni dei numerosissimi esseri fantastici che agiscono nei racconti tradizionali galluresi. Facendo nuovamente un paragone con le fole corse, vediamo invece che esse, al contrario delle fiabe galluresi, come abbiamo potuto costatare analizzando sia la raccolta di Ortoli sia quella piuttosto ampia di Massignon, presentano pochissimi personaggi soprannaturali. Tra di essi quello che compare con una notevole frequenza d’apparizione è u magu, che può essere considerato il principale essere fantastico nelle fole corse. Da Multedo(255) apprendiamo che nella terminologia corsa, il termine magu è associato a quello di u stregone, u magone, coi quali si denomina spesso il diavolo. U magu, continua l’autore, è la personificazione delle potenze demoniache e rappresentazione della morte nato dall’immaginazione del popolo corso.
Riprendendo il discorso sugli esseri fantastici del patrimonio narrativo gallurese, un altro essere spaventoso è la sùlvula(256), un vampiro femmina che succhia il sangue ai bambini in fasce e soffoca i lattanti. C’è poi la schiera di li luciuléddhi(257), spiriti di bambini non battezzati che si aggirano rumorosamente nei luoghi dove nacquero e ancora Lu pundacchju di li sètti barrètti(258), un folletto dispettoso, custode di un tesoro, che è solito opprimere con il suo peso il petto dei dormienti. Anche Bottiglioni riporta la storia del folletto dalle sette berrette, che narra di un uomo che accortosi di avere lu pundacciu(259) sul suo petto, riesce a sottrargli una delle sue sette berrette rosse e a nasconderla in una pentola fuligginosa, ottenendo in questo modo il tesoro dello spiritello.
4.3.2. Storie di diavoli.
Tra le tante storie galluresi molte hanno per protagonista il diavolo e la morte. In più racconti, ci dice Mossa, è spesso difficile distinguere satana dalla morte personificata. Il demonio in queste narrazioni viene rappresentato, come del resto in tutta la Sardegna e, come abbiamo potuto riscontrare, anche in Corsica, a guardia dei tesori, attorno a specchi e sorgenti oppure nascosto in crocicchi e presso le case pronto a tendere insidie e ordire inganni ai danni dei più deboli per poi impadronirsi delle loro anime. A volte appare come un personaggio bizzarro, anche un po’ burlone. Altre volte prende le sembianze di cinghiali, cani, gatti e altri animali. Nei racconti galluresi il demonio viene chiamato in vari modi come ad esempio Lu fòra di nòi(260) o Zampa di jaddhu(261).
Da questi racconti apprendiamo che anche tra i diavoli valgono le gerarchie, vi sono i potenti che comandano e i deboli che obbediscono come narra la storia di L’armata di Erode in cui un re crudele e malvagio «poiché in vita, da sovrano, aveva avuto il comando sugli uomini, così, da morto, ebbe il comando sui demoni»(262) .
I diavoli, però, non sono invincibili. Per bloccarli e renderli inoffensivi, come abbiamo visto per le anime dei morti, basta recitare «le dodici parole» o «il confiteor», ma in questo caso è necessario avere prima il consenso del prete, come si legge sempre in L’armata di Erode. Oppure era sufficiente avere dentro la scarpa o in tasca una foglia di alba di ruba(263) per impedire sia ai demoni sia agli altri spiriti maligni di avvicinarsi.
4.3.3. Le vite dei santi e le peregrinazioni di Gesù.
Oltre ai conti di timì e alle storie sui diavoli, un genere molto diffuso in Gallura, come del resto nelle altre zone della Sardegna, sono le leggende locali che narrano delle vite dei santi e della sapienza di Dio. Mossa ci dice che da questi racconti si può facilmente capire che la fede religiosa nei pastori-contadini galluresi non avesse mai raggiunto livelli di alto significato spirituale ma fosse rimasta ad un livello molto terreno, in cui il rapporto con la divinità era completamente umanizzato. Questi racconti religiosi, continua l’autore, nella maggior parte dei casi hanno per tema il miracolo, particolarmente adatto a colpire l’immaginazione e la credulità popolare ed erano, per questo motivo, spesso usati dai preti dei villaggi per introdurre alla venerazione dei santi e per comunicare esempi significativi che dessero senso o conforto alle azioni umane. Una rilevante quantità di queste storie ha per protagonisti santi e in modo particolare san Pietro e Gesù Cristo. Questi appaiono solitamente in sembianze di pellegrini, per osservare e giudicare la condotta degli uomini. La loro punizione colpisce in modo speciale coloro che rifiutano di soccombere e fare la carità ai poveri e agli afflitti. Non mancano i racconti eziologici che spiegano l’origine di una particolare conformazione, ad esempio, di un colle, di un monte, nei quali la fantasia del popolo crede spesso di vedere le trecce dei santi o del figlio di Dio oppure in alcuni casi del diavolo, come la storia de Il colle del vescovo(264), narrata da Celestina Careddu e riportata da Bottiglioni, che narra della pietrificazione del vescovo e di tutto il suo seguito di preti per aver rivolto parole ingiuriose nei riguardi della Chiesa di San Paolo di Monti, oppure quella di Le orme di Luogosanto(265), raccontata sempre dalla stessa novellatrice che parla dell’inseguimento del diavolo da parte di Gesù in seguito al quale, nel monte di Luogosanto sarebbero rimaste delle orme, una di Gesù e l’altra del diavolo. Mossa(266) afferma che queste vicende edificanti, tratte e costruite sulla vita dei santi, abituavano l’uomo a considerare i santi come benevoli protettori che intervenivano nelle vicende umane liberandolo dalle paure e aiutandolo attraverso risposte risolutrici a superare i limiti terreni. Esse, continua l’autore, consentivano agli uomini di affrontare in modo diverso il peccato, la morte e di ordinare quelle realtà e situazioni difficilmente controllabili.
Tuttavia dobbiamo ricordare che questi racconti sulle peregrinazioni in terra dei santi e sulle punizioni divine sono molto diffuse in tutta Europa e si possono ritrovare pressappoco uguali nei paesi cristiani, con alcune varianti, ma con un fondo comune, come è il caso della fiaba nota in tutti i popoli mediterranei di La madre di San Pietro. Se, infatti, confrontiamo alcune parti della versione corsa di questa fiaba registrata da Ortoli nell’Ottocento e quella riportata da Enna in Fiabe sarde, fatta eccezione per l’esordio, generalmente punto in cui una storia è sempre più esposta ad essere modificata, si può notare una notevole somiglianza.
LA MÈRE DE SAINT PIERRE(267)
La mère de saint Pierre avait été si méchante pendant sa vie, que Dieu ne voulut pas la laisser entrer au paradis après sa mort.
Saint Pierre en fut bien attristé ; il ne mangeait plus et maigrissait à vue d’œil.
(…)
─ «Seigneur, ne voyez-vous pas tous les supplices que ma mère endure aux enfers ?
A l’instant, saint Pierre prit une feuille de poireau qui s’allongea, s’allongea tant et tellement qu’elle arriva jusqu’aux enfers.
La mère du saint s’y suspendit sans perdre de temps. La voyant monter au ciel, un premier damné s’accrocha à elle, un second suivit, puis un troisième, puis un quatrième, etc.
(…)
DONNA BISODIA, LA MADRE DI SANT PIETRO(268).
(…)
Arrivò anche il tempo in cui Donna Bisodia morì e andò diritta all’inferno. Ma San Pietro, naturalmente non era affatto contento di questa situazione : in fondo era pur sempre sua madre !
«Maestro,non puoi far niente per mia madre ? Io credo che sia pentita di ciò che ha fatto in terra : ormai non è più invidiosa né egoista».
(…)
Felice e contento, san Pietro buttò la corda nell’inferno e gridò alla madre di attaccarsi, che l’avrebbe tirata su lui stesso. Donna Bisodia si attaccò alla corda e si fece tirare. Ma mentre saliva, altre anime dannate tentarono di approfittare della situazione per salvarsi e si attaccarono alle gonne di Donna Bisodia per salire anche loro in paradiso. Ma la madre di San Pietro non aveva affatto perso il vizio di sempre.
Furieuse, elle donne de grands coups de pieds.
─ «Lâchez-moi ! ce n’est pas pour vous que mon fils a envoyé cette feuille».
(…)
Pierre baissa tristement la tête ; puis, lâchait la feuille de poireau, il laissa retomber sa mère au plus profond des enfers.
«Passa via !» incominciò a strillare, scalciando a tutto spiano e ricacciando indietro le anime dannate «se volete dei figli santi, dovete farveli».
A quel punto la corda si spezzò e Donna Bisodia ritornò definitivamente all’inferno, come tutti gli altri.
Secondo Mossa(269) ciò che caratterizza i racconti galluresi a carattere religioso, nonostante l’universalità del tema, è la loro linearità quasi schematica, il dialogo scarno. Questa asciuttezza stilistica, continua l’autore, dipendeva dal fatto che l’unico interesse del narratore era quello di comunicare esempi significativi e di trasmettere efficacemente saperi ritenuti essenziali.
4.3.4. Novelle e racconti di furbi e sciocchi.
Nel panorama narrativo gallurese, non mancano, infine, i racconti umoristici e divertenti, aneddoti di vario genere, storie di furbi e di sciocchi come quelle che parlano della fedeltà femminile e maschile come la storia di Lu Cumpari, dove viene narrata la vicenda imbarazzante di un povero pastore che era stato chiamato a battezzare un suo figlio nato da una relazione extraconiugale o la storia di La ‘nnimmistai in cui viene descritta la rocambolesca riappacificazione tra due nemici. Un cenno particolare, meritano i numerosissimi aneddoti che si riferiscono a particolari caratteristiche caratteriali esasperate degli abitanti dei vari paesi della Gallura e delle piccole diatribe che intercorrevano tra di essi, in cui si racconta ad esempio dei tempiesi che deridono i calangianesi, dei palaesi che considerano testardi gli arzachenesi, dei maddalenini che vedono tutti i galluresi come grossolani pastori. Sempre in questa categoria, degne di nota sono anche le storie di tiri mancini giocati da uomini semplici ma furbi e ingegnosi ai danni di uomini potenti ma schiocchi e le serie di racconti incentrati sulle avventure di uno stesso personaggio come quelle di Petru Burrul’e Trompa(270), ossia Pietro Scherza e Imbroglia, che ama continuamente scherzare e imbrogliare la gente, anche i re della cussorgia, la circoscrizione che comprendeva un certo numero di stazzi, oppure come quelle molto divertenti di Babbai Jogliu(271), che narra la storia di tre poveri fratelli, che vengono presi a servizio da un ricco signore di nome Babbai Jogliu. I primi due fratelli perdono il naso, contravvenendo al contratto imposto dal signore che consisteva nel non offendersi mai per nessuna ragione, pena, appunto, il taglio della punta del naso. Il terzo fratello, invece, non solo non cade nel tranello del signore imbroglione, ma facendogli scherzi di ogni genere , alla fine riesce persino a tagliargli la punta del naso e, dopo essersi impossessato di tutti i suoi averi, anche a sposare una delle figlie. Di questa fiaba abbiamo individuato nella raccolta di Ortoli una versione corsa intitolata Comment André coupà le nez du curé(272), praticamente identica nella struttura narrativa e nel contenuto; l’unica differenza è che l’imbroglione non è un ricco signore locale ma un curé, un prete. Infatti, spesso, nei solitari paesi della Corsica, il prete rappresentava l’uomo più ricco e più colto.
Capitolo quinto
5. Riflessioni di tipo comparativo intorno al materiale favolistico corso e gallurese.
5.1. Universalità delle fiabe.
Ora che il nostro viaggio tra le fiabe corse e galluresi è finito, è d’obbligo aggiungere alcune considerazioni.
Con Delitala abbiamo visto che dall’esame sia della narrativa tradizionale della Sardegna edita tra la fine dell’Ottocento e i primi del Novecento sia dal fondamentale corpus di testi ottocenteschi, raccolti per conto di Domenico Comparetti e rimasti a lungo ignorati, il quadro che se ne ricava è quello di un patrimonio narrativo di vasto respiro, contraddistinto da una netta prevalenza sulle altre categorie narrative delle fiabe di magia, da una mediocre incidenza di racconti d’animali e di racconti formulari, da una larga diffusione di storie di furbi e di sciocchi, aneddoti divertenti, di racconti religiosi del ciclo di Gesù e San Pietro e di leggende locali.
Analizzando accuratamente il materiale narrativo compreso nella prima raccolta di testi della tradizione orale della Corsica, Les Contes populaires de l’Île de Corse, rilevati da Ortoli, nella Corsica meridionale, tra il 1881 e il 1882, abbiamo rilevato che il quadro della rappresentatività delle categorie narrative è del tutto simile a quello emerso dall’esame delle fonti edite e inedite ottocentesche sarde, fatto da Delitala e da quanto detto da Enna.
Il campionario dei generi narrativi, infatti, anche in Corsica, spazia dalle fiabe di magia e dalle storie a carattere religioso e moralistico, che hanno anche qui senza dubbio la maggiore incidenza su tutte le altre categorie, ai racconti burleschi e alle leggende.
Inoltre, abbiamo constatato che anche tra il patrimonio narrativo corso ottocentesco vi è una scarsa presenza di racconti di animali, ma tale carenza non deve stupire, perché, secondo quanto afferma Thompson, le storie di animali hanno sempre avuto una scarsa penetrazione nella tradizione popolare rimanendo quasi esclusivamente sul piano letterario.
Dall’analisi contenutistica dei racconti compresi nella raccolta di Ortoli, poi, abbiamo potuto notare che la maggior parte di essi trovano un riscontro nella classificazione internazionale di Aarne e Thompson. Infatti, anche se talora in modo parziale e incerto, abbiamo individuato ventiquattro tipi internazionali, tra i quali alcuni ad ampia diffusione e notissimi in tutti i paesi europei, come le tre versioni della fiaba di Cenerentola (Fiaba Tipo 510), dell’Ammazzadraghi (Fiaba Tipo 300), di Apriti Sesamo (Fiaba Tipo 676) e de La Madre di San Pietro (Fiaba Tipo 804).
Questi stessi temi appartenenti alla favolistica popolare internazionale, ovviamente con variazioni, trasformazioni e adattamenti, sono stati attestati anche in Sardegna, come ci mostra Delitala(273), Enna(274) o come è possibile notare nella raccolta di Guarnerio.
Per fare un esempio, se consideriamo alcune delle più famose fiabe inserite nell’opera di Ortoli, come possono essere Ditu Migniulellu (Fiaba Tipo 510) e Le trésor des sept voleurs (Fiaba Tipo 676), e le confrontiamo con le corrispondenti versioni galluresi ottocentesche, Maria Intaulata, raccontata da Caterina Colombano e riportata da Guarnerio in Primo saggio di Novelle popolari sarde, e Li dui frateddi, rilevata da un allievo di Ettore Pais, a Calangianus e inserita nel Manoscritto 73 del Fondo Comparetti, possiamo rilevare sorprendenti somiglianze. Come nella versione corsa, infatti, anche Maria Intaulata, alla quale era stato proibito di andare al ballo, risponde al principe che voleva sapere da dove proveniva, di essere, la prima sera di «la idda di li fuetti»(275), la seconda «di la idda di li briddi»(276) e la terza «di la idda di li sproni»(277). Anche nel caso delle versioni corse e galluresi della celebre fiaba di Apriti Sesamo, lo schema narrativo è praticamente identico.
Abbiamo poi osservato che l’acquisizione di centocinquanta testi narrativi di tradizione orale, nell’ambito delle due campagne di registrazioni di documenti narrativi condotte da Massignon, nelle Corsica settentrionale, tra il 1955 e il 1959, non modifica il quadro delle categorie narrative più rappresentative. Anche questa documentazione, classificata anch’essa secondo l’indice di Aarne e Thompson, mette in luce la quasi totale assenza di racconti di animali, mentre le fiabe di magia, gli scherzi e gli aneddoti costituiscono i gruppi più consistenti, autorizzandoci così a formulare l’ipotesi che si tratti delle forme narrative più diffuse in Corsica.
Per quanto riguarda la tradizione narrativa gallurese, abbiamo potuto costatare che quanto detto in generale sulla tradizione popolare sarda vale anche per essa, fatta tuttavia eccezione per un determinato tipo di racconto molto più presente qui che nel resto dell’isola, ossia storie di spettri, di diavoli e di morti. Con Mossa abbiamo, infatti, appreso che un genere molto diffuso in Gallura, come in tutte le zone della Sardegna, sono le leggende locali che narrano delle vite dei santi e della sapienza di Dio, le storie di tesori nascosti e di diabolici custodi e i racconti umoristici, spesso fruibili in veri e propri cicli riferibili a personaggi fissi.
Consideriamo, infine, gli elementi e i caratteri generali delle leggende corse, che abbiamo individuato esaminando la seconda parte della raccolta di Ortoli dedicata alle leggende e in base alle stesse riflessioni dell’autore, e quelli delle leggende della Sardegna rilevate da Bottiglioni. Se li compariamo affiorano anche in questo caso temi ed elementi ricorrenti. Ad esempio, Bottiglioni rileva che nelle leggende dell’isola sono abbastanza notevoli gli accenni alle scorrerie dei saraceni che per la loro violenza dovettero rimanere particolarmente impresse nella fantasia e nella coscienza del popolo sardo. Anche Ortoli nella parte introduttiva che precede l’ultima sezione delle Légendes diverses, constata che nella maggior parte delle leggende corse è possibile rilevare riferimenti ad avvenimenti dell’isola e in modo particolare alle lunghe e sanguinose lotte che la Corsica dovette sostenere nella seconda metà del VII secolo, contro gli invasori saraceni. Sia Bottiglioni che Ortoli osservano una particolare diffusione di racconti sulle anime dei defunti.
Come risulta dunque sia dall’analisi delle fiabe e leggende corse raccolte da Ortoli, sia da Massignon, sia da quanto rilevato da Delitala , da Enna e da Mossa a riguardo della narrativa popolare sarda e gallurese, i racconti fiabeschi e leggendari della Corsica e della Gallura, in generale, non si discostano molto per temi e motivi narrativi dalla favolistica popolare internazionale. In essi, come dice Mossa, è possibile intravedere, infatti, «l’eco della grande fiaba europea, come è facile vedere dalle classificazioni finniche»(278).
5.2. Dall’universalità alla specificità delle fole corse e galluresi.
Tuttavia, nonostante l’universalità e internazionalità dei temi, degli intrecci delle fiabe, durante il nostro lavoro abbiamo colto diversi fattori di significatività sia per quanto riguarda la narrativa popolare corsa sia per quanto riguarda quella gallurese.
Prendendo in esame nel suo complesso il patrimonio narrativo tradizionale della Corsica abbiamo constatato che ciò che la caratterizza è: il gusto dell’avventura e il disprezzo del pericolo. La maggior parte dei racconti ha, infatti, per protagonisti impavidi giovani, spesso pastori in cerca di fortuna che si espongono a pericoli soprannaturali e ed avventure di ogni genere per la conquista di oggetti meravigliosi o per ottenere la mano della principessa. Altri elementi peculiari sono, un forte senso della giustizia, che comprende anche la vendetta e infine il culto della bellezza, privilegio che esalta l’eroina e le serve anche da difesa. Anche lo stile narrativo contraddistinto dalla sobrietà, chiarezza e vivacità comunicativa costituisce un elemento che distingue le fiabe corse.
Ma quello che più di tutti ci permette di definire corse queste fiabe è il fatto che i narratori e le narratrici hanno la tendenza a collocarle immediatamente nell’ambito pastorale della Corsica. L’influenza del mondo pastorale, infatti, dove questi racconti fiabeschi e leggendari hanno circolato e vissuto la loro vita di trasformazione e adattamento locale, affiora da modi di dire, esclamazioni, oggetti dell’esperienza quotidiana, notazioni gastronomiche, che si trovano in abbondanza nelle fiabe sia di Ortoli sia di Massignon, e che rinviano tutti a modi di esprimersi e di vivere tipici corsi. Si tratta ovviamente di piccoli dettagli, sfumature che ci riportano entro la storia minore e il vivere quotidiano dei pastori della Corsica, che inseriscono la vicenda fantastica in un ambiente familiare al narratore e al suo uditorio, quasi che il novellatore non riuscisse ad immaginare al di là del suo mondo. La sensazione di trovarci di fronte ad un mondo fiabesco ma anche corso, dunque, è dato da tutta questa serie di piccoli dettagli tratti dalla vita quotidiana, un paesaggio, un costume, una moralità o semplicemente un vago accento o sapore locale, che inseriscono il racconto fantastico entro la cultura tradizionale della Corsica.
Nell’ambito del patrimonio fiabistico della Gallura, non abbiamo potuto fare a meno di notare, invece, l’ampia diffusione di storie che hanno per protagonisti esseri infernali e demoniaci, racconti d’incontri notturni agghiaccianti, di spiriti maligni che di notte uscivano a disturbare il sonno degli abitanti di certi stazzi. La maggior parte dei racconti, infatti, è avvolta dall’alone di paura e di mistero proprio del soprannaturale. Con Mossa, abbiamo visto che il motivo di tanta inquietudine che contraddistingue tante storie galluresi e da ricercare nell’esistenza dei pastori e contadini di Gallura, che trascorreva solitaria, fatta eccezione per alcuni momenti comunitari e in un ambiente percepito spesso come ostile e minaccioso, in cui le sole forze naturali dell’uomo non erano sufficienti, ma c’era bisogno del soprannaturale, che era li, a portata di mano per chi sapeva interpretare i segni. Costruire mondi fantastici, sostituire alla realtà elementi irrazionali o sogno, era quindi, per i pastori-contadini galluresi un modo per sfuggire alla durezza del vivere quotidiano, alle immense difficoltà causate da una natura incerta, inquietante, un modo di avere paura ma tenendo i piedi ben piantati sulla terra.
A conclusione diciamo che è vero che le fiabe sono di natura migratoria: viaggiano nel tempo e nello spazio, attraverso i secoli e i continenti, passano di bocca in bocca trasformando incessantemente gli ascoltatori in narratori e viceversa, ma è anche vero che questa loro circolazione internazionale non esclude la diversità, la quale come abbiamo visto, si esprime attraverso la predilezione per certi racconti, la creazione di certi personaggi, l’atmosfera che avvolge il racconto, le caratteristiche dello stile e dai piccoli dettagli, espressioni, modi di dire, oggetti che riflettono una determinata cultura.
La fiaba anche se è universale, come afferma Calvino(279), è soggetta ad assorbire qualcosa del luogo dove circola, un paesaggio, un costume o pur solamente un vaghissimo accento o sapore di quel paese. Ed è proprio a questo livello, nel collocarsi del racconto entro la cultura tradizionale del popolo in cui vengono narrate che è possibile trovare i fattori di maggiore significatività delle fiabe.
(1)Enrica Delitala, Gli studi sulla narrativa tradizionale sarda, Sassari, Gallizzi, 1970.
(2) Francesco Enna, Fiabe sarde, Milano, Mondadori, 1991.
(3) Gino Bottiglioni, Leggende e tradizioni di Sardegna, Ginevra, Olschki, 1922, rist., Roma, Meltemi, 1997.
(4) Enrica Delitala, Gli studi sulla narrativa tradizionale sarda, cit., p. 4.
(5) Ivi, p. 6.
(6) Francesco Enna, Fiabe sarde, cit., p. 28.
(7) Enrica Delitala, Gli studi sulla narrativa tradizionale sarda, cit., p. 8.
(8) Enrica Delitala (a cura di), Novelline popolari sarde dell’Ottocento. Edizione dei manoscritti del Fondo Comparetti, voll. I e II, Cagliari, AM&D, 1999.
(9) Italo Calvino, Fiabe italiane, Torino, Einaudi, 1956, p. XXXIV, nota 5.
(10) Francesco Enna, Fiabe sarde, cit., p. 30.
(11) Pier Enea Guarnerio, primo saggio di novelle popolari sarde, estratto da ASTP, rist. anast., Bologna, forni, 1977, pp. 19 - 20.
(12) Giulio Paulis, in Gino Bottiglioni, Vita sarda, 1925, rist. (a cura di Giulio Paulis e Mario Atzori), Sassari, EDES, 2001, p. 12.
(13) Enrica Delitala, Gli studi sulla narrativa sarda, cit., p. 11.
(14) Francesco Enna, Fiabe sarde, cit., p. 30.
(15) Francesco Mango, Novelline popolari sarde, Palermo 1890, rist. anast., Bologna, Forni 1974.
(16) Enrica Delitala, Gli studi sulla narrativa sarda, cit., p. 11.
(17) Enrica Delitala, in Gino Bottiglioni, Leggende e tradizioni di Sardegna, rist., Roma, Meltemi, 1997, p. VIII.
(18) Enrica Delitala, Gli studi sulla narrativa tradizionale sarda, cit., p. 14.
(19) Enrica Delitala, in Gino Bottiglioni, Leggende e tradizioni di Sardegna, cit., p. VII.
(20) Francesco Enna, Fiabe sarde, cit., 32.
(21) Gino Bottiglioni, Leggende e tradizioni di Sardegna, cit., p. III
(22) Ivi, p. 1.
(23) Enrica Delitala, in Gino Bottiglioni, Leggende e tradizioni di Sardegna, cit., p. X.
(24) Gino Bottiglioni, Leggende e tradizioni di Sardegna, cit., p. 1.
(25) Ivi, p. 2.
(26) Ivi, p. 9.
(27) Ivi, p. 10.
(28) Gino Bottiglioni, Leggende e tradizioni della Sardegna, cit., p. 17.
(29) Mario Atzori, in Gino Bottiglioni, Vita sarda, cit., p. 93.
(30) Gino Bottiglioni, Vita sarda, cit., p. 15.
(31) Gino Bottiglioni, Leggende e tradizioni della Sardegna, cit., p. 29.
(32) Mario Atzori, in Gino Bottiglioni, Vita sarda, cit., p. 95.
(33) Gino Bottiglioni, Leggende e tradizioni della Sardegna, cit., p. 31.
(34) Enrica Delitala, Gli studi sulla narrativa tradizionale sarda, cit., p. 17.
(35) Hyacinthe Yvia Croce, Anthologie des écrivains corses, Tome second XIX siècles, Ajaccio, Cyrnos et Méditerranée, 1987, p. 350.
(36) Paul Sébillot fu, secondo Stith Thompson (La fiaba nella tradizione popolare, Milano, il Saggiatore, 1967) il più importante organizzatore degli studi folklorici in Francia negli ultimi anni dell’Ottocento. Sébillot fu un instancabile collezionista di novelle e di tradizioni popolari della Bretagna. Fu soprattutto per suo incitamento, scrive Thompson, che altri folkloristi francesi raccolsero in volumi contes populaires scrupolosamente ripresi dalla voce del popolo.
(37) Frédéric Ortoli, Les Contes populaires de l’Île de Corse, Tome XVI de la collection «Les littératures populaires de toutes les nations», Paris, Maisonneuxe et Larose, 1883.
(38) Dalle etnologhe Claire Tiévant e Lucie Desideri (Almanach de la mémoire et des coutumes corses, Paris : Albin Michel, 1986) apprendiamo che i Lamenti e i Voceri erano antiche cantilene funebri improvvisate che erano cantate, esclusivamente dalle donne corse, davanti al defunto esposto sulla tola (Tavolo della casa). Secondo le autrici, numerosi furono gli autori che alla fine dell’Ottocento fecero una distinzione tra le lamentu e le voceru durante i funerali, affermando che il primo era cantato per una morte naturale e il secondo per una morte violenta; questa distinzione, ad avviso delle etnologhe, è errata, poiché le voceratrici parlavano indifferentemente di voceru o di lamentu per designare i loro canti. L’unica differenza nel caso di un omicidio, continuano le autrici, consisteva nel fatto che la voceratrice riservava una sequenza del canto per fare un appello alla vendetta.
(39) Frédéric Ortoli, Les Voceri de l’Île de Corse, Paris, Leroux, 1887.
(40) trad. It. : «un piccolo capolavoro di documentazione e d’analisi (…) arricchito di commenti precisi, d’annotazioni giudiziose e chiare». Hyacinthe Yvia Croce, Anthologie des écrivains corses, cit., p. 350.
(41) trad. It. : «Fino a quel momento (…) la letteratura popolare non era stata oggetto di studi specifici». Frédéric Ortoli, Les Contes populaires de l’Île de Corse, cit., p. III.
(42) Prosper Mérimée, Notes d’un voyage en Corse, Paris, s.ed. , 1840.
(43) Felice Mattei, Motti, risposte e burle del celebre Minuto Grosso, Paris, s. ed., 1865.
(44) Salvatore Viale, Scritti in versi e in prosa, Firenze, Felice Le Monnier, 1861.
(45) trad. It. : «le fiabe e le leggende sono state completamente dimenticate». Frédéric Ortoli, Les Contes populaires de l’Île de Corse, cit. p. III.
(46) trad. It. : «non c’è quasi nessuno, tra la gente di montagna o della pianura, che non ha da raccontare delle storie sulle fate, sui giganti, sui santi o sul diavolo, che non ne possa riferire un gran numero sulle guerre che l’isola dovette sostenere contro gli invasori, Saraceni o Genovesi; poiché il ricordo di queste lotte si conserva del tutto vivace nella memoria del popolo ed è ancora accuratamente mantenuto vivo nelle lunghe veglie d’autunno e d’inverno». Ivi, pp. III - IV.
(47) Claire Tiévant e Lucie Desideri (Almanach de la mémoire et des coutumes corses, Paris, Albin Michel, 1986) affermano che u fucone era il focolare tradizionale delle case corse, intorno al quale generazioni di paesani e pastori hanno vissuto, che serviva, oltre che a riscaldare la casa e a cucinare, a seccare le castagne sistemate sulla grata, un telaio sospeso al soffitto che lasciava passare il fumo. U fucone, continuano le etnologhe, era o fisso al suolo o mobile, in questo caso, era sopraelevato da un telaio di legno coperto da alcune lastre.
(48) trad. It. : «i narratori occasionali o i narratori abituali (…) chiamati avvolte maestri di fiabe». Mathée Giacomo Marcellesi, Contra Salvatica, Aix-en-Provence, Edisud, 1989, p. 5.
(49) Da Pierre Antonetti (Histoire de la Corse, Paris, Robert Laffont, 1973) apprendiamo che l’8 maggio del 1769, a Ponte Novo, nella Corsica settentrionale, i corsi, guidati da Pasquale Paoli, affrontarono l’ultima grande battaglia per conservare la loro indipendenza. Questa battagli vinta dai francesi, secondo Antonetti, segnò la fine dell’indipendenza corsa e il suo triste ricordo rimase profondamente vivo nella memoria e nella coscienza del popolo corso.
(50) trad. It. : «in cui la Corsica cessò d’appartenersi.». Frédéric Ortoli, Contes populaires de l’Île de Corse, cit., p. VI.
(51) trad. It. : «Una volta, per caso ─ sazio di castagne cotte ─ le capre, alla luce della luna, mi sembravano delle giovani fanciulle ─ Io, corro, corro, corro ─ erano delle capre senza pastore!». Geneviève Massignon, Contes corses, Aix-en-Provence, Ophrys, 1963. pp. XVIII-XIX.
(52) trad. It. : «Fiaba, fiabetta ─ dite la vostra ─ che la mia è stata detta». Frédéric Ortoli, Les Contes populaires de l’Île de Corse, cit., p. 193.
(53) trad. it.: «Quanto a me, che non ero né principessa né marchese, mi hanno messo sotto il tavolo, ed è là che ho ricevuto sul naso una gran parte delle ossa della festa ». Ivi, p. 56.
(54) trad. It. : «secondo una classificazione rudimentale per temi». Paul Arrighi in Geneviève Massignon, Contes corses, cit., p. VII
(55) Da Massignon (Contes corses, cit.) veniamo a sapere che Paul Arrighi fondò nel 1957 presso la Faculté des Lettres d’Aix-marseille, il Centre d’Etudes Corses.
(56) trad. It. : «dalla bocca stessa dei paesani». Frédéric Ortoli, Les Contes Populaires de l’Île de Corse, cit., p. VII.
(57) trad. It. : «sembra essere stata tradita dal desiderio del ricercatore di fare un’opera personale». Paul Arrighi in Geneviève Massignon, Contes corses, cit., p. VII.
(58) trad. It. : «tutti gli elementi estranei alla fonte popolare. Allontanando anche dalla sua opera la preoccupazione per la bella forma, quando questa poteva nuocere al pittoresco del racconto». Hyacinthe Yvia Croce, Anthologie des écrivains corses, cit., p. 351.
(59) trad. It. : «ha voluto prima di tutto, restituirci nella loro rude concisione, queste leggende secolari dove l’anima della Corsica è racchiusa e che le generazioni si sono trasmessi, come un deposito sacro». Ibidem p. 351.
(60) trad. It. : «delle immagini e delle espressioni che non è per nulla solito trovare in questi tipi di racconti». Frédéric Ortoli, Les Contes populaires de l’Île de Corse, cit., p. VIII.
(61) trad. It. : «per quanto è stato possibile, a riprodurre non solamente l’idea, ma la forma e l’espressione particolari che gli danno i narratori. Questa resiste senza dubbio alla violenza delle passioni, eccessive in tutto quest’ardente clima, e alla ricchezza dell’idioma che serve ad esprimerla». Ivi, p. VIII.
(62) Stith Thompson, La fiaba nella tradizione popolare, Milano, Il Saggiatore, 1967, p. 559.
(63) Stith Thompson, La fiaba nella tradizione popolare, cit., p. 562
(64) Ivi, pp. 562-563.
(65) Ivi, pp. 565-566.
(66) Ivi, pp. 570-571.
(67) Antti Aarne et Stith Thompson, The types of the Folk-Tale, A classification and bibliography, Helsinki, 1928.
(68) Frédéric Ortoli, Les Contes populaires de l’Île de Corse, cit., pp. 3-5.
(69) trad. It. : «Furioso per tanta ingratitudine, marzo andò a trovare suo fratello Aprile e gli disse: O Aprile, mio fratello/ prestami tre giorni/ per punire il pastore/ perché lo voglio far pentire. E Aprile glie li donò. Immediatamente, percorrendo tutta la terra, marzo riunì in un istante sia i venti sia le malattie sia tempeste spaventose. Tutto ciò fu scatenato allo stesso tempo sullo sfortunato gregge». Ivi, p. 4.
(70) Geneviève Massignon, Contes corses, cit., p. 309.
(71) Frédéric Ortoli, Les Contes populaires de l’Île de Corse, cit., pp. 88-108.
(72) Ivi, pp. 123-132.
(73) Ivi, pp. 137-148.
(74) trad. It. : «Nonostante il grande desiderio che essa aveva, una donna, sposata da lungo tempo, non poteva avere figli. Un giorno disse fra se: ─ Ah se potessi avere una bambina, come sarei felice! Mi basterebbe che fosse grande come il mio mignolo. Nove mesi dopo questa donna ebbe una bambina, così piccola e così carina che mai si vide una simile. È per questa ragione che fu chiamata Ditu Migniulellu». Ivi, pp. 88-89.
(75) trad. It. : «Non vedendo ritornare nessuno dei suoi due fratelli, disse a sua madre: ─ Voglio combattere con il serpente con sette teste che si trova in Francia, quando l’avrò ucciso mi sposerò con la figlia del re e verrò a cercarvi». Ivi, p. 124.
(76) trad. It. : «Avevo due Freccie/ Che hanno ucciso Bertu/ Che ha ucciso Bertu/ Che ha Ucciso sette/ Che ne hanno ucciso cento./Non ero né in cielo né in terra/ e ho visto un morto trasportare un vivente». Ivi, p 128.
(77) trad. It. : «Serchia, apriti. (…) Una porta si aprì, e i ladroni, dopo essere penetrati nella caverna dissero subito: ─ Serchia, chiuditi. La mattina dopo i briganti se n’andarono. Quando furono ben lontani, il povero cercatore di fortuna, che era ancora appollaiato sul suo albero, discese lentamente; a sua volta, disse toccando la porta della grotta: ─ Serchia apriti ». Ivi, pp. 138-139.
(78) trad. It. : «I briganti arrivarono a casa di Stevanu all’imbrunire. ─ I Balagnais! I Balagnais!(abitanti della Balagne, regione della Corsica dove si coltivano oliveti pregiati) chi da loro ospitalità? ─ Entrate qui, brav’uomo, la mia casa è sempre aperta ai viaggiatori. E il capo entrò. Il padrone di casa, lo aiutò anche a scaricare i suoi muli, ma compiendo questo compito, gli venne un sospetto. Gli altri erano troppo pesanti per essere riempiti d’olio. Se erano dei ladri?». Ivi, pp. 146-147.
(79) Stith Thompson, Motif-Index of Folk-Literature, Helsinki, 1932-36.
(80) Frédéric Ortoli, Les Contes populaires de l’Île de Corse, cit., pp. 8-19.
(81) Ivi, pp. 24-30.
(82) trad. It. : «chiamata Belladonna, così graziosa, che non si era mai visto niente di simile prima». Ivi, p. 24.
(83) trad. it. : «vedendosi scoperta, la bella innamorata si trasformò in un roseto, ma sta volta non ebbe fortuna. Sua madre si impossessò del roseto (…) e ritornò a casa. Durante il suo viaggio, l’usignolo cantava tristemente: ─ Ridatemi la mia sposa; siamo uniti per sempre. (…) Il suo cuore e il mio formano un solo cuore e quando ella morirà io morirò. (…)Quando la madre di belladonna arrivò a casa tutto il roseto ormai era secco.(…) Anche l’usignolo era morto di dolore». Ivi, pp. 29-30.
(84) Ivi, pp. 5-8.
(85)trad. it. : «Andrete a riempire questo calice alla fontana dell’Acqua Benedetta, incontrerete un drago con sette teste che cercherà di divorarvi. Ecco una spada, lo colpirete con essa. Se riuscirete a tagliargli una testa sarete salva. Altrimenti ciò significa che Dio non vuole perdonarvi e voi sarete divorata». Ivi, p. 6.
(86) Ivi, pp. 193-204.
(87) trad. it. : «Nonostante le osservazioni dei paesani e del prete». Ivi, p. 196.
(88) trad. it. : «All’ultimo rintocco della campana che suonava mezzogiorno, la terra, si aprì e inghiottì il carro e i buoi». Ivi, p. 196.
(89) Ivi, pp. 56- 68.
(90) trad. It. : «è necessario che umili l’orgoglio dei cattivi. (…) Era desolata ma lei non poté far nulla contro la volontà di Dio». Ivi, p. 5-6.
(91) Ivi, pp. 219-224.
(92) trad. It. : «Il buon vivente che l’amore per il vino e le donne avevano condotto velocemente all’indigenza e alla morte». Ivi, p. 221.
(93) trad. It. :«al fine di poter avere qualcosa che mi appartenga». Ivi, p. 222.
(94) trad. It. : «fu cacciato dal paradiso. Tornò sulla terra, dove sempre e ovunque lo troverete». Ivi, pp. 223-224.
(95) Stith thompson, La fiaba nella tradizione popolare, cit., p. 215.
(96) Frédéric Ortoli, Les Contes populaires de l’Île de Corse, cit., pp. 235-237.
(97) Ivi, pp. 48-56.
(98) Ivi, pp. 81-88.
(99) Ivi, pp. 88-108.
(100) trad. It. : «Io, padre mio, vi amo come una figlia sottomessa e devota deve amare un padre come voi». Ivi, p. 49.
(101) trad. It. : «Gli levò la pelle con il coltello, la fece essiccare, poi la indossò affinché fosse scambiata per una semplice serva». Ivi, p. 50.
(102) trad. It. : «Tutte le mattine Marie conduceva le capre nelle montagne, ma la pelle d’asino con la quale si avvolgeva la rendeva così sgradevole che nessuno osava guardarla». Ivi, p. 51.
(103) trad. It. : «Malauguratamente aveva dimenticato, nella fretta, una piccola e bella scarpetta. Era così piccola, così piccola, che mai nessuno ne vide una simile». Ivi, p. 52.
(104) trad. It. : «la più graziosa fanciulla del reame». Ivi, p. 81.
(105) trad. It. : «una donna brutta come il peccato mortale». Ivi, p. 81.
(106) trad. It. : «gettò una mela sul tetto, e immediatamente uscì un gallo dalle grandi ali, l’altra mela diede la nascita ad un magnifico melo che si riempì istantaneamente di frutti squisiti. Ma, fatto curioso, l’albero si trasformava immediatamente in rovi, quando un’altra persona che non fosse Mariucella si avvicinava ». Ivi, p. 86.
(107) trad. It. : «Couquiacou! Couquiacou! Mariucella è nel barile e Dinticona è sul cavallo». Ivi, p. 87.
(108) trad. It. : «in uno di essi, trovarono Mariucella, più bella che mai, vestita, non si sa come, con un abito di seta blu, tutto ricamato con fili d’oro». Ivi, p. 87-88.
(109) trad. It. : «restava sempre piccola. Aveva sedici anni e la sua statura non era aumentata molto. Sua madre (…) la detestava allora per questa ragione. Non poteva più vederla. Un giorno disse tra se: Che cosa posso farne di una figlia così piccola. Non sa lavorare e annegherebbe in un bicchiere d’acqua. Nel momento in cui la madre di Ditu Migniulellu si trovava nel giardino, vedendo una marmitta, ci mise sua figlia dentro». Ivi, p. 91.
(110) trad. It. : «si annoiava molto di vedere come Ditu Migniulellu fosse piccola». Ivi, p. 95.
(111) trad. It. : «─ Che cosa hai, figlia mia? È perché tu non vai al ballo che stai piangendo? ─ Si, mia bella signora. ─ Calmati, sono la fata che alla tua nascita, si è incaricata della tua felicità. E con un colpo di bacchetta, la buona fata trasforma Ditu Migniulellu nella più bella fanciulla che si sia mai potuto vedere. Era grande, e svelta e vestita di seta e oro. ─ Ora ti condurrò al ballo. E Ditu Migniulellu entrò subito in una carrozza trainata da graziose farfalle». Ivi, pp. 96-97.
(112)Ivi, pp. 237-240.
(113) trad. It. : «─ O mio Dio! Invia della pioggia, perché il fiume doni dell’acqua al prato, che produrrà molta erba, la quale farà dare alle vacche molto latte al mercante, che mi darà del denaro perché possa pagare il fabbro, il quale mi farà la chiave che aprirà l’armadio dove è rinchiuso il lardo che deve sgrassare la gola di Mustaccina, strozzata da una mandorla. Dio ebbe pietà del povero gatto. Inviò della pioggia, e subito il ruscello donò dell’acqua che, produsse dell’erba, ingrassò le vacche, che donarono del latte al mercante, che donò del denaro a Pedilestu, che corse a pagare il fabbro, che fece immediatamente la chiave che aprì l’armadio». Ivi, pp. 239-240.
(114) Stith thompson, La fiaba nella tradizione popolare, cit., p. 325.
(115) trad. It. : «Francesco vide allora la più bella fanciulla che sia possibile immaginare. Era tutta risplendente di diamanti. La sua lunga capigliatura bionda gli copriva le spalle. Il suo abito era di seta blu ricamato d’oro e le sue scarpe sparivano sotto due grandi stelle di pietre preziose». Frédéric Ortoli, Les Contes populaires de l’Île de Corse, cit., p. 158.
(116) trad. It. : «guai a loro se il sonno le sorprende (…) chi s’impossesserà di una fata, credendo di aver fatto la sua fortuna, non la lascerà andar via per niente al mondo». Ivi, p. 283.
(117) Ivi, pp. 284-286.
(118) Claire Tiévant et Lucie Desideri, Almanach de la mémoire et des coutumes Corses, cit., 10/I.
(119) trad. It. : «più bella del giorno». Frédéric Ortoli, Les Contes populaires de l’Île de Corse, cit., p. 284.
(120) trad. It. : «prendendola per i suoi capelli biondi come l’oro e gridando: Infine, eccoti presa, tu sei mia (…) tu sarai mia moglie». Ivi, pp. 284-285.
(121) trad. It. : «Fin tanto che la tua razza esisterà, non ci saranno più di tre uomini nella tua famiglia. La fata sparì dopo quelle parole. Poli si disperò. Ritornò più volte, il mattino e la sera alla grotta del Rizzanese, mai più rivide sua moglie e le sue figlie. Seguendo le predicazioni della fata, da quel momento, non ci furono più di tre uomini nella famiglia dei Poli. Quanto alla fata e ai suoi figli, hanno senza dubbio passato lo stretto per ritirarsi in Sardegna».Ivi, p. 286.
(122) Ivi, pp. 287-289.
(123) trad. It. : «La terra tremò, dei lampi squarciarono le nubi e i due spergiuri furono inghiottiti in un baratro profondo che si aprì sotto i loro piedi». Ivi , p. 289.
(124) Ivi, pp. 290-293.
(125) trad. It. : «che non era altro che la Vergine». Ivi, p. 291.
(126) Ivi, pp. 296-312.
(127) Ivi, pp. 313-315.
(128) Geneviève Massignon, Contes corses, cit., p. 307.
(129) Frédéric Ortoli, Les Contes populaires de l’Île de Corse, cit., pp. 320-321.
(130) trad. It. : «un paesano(…) si accorse che il suo cane gonfiava terribilmente, poi lo vide all’improvviso trasformarsi e prendere la forma di un uomo». Ivi. , p. 320.
(131) trad. It. : «Nelle sembianze di un bell’adolescente». Ivi, p. 160.
(132) trad. It. : «dove si riunivano i più grandi giocatori della Corsica e dell’Italia». Ibidem, p. 160.
(133) trad. It. : «facendogli compiere azioni infamanti». Ibidem, p. 160.
(134) trad. It. : «Se la credenza sul diavolo non è molto diffusa nell’isola, gli spettri fanno spesso parlare di loro. Molte persone che non hanno paura quando un fucile gli è puntato contro, tremano quando si tratta di passare presso un cimitero o un campo nel quale sono stati seppelliti dei morti». Ivi, p. 316.
(135) Stith Thompson, La fiaba nella tradizione popolare, cit., p. 69.
(136) trad. It. : «spettro avvolto da un lenzuolo». Frédéric Ortoli, Les Contes populaires de l’Île de Corse, cit., p. 331.
(137) Ivi, pp. 322-328.
(138) trad. It. : «Spettri e cacciatore si misero a girare in tondo senza fermarsi, senza allentare(…) la ronda infernale continuò sempre, sempre (…) il povero Rinaldo cadde morto». Ivi, p. 327-328.
(139) Abbé S. B. Casanova, Histoire de l’Eglise de Corse, Zivaco, s.d., 1931-1939.
(140) Frédéric Ortoli, Les Contes populaires de l’Île de Corse, cit., pp. 337-342.
(141) trad. It. : «erano venuti, e non avendo trovato dell’acqua né per bere né per lavarsi e per purificare i loro peccati, avevano fatto un rumore spaventoso e lanciato delle terribili maledizioni contro chi non aveva pensato a loro.(…) Per tre notti, il poveruomo sentì delle grida, dei gemiti, delle imprecazioni terribili, le campane suonarono a morto (…) qualche tempo dopo, quell’uomo morì». Ivi, pp. 341-342.
(142) trad. It. : «ciascuno con l’abito da penitente, con il rocchetto e il cappuccio nero e tenendo in mano un cero acceso. (…) il giorno dopo morì Jacques Marie Ortoli». Ivi, p. 319.
(143) trad. It. : «Nel tempo in cui i Corsi lottavano contro i Mori». Ivi, p. 350.
(144) trad. It. : «Prima dell’invasione dei Saraceni».Ivi, p. 31.
(145) Ivi. pp. 155-170.
(146)trad. It. : «Solamente che la Corsica sia felice e che non debba più vedere le devastazioni dei Saraceni». Ivi, p. 170.
(147) trad. It. : «In che modo la leggenda non si sarebbe potuta formare intorno a loro? In che modo spiegare anche tutto l’eroismo degli anziani corsi, vittoriosi di quei pirati senza l’intervento di una potenza soprannaturale?». Ivi, p. 343.
(148) Paul Sébillot in, Revue des traditions Populaires, Tome VIII, dec. 1893, pp. 584-585.
(149) Geneviève Massignon, Contes corses, Aix-en-Provence, Orphys, 1963.
(150) Jean-Marc Salvadori, L’Âme corse,nouveaux contes, légendes et vieux dictions de l’île de beautè, Avigon, Aubanel Frères, 1927.
(151) Edith Southwell-Colucci, Racconti corsi,Versione italiana di Maria Roselli-Cecconi, Livorno, Giusti, 1928.
(152) Domenicu Carlotti, Raconti é fole di l’isula persa, Ajaccio, A Muvra 1924.
(153) Geneviève Massignon, Aspects linguistiques d’une enquête etnografique en Corse, in La revue de Linguistiques Romane, Tome XXII, 1958.
(154) trad. It. : «qualche tratto del carattere niolino, le cui tradizioni, che persistono vivaci, mi attirano alquanto». Geneviève Massignon, Contes corses, op. cit. p. X.
(155) trad. It. : «l’ambiente tradizionale corso, inizialmente studiato dal punto di vista delle parole legate alle cose» . Ibidem, p. X.
(156) trad. It. : «il primo studio scientifico sull’soggetto». Paul Arrighi in, Geneviève Massignon, Contes corses, cit., p. III.
(157) Vedi figura 1. Localizzazione delle inchieste sulla narrativa tradizionale corsa di Geneviève Massignon (1955 – 1959).
(158) trad. It. : «presso una narratrice, i cui gesti e le intonazioni esprimevano a meraviglia il ruolo che ognuno doveva assumere nelle vicende dei suoi racconti». Geneviève massignon, Contes corses, cit., p. XIII.
(159) M. Rodié, Petit dictionnaire des noms de lieux corses, Marseille, s. ed., 1980.
(160) trad. It. : «Non vi è un cavallo del continente che potrebbe, con un cavaliere sul dorso, scendere o salire per quei sentieri. Si può credere che coloro che le hanno percorse abbiano potuto avanzare solo passo a passo, ottenendo ogni volta, a forza di lavoro e al prezzo di grandi fatiche, una lenta conquista del territorio montuoso e accidentale. Tali sono i passaggi che (…) danno accesso nel Niolo. La ripidezza e la difficoltà di questi sentieri sono tali che se ne può dare appena una idea; non solamente sono quasi impraticabili a piedi come a cavallo, ma sono anche molto pericolose». Agostino Giustiniani, Description de la Corse, 1ª ed. 1537, reprint Ajaccio, Piazzola, 1993, p. 25.
(161) trad. It. : «per la maggior parte dei questi uomini chiusi nelle loro prigioni di granito, la civilizzazione finisce dove la montagna vicina inizia (…) ed è anche un tratto distintivo del loro carattere, l’orrore di questi montanari per l’elemento che li circonda ». M. Blancqui, Rapport sur l’état économique et moral de la Corse, Paris, Didot, 1838, p. 86.
(162) Gaston Vuillier, le tour du monde, Paris, Rothschilds, 1890.
(163) trad. It. : «si aveva finalmente riunito il Niolo al resto del mondo(…) dunque la strada ha aperto il paese, e le idee». Victor Addouin et Eugénie Dumazet, Voyage en France, Paris, Levrault, 1898, p. 94.
(164) trad. It. : «il rifugio delle tradizioni (…) un paese difficilmente accessibile, dove gli abitanti vivono contando su loro stessi senza altri commerci con l’esterno che la conduzione da parte degli uomini dei loro greggi alla spiaggia». Charles de la Morandière, Au coeur de la Corse. Le Niolo, Paris, s.ed., 1933, p. 57.
(165) Georges Ravis-Giordani, Bergers corses, les communautés villageoises du Niolu, Ajaccio, Albiana, 2001.
(166) trad. It. : «I niolini sono quasi tutti pastori; hanno la reputazione di essere rudi, ma anche generalmente molto intelligenti. Possedendo immensi greggi, noleggiano dei pascoli ed emigrano con i loro greggi verso le spiagge di Galeria, dall’inizio del mese di settembre, prima che la caduta della neve interrompa la circolazione. Dato che possono comunicare solo difficilmente con i centri civilizzati, hanno meglio conservato gli antichi usi; in oltre, sono frequentemente obbligati a contare su loro stessi: gli uomini fabbricano gli strumenti in legno che gli servono per l’industria del formaggio, le donne tessono la tela e il panno durante l’inverno e confezionano gli indumenti di tutta la famiglia». Paul Joanne, Itinéraire général de la France: Corse, Paris, s. ed.,1894, p. 204.
(167)trad. It. : «pastori sono rimasti gli abitanti del Niolo, vivono solamente dei prodotti delle capre e dei montoni, le donne soltanto rimangono nei villaggi, dove coltivano la terra con l’aiuto degli italiani, filano il lino e la lana». Victor Addouin et Eugénie Dumazet, Voyage en France, Paris, Levrault, 1898, p. 96.
(168) Georges Ravis-Giordani, Bergers corses, les communautés villageoises du Niolu, cit., p. 279.
(169) tradizionale mantello fabbricato con pelo di capra.
(170) trad. It. : «Per lunghi anni, i corsi avevano fatto di tutto per impossessarsi dell’Orco, al fine di liberare il paese; (…) Un giorno , infine, i pastori ebbero una ingegnosa idea. Piazzarono vicino alla sua dimora, un grande stivale rivestito di catrame all’interno. L’Orco avendo visto quella scarpa, vi introdusse il piede, che non poté più ritirare. I suoi avversari si avventarono su di lui per massacrarlo. Come gli era impossibile difendersi, l’Orco si arrese e così parlò: “ lasciatemi salva la vita e vi insegnerò a trarre una grande quantità dal primo latte delle vostre capre.” Tale sarebbe l’origine di u brocciu». Georges Ravis-Giordani, Bergers corses, les communautés villageoises du Niolu, cit., p. 295.
(171) trad. It. : «favoriva le riunioni attorno al fuoco, alla veglia(…) dove si narravano storie». Geneviéve Massignon, Contes corses, cit., p. XII.
(172) Claire Tiévant et Lucie Desideri, Almanach de la mémoire et des coutumes corse, cit., p. 3/VIII.
(173) Ivi, 5/VIII.
(174) Vedi capitolo secondo, paragrafo 2.2.2.
(175) trad. It. : «marzo, disgustoso, figlio di rognoso, faccio dei brocci, grandi come dei cestini!» Geneviéve Massignon, Contes corses, cit., p. 133.
(176) trad. It. : «Non si poteva più far pascolare le pecore, ancora meno mungerle e fabbricare il brocciu. Tra le pecore, anche quelle che avevano potuto rifugiarsi nella mandria, furono annientate dalle cadute di grandine, accompagnate da un vento, il più freddo che si sia mai visto. Il pastore cercò, ma invano, di salvare gli agnelli; riuscì solamente a nascondere un piccolo agnello sotto il paghjulu (grande paiolo, che serve a far cuocere il brocciu); ma fu tutto quello che fu salvato del gregge! Quanto al pastore, per quanto si riparò nel suo stazzu, e si avvolse nel suo pilone (cappa tessuta con pelo di capra): rischiò di soffocare dal freddo durante i prestaticci!». Ibidem.
(177) trad. It. : «Vuoi essere pagato in denaro o con delle pecore?». Ivi, p. 129.
(178) trad. It. : «Allora, san Martino prende tutto il suo gregge, e, in ottobre, se ne va transumare nella Filosorma; cioè presso Galeria ( tutte le terre, la giù, appartengono ai dei niolini, e anche, attualmente, la regione della Filosorma e popolata da persone di Pietra; ciascun Violino a un suo appezzamento)». Ivi, p. 130.
(179) trad. It. : «il bilinguismo è talmente tanto diffuso che si è anche sorpresi della facilità con la quale i montanari si esprimono in francese». Geneviève Massignon, Contes corses, cit., p.XIII.
(180) Stith Thompson, La fiaba nella tradizione popolare, cit., p. 45.
(181) Geneviève Massignon, Contes corses, cit., p. 115.
(182) Pierre Antonetti, Historie de la Corse, Paris, Robert Laffont, 1973.
(183) Antoine Casanova, Notes sur les Caporaux et les communautés rurales en Corse, in Corse Historique, n° 9-10-11, 1963.
(184) trad. It. : «Ho fatto il voto di andare a combattere i Turchi; e potrò recarmi da vostro padre solo tra un anno». Geneviève Massignon, Contes corses, cit., p. 115
(185) Georges Ravis-Giordani, Bergers corses, les communautés villageoises du Niolu, cit., p. 231.
(186) trad. It. : «Fiaba fiabetta, Dite la vostra, Che la mia è detta». Geneviève Massignon, Contes corses, cit., p. 182.
(187) trad. It. : «Fiaba fiabetta, Mettila nella calzetta, Dite la vostra, Che la mia è detta». Ivi, p. 4, 6, 21.
(188) trad. It. : «Fiaba fiabetta, Gamba di cavalletta, Dite la vostra, Che la mia è detta». Ivi, p. 74, 88, 173.
(189) trad. It. : «Mi hanno dato una cesta di vino, Una zucca di pane, Una coscia di pollo, Per andarmene a cavallo!». Ivi, p. 93.
(190) trad. It. : «Hanno fatto una grande festa, C’erano sigari di tutte le dimensioni, Canistrelli e Fritelli, Pezzi di brocciu, A! che bella festa, Mi hanno dato una coscia di gallina, perché me ne andassi a casa mia». Ivi, p. 202.
(191) trad. It. : «Queste fiabe hanno allungo dormito, ripiegate nelle memorie o appiattite nelle raccolte d’inchieste. Quando le ho riscoperte, le ho amate malgrado lo stato in cui si trovavano. Da all’ora, hanno preso aria, sono andati per le strade, nei sentieri, nei villaggi e nelle città, nella mia isola e altrove. Sono passate da una lingua all’altra, dato che è la musica di queste altre lingue che le hanno aiutate a trovare la loro forma e ad avanzare». Francette Orsoni, Fiordilisa et autres contes corses, France, Syros jeunesse, 2002, p. 12.
(192) trad. It. : «come i grani addormentati hanno bisogno dell’acqua per germogliare…». Ibidem.
(193) trad. It. : «piuttosto come si dicono che come si scrivono». Ivi, p. 10.
(194) Ivi, p. 93.
(195) Ivi, p. 15.
(196) Ivi, p. 45.
(197) Ivi, p. 63.
(198) trad. It. : «Ora, arrivò che bisognava attraversare un ruscello. Con un salto, il leone arrivò alla riva opposta. L’asino, al contrario, si mise a nuotare così maldestramente, che rischiò mille volte di annegare. Infine, riuscì a oltrepassarlo. ─ Come, disse il leone, meravigliato di tanta goffaggine, tu non sai dunque nuotare? ─ Io! Nuoto meglio di un pesce. ─ E allora, perché sei rimasto così a lungo ad attraversare il ruscello? ─ Ah! C’è che avevo preso con la coda un enorme pesce, così grosso, così grosso, che il suo peso mi faceva affondare. Sono stato obbligato a lasciarlo andare per venire a trovarti». Frédéric Ortoli, Les contes populaires de l’île de Corse, cit., pp. 134-135.
(199) trad. It. : «Ma la vita non è sempre semplice: occoli tutto ad un tratto obbligati a oltrepassare un torrente! In quel tempo là, faceva caldo, ma quando pioveva, pioveva in grande quantità…Senza ombra di esitazione, con un solo salto, il leone si lancia al di sopra del torrente. Arpalionu voleva fare ugualmente, esita e finalmente si butta nell’acqua! Ma nuota così lentamente e goffamente che quando raggiunge con fatica altra riva, il leone gli dice: Ma sei proprio uno strampalato e goffo! In vero ballò! Io, strampalato e goffo? Tu non hai capito niente! Avevo alla coda un pesce grande così, e tu, gridando, l’hai fatto scappare! Ah! Ah! Tu pesci con la coda? Sei un animale intelligente! A noi due, regneremo su tutto questo continente». Francette Orsoni, Fiordilisa et autres contes corses, cit., pp. 24-26.
(200) trad. It. : «Il piccolo gatto ha detto alla piccola gatta: ─ vieni in soffitta, e là noi mangeremo delle belle noci e delle belle mandorle». Frédéric Ortoli, Les Contes populaires de l’île de Corse, cit., p. 237.
(201) trad. It. : «C’era una volta, in questo paese qui, in questa isola qua, un grande e gentile gatto, sveglio e agile, chiamato Pedilestu. Era molto amico, più che amico, con una gatta graziosa e golosa chiamata Mustaccina. Loro due, facevano una tale coppia e una tale paura ai topi e ai ratti che nessuno osava avvicinarsi alle case. I maestri del luogo potevano così lasciare seccare in tutta tranquillità le raccolte, nelle grandi e misteriose soffitte. Pedilestu e Mustaccina per quanto siano curati, prediletti, non hanno comunque il diritto di andare nella soffitta, dato che rischiano di fare dei disastri, arrotolandosi tra le mele, le mandorle e le noci…Ma si preferisce sempre ciò che è vietato! Era così ieri, è così oggi! È uguale tra i gatti…lo stesso!». Francette Orsoni, Fiordilisa et autres contes corses, cit., pp. 95-98.
(202) trad. It. : «In questo paese qui, in questa isola qua, tutto il mondo sa, anche i gatti, che non bisogna rifiutare di aiutare qualcuno in pericolo, e che una mano, non si rimanda mai a domani!». Ivi, p. 122.
(203) trad. It. : «si mise a ragliare tanto e così forte e così gioiosamente, che un leone che, per caso, si trovava di là, venne a vedere di cosa si trattava». Frédéric Ortoli, Les contes populaires de l’île de Corse, cit., p. 133.
(204) trad. It. : «che aveva un naso smisurato e una criniera corta, rigida, ridicola!». Francette Orsoni, Fiordilisa et autres contes corses, cit., p. 21.
(205) trad. It. : «Anche io, vorrei diventare potente come lui! Allora decise di partire a conquistare il paese. Per darsi coraggio, e per impressionare il circondario, si mise a ragliare come solo gli asini sanno fare, e si fece sentire fino alla fine del paese». Ivi, p. 18-19.
(206) trad. It. : «un piccolo gatto (…) una piccola gatta». Frédéric Ortoli, Les contes populaires de l’île de Corse, cit., p. 237.
(207) trad. It. : «un grande e gentile gatto, sveglio e agile (…) una gatta graziosa e golosa». Francette Orsoni, Fiordilisa et autres contes corses, cit., p. 95.
(208) trad. It. : «fanciulla ». Geneviève Massignon, Contes corses, cit., p. 139.
(209) trad. It. : «una principessa, (…) una regina, dato che ella ha sempre una corte intorno a lei.(…) Ogni uomo sogna di sposarla, e tre giovani in particolare passano la loro vita a circondarla, a servirla, ad accompagnarla…». Francette Orsoni, Fiordilisa et autres contes corses, cit., p. 66.
(210) Francette Orsoni, La légende du Brocciu. U secretu di u Magu, Vero, U filu di a memoria, 1999.
(211) trad. It. : «i maghi sono qui, sopra ai massi e si mangiano fette di pane con un formaggio fresco, fresco, così liscio, che pare più che buono». Ivi, p. 13.
(212) trad. It. : «è il frutto di un incontro tra Scrittura, Parole e Immagine, messe al servizio di una leggenda, della quale si trovano tracce a traverso diverse varianti sia nel sud sia nel nord dell’isola». Ivi, p. 5.
(213) trad. It. : «Ma con un solo piede calzato e l’altro no, inciampa, rotola e cade in mezzo alle pietre! I pastori non aspettavano altro. Escono da dietro il loro nascondiglio e gridano: “VITTORIA! VITTORIA! IL MAGO è NOSTRO!” (…) Allora u Magu prega, supplica i pastori e dice: “ lasciatemi andare che vi posso dare un segreto meraviglioso che vi insegnerà a fare un formaggio fresco saporito e gustoso! (…) E dice ai pastori come sua moglie, la magona, ha pensato a mischiare latte e siero. U Magu spiega come sua moglie fa scaldare tutto, pienamente e bene, senza farlo cuocere troppo, che altrimenti si indurisce. Dice ancora: “ Cosa mai vista, questo formaggio si può mangiare con lo zucchero e si chiama BROCCIU”». Ivi, pp. 22-26.
(214) Francette Orsoni, La mère des Vents. A mamma di i Venti, Ajaccio, U filu di a Memoria, 1999.
(215) Geneviève Massignon, Contes corses, cit., p. 249.
(216) trad. It. : «Sacco sacchettino, dammi un canitreddu, Sacco sacchettone dammi un canistronu».Ivi, p. 11.
(217) trad. It. : «Sei stato avvertito, e lo hai detto, ma…il tuo grano ora è ricresciuto». Ivi, p. 16.
(218) trad. It. : «ciascuno di noi metterà dei segreti e questi segreti qua, Ghjuvanninu potrà andare a raccontarli al mondo intero (…) dei meravigliosi segreti che vengono dal paese del sol levante! (…) i misteri delle fonti e delle fate che abitano i fiumi e le valli (…) le terribili storie di u Magu, del monte Tafanatu, e del famoso Basgialiscu di Celavu!». Ibidem..
(219) trad. It. : «per crescere si ha bisogno di pane, ma si ha bisogno anche di storie e canzoni». ivi, p. 17.
(220) Salvatore Brandanu(a cura di), La Gallura, una regione diversa in Sardegna, Olbia, I.CI.MAR, 2001.
(221) Max Leopold Wagner, La lingua sarda, Nuoro, Ilisso, 1997, p. 345. rist. Bern, Francke, 1951.
(222) Alberto Merler, Maria Lucia Piga, Regolazione sociale, insularità, percorsi di sviluppo, Sassari, EDES, 1996.
(223) Ivi, p. 46.
(224) Ivi, p. 37.
(225) Ivi, p. 33.
(226) Maurice Le Lannou, Pastori e contadini di Sardegna, Cagliari, La zattera, 1971. rist. dell’ed. Tours, Arrault, 1941.
(227) Attilio Mastino, “La Gallura. L’età punica e Romana: percorso storico e archeologico”, Salvatore Brandanu (a cura di), La Gallura, una regione diversa in Sardegna, cit., p. 41.
(228) Francesco Cossu, Tradizioni popolari di Gallura, Sassari, Chiarella, 1974.
(229) Franco Fresi, Antica terra di Gallura, Roma, Newton Compton, 1994, p. 7.
(230) Maurice Le Lannou, Pastori e contadini di Sardegna, cit., p. 100.
(231) Ivi, p. 101.
(232) Renzo De Martino, “Il dialetto gallurese, affinità linguistiche, culturali ed etnografiche tra Corsica e la Gallura”, Salvatore Brandanu (a cura di), cit., p. 164.
(233) Franco Fresi, Antica terra di Gallura, cit., p. 8.
(234) Paolo Brindano, “Lo stazzo della Bassa Gallura”, Salvatore Brandanu (a cura di), La Gallura, una regione diversa in Sardegna, cit., p. 305.
(235) Franco Fresi, Antica terra di Gallura, cit., p. 28.
(236) Quinto Mossa, La Réula, Olbia, Taphros, 2001.
(237) Franco Fresi, Antica terra di Gallura, cit., p. 9.
(238) Angelo Pirredda, Lo stazzo e la Gallura, Sassari, Gallizzi, 1997, p.180.
(239) Stith Thompson, La fiaba nella tradizione popolare, cit., p. 23.
(240) Angelo Pirredda, Lo stazzo e la Gallura, cit., p. 181.
(241) Quinto Mossa, La Réula, cit., p. 13.
(242) Ivi, p. 10.
(243) Ivi, p. 14.
(244) Ivi, p. 18.
(245) Ibidem.
(246) Franco Fresi, Antica terra di Gallura, cit., p. 36.
(247) Gino Bottiglioni, Leggende e tradizioni di Sardegna, cit., p. 46.
(248) Ibidem.
(249) Ivi, p. 48.
(250) Frédéric Ortoli, Contes populaires de l’île de Corse, cit., p. 322, 327, 337, 341.
(251) Quinto Mossa, La Réula, cit., p. 27.
(252) Ivi, p. 40.
(253) Ivi, p. 42.
(254) trad. It. : «Questa donna morta di parto, prende la strada dell’acqua. Dato che non trova riposo ritorna la notte presso il ruscello. La si sente gemere e cullare il suo bambino, la si sente fare battere i panni sulla pietra e sull’acqua. È per questo motivo che è soprannominata “a sciaquagjola”». Francette Orsoni, Chemins de l’île, chemins de l’oeil, Ajaccio, Dumane, 1999, p. 86.
(255) R. Multedo, Le folklore magique de la Corse, Nice,s.ed. , 1982, p. 176.
(256) Quinto Mossa, La Réula, cit., p. 178.
(257) Ivi, p. 180.
(258) Ivi, p. 174.
(259) Gino Bottiglioni, Leggende e tradizioni di Sardegna, cit., p. 41.
(260) Quinto Mossa, La Réula, cit., p. 54.
(261) Ivi, p. 69.
(262) Ivi, p. 58.
(263) Ivi, p. 231.
(264) Gino Bottiglioni, Leggende e tradizioni di Sardegna, cit., p. 38.
(265) Ivi, p. 44.
(266) Quinto Mossa, La Réula, cit., p. 254.
(267) Frédéric Ortoli, Les Contes populaires de l’île de Corse, cit., pp. 235-237.
(268) Francesco Enna, Fiabe sarde, cit., pp. 259-261.
(269) Quinto Mossa, La Réula, cit., p. 256.
(270) Quinto Mossa, La Réula, cit., p. 309.
(271) Ivi, p. 188.
(272) Frédéric Ortoli, Les Contes populaires de l’Île de Corse, cit., p. 204.
(273) Enrica Delitala (a cura di), Novelline popolari sarde dell’Ottocento. Edizione dei Manoscritti del Fondo Comparetti, cit., p. 40.
(274) Francesco Enna, Sos contos de foghile, Sassari, Gallizzi, 1984, p. 10.
(275) trad. it. : «del paese delle fruste». Pier Enea Guarnerio, Primo saggio di novelle popolari sarde, cit., p. 23.
(276) trad. it. : «del paese delle briglie». Ivi, p. 24.
(277) trad. it. : «del paese degli speroni». Ivi, p. 25.
(278) Quinto Mossa, La Réula, cit., p. 168.
(279) Italo Calvino, Sulla fiaba, Torino, Einaudi, 1988, p. 113.