Versione :
Talianu

Dalla raccolta Epigrammi romani

(traduzione di Sinan Gudzevic e Raffaella Marzano)

I
Ciò che da tanto bramavi, rimira, anima mia:
Roma che splende nel sol autunnale eterna città.
Anima, godi a fondo il giorno che vivi e Roma,
Anche se questo piacer domani dolore sarà.

IV.
Nelle terme a Roma c’erano una volta biblioteche:
Affinché fresco e pulito potessi leggere i libri.
Oggi fra libri polverosi, che sporcano e danno starnuti,
Sarebbero più salutari le terme nelle biblioteche.

V.
Ti lamenti, o Silva, che il cane Ulisse attacca la tartaruga.
Vuoi salvarla da lui, devi chiamarlo Achille.

VIII
Disse Democrito che sempre pensare a qualcosa di bello
È già di per sé il segno di aver una mente divina.
Quindi, una ragazza, da mesi qui a Roma è quello
Che alle menti divine aggiunge anche la mia.

IX

Venti e piogge frequenti abbattono frutti dai rami.
E far cadere la foglia solo la grandine può.
Ma da quest’albero incolto spogliato già dall’autunno
Solo l’inverno col gelo togliere i frutti potrà.

X

Fu Parmenide quello che diede per primo la prova
Che l’astro della sera sia lo stesso astro del mattino.
Una possibile prova si offre anche a me questa notte.
Vuoi sapere qual è? Siedo alla finestra e son desto.

XIII

Livia, guai a chi studia il tuo triangolo coniugale:
I suoi angoli sommati danno ben più di π.

XIV
Molte letture ci sono, ognuna è storia a sé stante
Gioia, passione frammiste, fretta, emicrania ed impegno.
Il caso più folle però è se in una lingua pur morta
Leggi un lungo poema, del quale non vedi la fine,
E il fine ti dai tradurre quello che leggi,
Seguendo col verso natìo il verso che stai leggendo.
Se col tradurre ti fermi, ti fermi col leggere anche,
Non hai tradotto qualcosa, di certo letta non l’hai.
Le traduzioni, infatti, son l’unica tua lettura
Ma, che risate, son quelle che sai già tutte a mente.
Così traduci qualcosa ma, cavolo, leggi ben poco.
Lettore, l’esempio di ciò, lo trovi in chi stai leggendo.

XV
Versi, invano vi scrivo in voci croate e serbe!
Pochi croati e serbi saranno vostri lettori.
Oggi la loro follia richiede con forza che solo
Versi e prosa componga secondo il noi nel nostro.

XVII
L’ardente corona del sole, calatasi troppo su Roma,
Accartoccia le foglie sui rami, spacca la terra.
Se mai fosse rimasto il letto del Tevere secco,
Questa calura potrebbe impolverarlo ancor.
Se mai fosse da mucche il latte in polvere munto,
Questa calura sarebbe atta a farlo ancor.
Era fin’oggi ben noto che Faetonte è figlio di Febo:
Oggi invece vediamo tracce del figlio in lui.

XXI
Romolo, tu uccidesti come niente Remo fratello
Quando in giro ti prese mentre fondavi la Urbe
T’avrei deriso anch’io, se fossi stato presente
Perché fondavi città fra rane presso il canneto
Oggi invece approvo la zappa tua Palatina:
Remo assassinasti qui, avevi ragione però.

XXII
Quello che Lete e Mneme separano nel mondo dell’Ade,
Tevere nel mondo terreno tutto unisce da solo.
Questo si vede dai papi: del Tevere l’acqua bevuta
Molte obliano cose, ne ricordano ben poche.
Anche il papa di oggi strabeve l’acqua tiburtina,
Non solo perché fa bene al fegato e alla bile.
“Noi chiederemo perdono al popolo ebraico”, dice,
Ma non ne dice il perché – l’acqua d’oblio è così.

XXIII
Crestomazia è lei dell’odierna poesia romana:
Ogni poeta di Roma per il suo grembo passò.

XXIV
Roma è rovine e cimiteri, e i romani son gente allegra.
Vivendo al cimitero dolor, diventa riso prima o poi.

XXV
Cantando la ninna nanna ha addormentato il bambino
E il suo canto ha svegliato ogni adulto vicino.

XXVI
Guardali uno per uno i cavalli in Piazza San Pietro,
Quelli dei carabinieri, il recinto d'ippodromo poi:
Tutti dal pelo splendente e tutti dai fianchi vibranti,
Sappi che per il morso equino il prato migliore è Roma.
Se mai tu forse vorrai vendicarti del tuo cavallo,
Non venderlo a Roma, sazio e felice vivrebbe.

XXVII
Tutti gli inizi son duri. Ma nell’epigramma è diverso:
Facili tutti gli inizi, duri ed aspri i finali.

XXVIII
Ieri per tutto il giorno ho chiesto alla gente a Belgrado:
“C’è nessuno che vola per Roma? Vorrei spedire qualcosa”.
Oggi mi fanno impazzire quelli cui ieri chiedevo:
Chiamano chiedono tutti: “L’hai poi spedita a Roma?”

XXIX
Stanotte ubriaco dormivo, ed ora da sobrio son desto.
Per tutti gli dei! Fa male sia quello che questo.

XXX
Disse l’antico Alceo, il vino è lo specchio dell’uomo.
Tutta la notte passata stavo davanti allo specchio.

XXXII
Mato mi loda e dice, fra tutti i serbo-croati
Son io colui che i distici migliori compone.
Rispondo io a Mato che fra tutti i serbo-croati
Son io colui che i distici peggiori compone.
Chi ha ragione, lettore? Entrambi abbiam ragione,
Dato che son l’unico io che i distici ora compone.

XXXIV
Marziale, Goethe, Palada, Lucilio, Callimaco, Puškin,
Nicarco, Laerzio, Basso, Luciano, Archia, Flacco,
Archiloco, Nosida, Anita, Crinagora, Catullo, Erasmo,
Vjazemskij, Zamagna, Floro, Cunicchio, Pannonio, Moro:
Se, o lettore, a loro aggiungi anche diversi ignoti
Saprai dove trovai del mio epigramma il sale.
Questo librino quindi non ti piacesse affatto,
Rimproverami, ne ho colpa, ma rimprovera anche loro!

XXXV
Non è peccato o vergogna che un vecchio baci una ragazza.
Giovane o vecchio l’ariete ama comunque il sale.

XXXVI
Il tempo è davvero denaro: gira e rigira, a Roma
Tuo calendario e clessidra sono sempre tasca e borsa.

XXXVII
Fui colto da febbre d’un tratto nel mezzo della notte,
Presi a tremar dal freddo, dolevano tutte le membra,
Mal di testa mi prese e fiacca in tutte le ossa.
Un tremendo dolor tutto s’impossessò di me .
Come un’anima in pena, non trovando né pace né quiete,
Tutta la notte sudai freddo e caldo e freddo.
Che non mi colga, o dei, mai più un simile male.
Tanto fa male la morte, che non mi prenda giammai!

XL
Chiedono i figli miei se questi epigrammi son buoni.
Sì, altrimenti perchè li scriverebbe papà!?

XLI
L’anno scorso della Fiorentina, Batistuta è ora della Roma;
Oggi segna un goal alla Fiorentina e piange.
L’anno scorso della Lazio, Conceição adesso è del Parma;
Oggi segna un goal alla Lazio e piange.
Non so se la vita dell’uomo sia gioia o lutto, ma so che
Prefiche più care di questi Roma di certo ebbe mai.

XLII
Se è vero che un uomo riservato, calmo, tranquillo
È un’autista che folle sgomma, strombazza e frena,
Molti romani allora, riservati, calmi, tranquilli,
Fanno per tutta la notte tremare la mia finestra.

XLIII
Molti ci sono a Roma giapponesi con un occhio solo:
Sul naso poggiata la Nikon, scattano, è la loro Roma.
Molti ci sono a Roma romani con un orecchio solo:
L’altro tutto coperto da mano col telefonino.
La bocca degli uni si storce, degli altri invece non tace,
a entrambi rimane un’unica libera mano.
Pari son solo le gambe, ma guai alle gambe le quali
Guida un unico occhio, bava e un unico orecchio.

XLV
Che c’è di strano se Mosè per errore abbia le corna?
Le corna d’ognuno di noi son fatte per errore di qualcuno.

XLIX
Il matematico Bo sta per andare in aereo,
Ma il matematico Bo ha molta paura del volo.
Il matematico Bo teme che possa accadere il caso,
Che sull’aereo suo una bomba metta qualcuno.
Il matematico Bo sta per rinunciare al viaggio,
Quand’ecco la matematica gli porta aiuto d’un tratto
E il matematico Bo all’aereo s’avvia lieto,
Dopo aver ficcato una bomba nella valigia!
Sa il matematico Bo che la probabilità che sullo stesso aereo
Di bombe se ne trovino due equivale a zero.

L
Voi, ragazza e ragazzo, che al Circo Massimo passeggiavate,
L’otto dicembre al tramonto, litigando non so su cosa,
Quell’uomo in bici, spettinato, la giacca verde addosso,
Quello che sembrava preso da desiderio folle
E lanciatosi in corsa furibonda e pazza
Non accortosi di voi, ad ogni giro accelerando,
Quello non uso alla velocità e all’umido della curva sud,
E che sul famoso terreno dalla bici cadde di schiena,
(Ne avete riso in coro e di certo in quell’istante
Il suo ridicolo tonfo mise pace tra voi)
Quello che due o tre volte rotolò sulla sabbia,
Annaspando in aria e riprese fiato a stento,
Quello che rialzatosi poi rimontò a fatica in sella,
Fuggendovi per la vergogna, per giove, ero proprio io!

LI
Son di nuovo al cine, ingordo, impaziente di vedere
L’ennesima volta lo “Yol” il film di Yilmaz Güney
Penso sarebbe gentile da parte degli attori
Che all’inizio dicessero “Merhaba, nostro Sinan!”

LII

Prendo il libro di cucina di Apicio Gavio Marco
E il ricordo d’un tratto vola nell’allegra Grab:
Nel pomeriggio estivo sul prato un vitello treenne,
Forte gli vibra il collo, la coda gli scaccia le mosche.
Un passante lo guarda e d’un colpo gli sfuggono queste parole:
“Guardalo, mi fa venir l’acquolina in bocca!”
Dubiti forse, lettore, che un tale carnefilo esista,
Vieni, che telo presenti: Jakup si chiama, mio fratello.”

LIV
Quanto non riuscì a massacri e omicidi cruenti,
Quanto che non riuscì a sangue e morte,
Quanto non riuscì a poeti greci, latini ed altri,
Quanto non riuscì ad alcun re, e non fece nemmeno la Croce,
Tanto riuscì a fare il nostro motore a scoppio:
Ad annerire la faccia del Colosseo crudele.

LVI
Dir dell’amore che sia la cosa più dolce al mondo
Può solamente chi mai provò il tiramisù

LVII
Eppure non è facile dire da dove la mentula viene.
Forse proviene da mons, forse proviene da mens?
Se maggioranza sostiene che la radice ne sia
Più il palpabile mons, che l’impalpabile mens,
Dunque resta oscuro le ragioni perché, da sempre, per sempre
Tale palpabile mons frega l’impalpabile mens?!

LVIII
Il maschio calvo non soffre mai di vene varricose!
Se ne dovesse soffrire mai – allora gli ricrescono i capelli!
Così ci insegna Ippocrate, ma con te, Mario, è diverso:
Sei calvo e varricoso tutto, anche se indubbiamente maschio.

LVIII
Lisa, ti credo se dici che non sai di chi sei incinta
Sul formicaio seduta non sai quale formica t’ha morso.

LXI
Spesso nei libri presagi la Sibilla cumana ripete
Che il tesoro romano tornerà in Asia un dì,
Proprio ciò avverrà per mia sventura domani:
Il mio tesoro domani ad Istambul sta per andare.

LXII
Quegli enormi battenti di San Giovanni in Laterano.
Fusi d’antico maestro, d’antico maestro battuti.
Con serratura leggera e cardini ben modellati,
Tali che anche un bimbo li possa da solo varcare
Voglio usarli, lettore, per dirti il desiderio mio:
Questo libretto che sia simile in tutto a loro!

LXIV
ROMA al rovescio AMOR: per questo è piena di gente
Cui il putto alato mostra le terga divine.

LXV
Silenzio di tomba su Roma: è questa l’unica ora
Che porta sonno e riposo ad ogni essere e cosa.
Peccato sia notte ed il sole non solchi il cielo:
Ne sentiremmo il rumore, ora che Roma si tace.

LXVI
Magri e semplici cibi son quelli più salutari,
Ma nessuno li offre a un ospite invitato a pranzo.

LXVII
Molte ne vedi chimere a Roma e sull’italico suolo,
Ma la più grande, straniero, sta nell’affidarsi alla posta.
Fa’ quel che vuoi a Roma - ma lettere non scrivere mai,
Va’ a puttane o bevi o gioca a carte, a lotto,
Se non vuoi giurare invano, al tuo ritorno da Roma,
Ad ogni amico che hai di avergli scritto da Roma.
Cicerone ad Attico scrive che la notizia della morte di Cesare
Giunse in germanico suolo in una decina di giorni.
Quindi da Roma al Reno, viaggiava la posta romana,
Se il calcolo non inganna, cento miglia il giorno.
Oggi da Roma al Reno la posta italiana ci mette
Uno o due mesi, talvolta non giunge affatto.
Tu che gioisci in attesa della lettera scritta da Roma,
Ricrediti: vana speranza, la lettera s’è persa per strada.
Vano sarebbe che oggi a Penelope scrivesse da Roma
D’essere vivo Ulisse: ben prima arriverebbe lui.

LXVIII
Eco, l’echeggiatrice triste, in ogni tempio si trova
Sia in quello pagano, sia in quel cristiano.
Questo ben sanno i Narcisi usi a frequentare templi:
Ed è per questo che loro per templi mormoranno tutti.

LIX
Io col mio latino somiglio a un bimbo duenne
Tutto capisco ma nulla sono capace di dire.

LXX

L’umanesimo, dici, europeo nacque a Troia la notte
Quando il pianto d’Achille al pianto di Priamo s’unì.
Dicci però che esso mutò il suo percorso
Quando per Ettore chiese a Priamo riscatto Achille.

LXXI
Mentre passavo inverni nel mio paese nevoso,
Marco, pazzo per gli sci non volle venir a trovarmi.
Ora che sono a Roma mi chiama, vuole venire.
Non volle venire a Grab, vuole venire a Roma!
“Hai un posto per me? A me mi attirano molto
Sti epigrammi tuoi che stai scrivendo a Roma!”
Se, o sciatore Marco, il mio t’attira epigramma,
Non venirmi a trovare qui, vieni, o Marco, a Grab.
Api e arnie mie e bugni li trovo a Roma,
Ma il pungiglione al miele viene aggiunto a Grab.

LXXII
Applausi in chiesa a messa, il vescovo in porpora tace,
Applausi quando il palmo il Papa sul popolo leva,
Applausi nel tribunale proclamata la massima pena,
Applausi quando la salma per l'ultimo viaggio parte.
Tutti sono usi romani: straniero, non ti stupire
Quello che Roma insegna: la vita è un batter di mano!

LXXV
Io ho di tutto a Roma vantavo con qualche amico,
Senza pensare che di tutto è un’espressione vuota.
Il mio Partizan domani arriva a giocare con la Roma
E se la batte avrò tutto davvero avrò.

LXXVI
C’è stato il mio Partizan, ma ha perso, ha perso di brutto.
Non ho né tutto, né di, il mio tutto son niente e no.

LXXVII
Domus Aurea di Nerone, le terme di Caracalla, il Colosseo,
Il foro di Cesare e di Traiano, il Campidoglio, la rupe Tarpea,
Oggi son presi d’assalto da gatti dal pelo lucente,
Grassi padroni del campo di sguardo lento ed altero.
Sei esperto, straniero, di logica se osservandoli concludi:
Roma è dei gatti il paradiso, dei topi e cani l’inferno.

LXXVIII
Marta, hai ragione se chiami i miei epigrammi erbacce:
Il bestiame si ammala con esse, l’uomo le usa da rimedio.

LXXIX
Penso a quanto insegna il libro del Sacro Corano,
Che il Paradiso è un prato e un verde boschetto,
Dove gorgoglian ruscelli e s’odono canti d’uccelli,
Dove c’è ogni riparo e frutta e ogni diletto,
E ai Pagani annuncio che io son già in Paradiso:
Giaccio sull’erba e guardo il colle che cela Roma.

LXXX
Fabio, chiedi perché per Napoli parto ben spesso,
Di domenica, solo, sempre a mezzodì.
Provi a voce a pensar: Pompei, l'antro della Sibilla,
Bacoli, Capo Miseno, Vesuvio, Posillipo forse.
Fabio, non è per questo: Maradona mi spinge al viaggio.
Sappi che scendo dal treno sempre a Campi Flegrei.
Vesuvio e Bacoli posso vederli tutti i gorni,
Ma Maradona, ben sai, solo di domenica c’è.

LXXXI
Tre son i maschi per donna: il primo le paga le voglie,
L’altro che l’ama e il terzo per essere amato da lei.
Tutta la notte mi sforzo di sfatare il perfido detto:
Cerco di riunire in me quello che farebbero tre.

LXXXII
Chiesa per chiesa, altari, basiliche, chiostri e croci –
Visto avrò fra un po’ tutta la Roma cristiana.
Gran musulmano è Sinan! Se a Istanbul domani arrivasse
E si mettesse a visitar tre moschee al giorno,
Techie, medresse, michrabi, minareti e cimiteri
Non raggiungerebbe comunque la quota cristiana romana.

LXXXIII
La grappa “da Carlo” mi sembra l’aquila quella di fiabe,
Che ingoiata viene d’un tratto dall’avido drago:
Agita le ali e viva batte la pancia del drago,
Lacera con gli artigli e strappa col becco il ventre.

LXXXIV
Quel che la Genesi dice non vale a Roma eterna,
E non si attiene nemmeno Iddio al proprio voto.
L’acqua del Tevere gonfio e torbido per nubifragi,
Proprio dove l’arcobaleno toccava il gorgo spumoso,
Nel pomeriggio ha preso con sé il bimbo Luchino,
Essere innocente e ignaro, cinque anni nemmeno compiuti.
Dio, chiunque tu sia, del tuo arcobaleno poteva
Forse fidarsi Noè, ma non ci fidiamo noi.

LXXXV
Bruno mi chiamo Giordano: i fervidi figli di Roma
Mi eressero statua qui, guardo il Campo de’ Fiori.
Quattro secoli sono ormai passati da quando
Io sul rogo papale salii e sfrigolai.
Che i papi giammai ebbero né allora né oggi
Una parola di scuse, non mi interessa per nulla.
Altra faccenda mi turba: i cosiddetti laici nostri,
Questo scientifico mondo, questi astronomi d’oggi:
Quattro secoli sono ormai passati e loro
Nessun lavoro ancora non porta un valido frutto.
Quando andrà finalmente una delle sonde a Marte?
Quando i microbi suoi arriveranno a noi?
Per dimostrar che soli né unici siamo nel cosmo –
Questo dicevo anch’io, per questo al rogo andai.

LXXXVI
Sono, padrone, la brocca su cui ti arrabbi invano,
Ti son venuta nel sogno ché tu mi ricordi da sveglio.
Invano mi lavi e sfreghi, invano da dentro e fuori,
Vane lisciva e striglia, è questo il mio destino:
Sono la terra tombale di Torquato presso la quercia,
Egli colpito al fianco fu da spada lucente
E sprofondò ferito nel fosso sotto la quercia,
Dove nessuno udì il suo pianto e lamento.
Quattro giorni e notti lottò per rendere l’anima sua
Poi la morte amara il fango lo rese amaro
Siero e latte e acqua se in me sono versate
Prendono un gusto amaro segno della morte di Torquato
Rompimi quindi domani e i miei cocci sotterra
Sotto la quercia che sai rendimi al suolo amaro.

LXXXVII
Questa, viandante, tomba Lema Gudžević copre
Ella dei Mušić fu, giovane sposa a Grab.
Quattro i figli avuti e fu madre ai tre del marito
Nessun figliastro ferì mai con dura parola,
Mai la voce alzò contro qualcosa e qualcuno
Mai “al diavolo” disse, “che ti pigli un fulmine” mai,
(Il peggio che diceva “ragazzi romanacci”, fu
Tutta la gente cattiva roma la chiamava lei)
Tutta la vita pregò per giorno e notte ad Allah
Ogni Ramadan digiunò con tutta l’anima sua.
Sette giorni lottando per rendere l’anima sua
perdonava a ognuno i peccati e cercava il perdono da tutti
Ella il pesce nell’acqua perdonò e l’uccello sul monte
Sappi che più di ciò il Sacro Corano non chiede.

LXXXVIII
Una doveva cadere di Remo e Romolo testa:
Li ha allattati la lupa, l’indole loro fu lupo.

LXXXIX
Uno lasciava in fretta la prima del dramma di Pino
Dopo avere appena sopportatone il primo atto.
Ma l’usciere s’alzò dicendogli brusco così:
"Niente pelliccia e scialle finché non sarà finito!"
Anche se era febbraio, e i prezzi son sempre salati,
Lo spettatore in fuga all’usciere gridò:
"Vado a casa scoperto, al diavolo scialle e pelliccia,
Restino pure da voi, la vita vale di più!"

XC
Ora c’è guerra e ora spariscono tutti i colori:
Gli scuri diventano neri, i chiari diventano bianchi.
Gli uomini sembrano tutti scatole chiuse di scacchi:
Nere e bianche da fuori, come i pezzi di dentro.

XCII
Tempo per nulla non ho, e di denaro sono a corto.
Fosse il mio tempo denaro sarei mendicante da tempo.

XCIII
Stormi enormi di storni disperdono sterco su Roma,
Il Vaticano immerdato, alberi molti e tetti.
Ciò che ovunque risuona da dischi e altoparlanti,
È del grifone la voce, terrore di tutti gli storni.
Capita questo a Roma: la merda cade dal cielo,
E l’uccello romano alla merda grida dal suolo.

XCIV
Un deputato grassone cavalcando si ruppe un braccio.
Direbbe Democrito qui: “Il bene gli ha portato male.”

XCV
Waiblinger Wilhelm mi chiamo e giaccio in questo sepolcro,
Morto giovan poeta, venticinque anni soltanto.
Ottimi i miei vicini: osserva, ecco lì Shelley,
Il figlio di Goethe sta qui, più avanti, vedi sta Keats.
Wolfgang Goethe di certo i versi con me non baratterebbe,
Ma di partenza per l’Ade i posti certo che sì.

XCVI
“ Come si chiama tuo padre?” alla mula chiese qualcuno.
“Figlia son della cavalla” fu la risposta sua.

XCVII
“Chi è costui, perbacco?” qualcuno chiede di Marco.
Un altro risponde: “è il marito della moglie di Marco”.

XCVIII

Alija, sappi che mai, al tavolo della nostra taverna
Mai più potremo bere e insieme cantare,
Senza che serbi, croati, bosniaci, montenegrini, albanesi,
Avvelenino il calice nostro, rendendoci muti e cupi.
Sulle canzoni adesso si stendono stermini e massacri,
Ciò che paventavamo, ora ci fa compagnia.
Sia dannato colui che questo silenzio ci diede,
Tutta la politica alta, tutti i giochi di forze,
Franjo e Slobo dannati e Milan e Momir e Kiro,
Sia dannato con essi anche Alija, omonimo tuo.

XCIX
Questa lapide strana sull’Appia o viandante
Me la eresse marito Marco Lucilio Crasso.
Giaccio Cecilia, figlia del guerriero Metello,
A quarantotto anni fui portata da Ermes all’Orco.
Fui matrona romana: sapevo godere la vita,
ma anche lavorar, sul telaio e la conocchia.
Io da altre matrone non ero diversa per nulla,
Centinaia, migliaia allora c’erano a Roma come me.
L’immortalità la danno conquiste, libri o guerre:
Me immortale mi rese questa lapide strana.

C
Calcoli, reuma, artrite li ereditai da madre
Sonno inquieto e lieve da parte paterna mi viene,
Sudore notturno, prurito li presi dal nonno materno,
L’indole a pianto e uggia dono della nonna materna,
Flemma, facondia, fiacca dalla nonna paterna,
il digrignare notturno traccia del nonno paterno.
Se a tutto aggiungi anche i miei propri tributi
Due prolassi dorsali, ulcera, vitiligine e pressione
Forse infine avrai un’idea più chiara di quale
Misero essere vuole burlarsi di Roma in versi.

CII
Quanti son pazzi a Roma! (qui è folle il solitario
Che se ne va per la città e tra i baffi monologa.)
Sembrano pazzi anche a me, ma come definire me stesso
Che cammino per la città sillabando questo che leggi?

CIII
Dove il tram sferaglia e passa per Porta Maggiore
Vedi la tomba di Marco Virgilio, panettiere romano.
Fu d’origine schiavo: il nome Eurisacco greco,
Ma per il suo mestier diventò un vero romano.
Anche se tutta la vita la spese tra farina e mica,
I denti del tempo non hano salvatogli un granello di polvere.
All’uno Virgilio la fama portarono l’esametro e il rotolo,
All’altro invece la fama gli diedero media e forno.

CV
Donne di locali notturni son peperoni al mercato:
Morbidi costan di meno quelli più sodi di più.