LUPI, UOMINI, MANNARI
Prosa
Personaggi
UN TURISTA
Di notte in una città sul mare: Alghero.
Scritto nella prima metà degli anni ‘90
Note per la regia
1. La scena non prevede speciali accorgimenti tecnici, ma un sapiente gioco di luci, una sedia, un tavolino da bar.
2. Sulla musica di Freak, la canzone di Samuele Bersani che fa «Ciao ciao belle tettine…», entra UN TURISTA, si guarda intorno e poi inizia raccontare.
3. Mentre dirà ciò che fa, si accomoderà sulla sedia che prima era al buio, così come guarderà il tavolino quando lo vedrà illuminato. Ma non ci saranno né le sedie né le persone intorno, allora UN TURISTA aggiungerà lui la sua sedia, e la muoverà secondo un senso antiorario ogni volta che inizierà il racconto di uno dei tre inesistenti bevitori.
4. Ogni volta che UN TURISTA ritornerà se stesso, in sottofondo passeranno stralci di canzoni di Samuele Bersani: “Frak”, “Chicco e Spillo”, “Il mostro”.
5. UN TURISTA, quando diviene uno dei tre narratori di storie di prubunarus, narrerà seguendo un ritmo che sia riconoscibile come diverso dal precedente, oltre che “costruendo” di volta in volta “una voce” nuova.
6. Altri elementi “presenti” e non “evocati”, potrebbero essere la birra e le sigarette, UN TURISTA potrebbe davvero bere e davvero fumare.
7. In chiusura UN TURISTA potrebbe cantare in diretta su una base oppure sparire nel buio mentre una voce femminile canta la canzone di Dracula.
Sulla spiaggia, sotto la luna I
Non credo a certe cose, non ci’ho mai creduto. Però, l’altra notte, per una serie di circostanze che non starò a spiegarvi, ero fuori casa e non potevo rientrare in albergo prima di una certa ora, prima della mezzanotte, cioè.
Era una notte stupenda, serena, senza nuvole, con un cielo pieno di stelle e una luna bianca, tonda e piena che sembrava di poterla toccare con un dito.
L’ho già detto, non ero a casa mia, voglio dire che non ero nella mia città, e non potevo rientrare in albergo prima di mezzanotte perché… Non posso dirlo il perché, non sono autorizzato. Vi basti sapere che non ero il solo inquilino della stessa stanza d’albergo e che, fino a dopo la mezzanotte non mi era consentito rientrare.
Bene, la notte era bellissima, non sapevo cosa fare e mi fermai a bere una birra in un bar vicino alla spiaggia. Le onde lambivano il bagnasciuga ripetendo in continuazione lo stesso rumore. Decisi di sedermi sulla terrazza di fronte al mare. Dopo tutto, mancava più di un’ora alla mezzanotte.
Ordinai una birra grande e mi accomodai. Che bel posto, pensai. Ma non ero solo, accanto a me, a non più di mezzo metro, c’erano tre uomini che discutevano animatamente. Uno calvo e barbuto, un altro con un incredibile cespuglio di capelli neri e sopracciglia foltissime e un terzo biondo e più anziano. Discutevano senza curarsi della presenza mia e di una coppietta appartata nel punto più buio della terrazza. Esisteva soltanto il loro contenzioso.
Pensai che con un po’ di fantasia e l’aiuto della birra sarei certamente riuscito ad ignorarli, e fu allora, proprio mentre mandavo giù il primo sorso, che, con un mugugno da cinghiale ferito, il sopraccigliuto del trio mi disse:
— Lei crede ai lupi mannari?
— Prego?!?
— Ai lupi mannari, lei crede ai lupi mannari?
— Non saprei.
— Non pensa che in una notte come questa, con questa stupenda luna piena — intervenne serafico il biondo, — anche il più timido dei licantropi uscirebbe di casa per andare a caccia?
Non risposi. Il barbuto si infilò sul naso gli occhiali che teneva appesi al collo e mi studiò, prima di parlare.
— Lei non crede ai lupi mannari — poi disse. — E fa molto male, perché esistono, io ne ho anche conosciuto uno.
— Davvero?
— Venga, metta la sua sedia accanto alla nostra — mi invitò il biondo facendomi posto.
Mi schernii, ma sapendo di quanto i sardi siano insieme generosi e suscettibili, per non rischiare di offenderli accettai. Quello dal muso cinghialesco e le sopracciglia indiavolate ordinò un altro giro di birra e il calvo cominciò a parlare dopo il primo sorso.
— Non so se i lupi mannari, o il prubunaru, come diciamo noi in dialetto, esistano veramente, ma ciò che posso giurare con assoluta certezza, è che uno lo conobbi personalmente.
L’Angelo del diavolo
Joan Silanus era noto a tutti come l’Angelo del diavolo. Era un falegname di prima categoria. Un uomo capace di ricavare un letto o un tavolo da quattro assi di legno marcio. E noi ragazzi lo apprezzavamo tutti. Sapeva bene come guadagnarsi la nostra stima “Joan Àngel del Dimoni”. Costruiva le trottole più sensazionali del paese. Certo, le sue avevano le stesse dimensioni delle altre, però, tra le sue mani, quegli scarti di legno non più grandi di un pugno, divenivano trottole perfette. Il chiodo penetrava nel legno senza provocare nessun tipo d’incrinatura e lo spago si avvolgeva intorno alle scanalature senza creare scompensi. Era impossibile batterle, le trottole nuove di Joan Silanus.
Avevano un solo difetto. Essendo tanto perfette, invecchiavano prima, si scheggiavano più facilmente. Ma Joan aveva sempre un sorriso per noi ragazzi, ci diceva di aspettare un momento, il tempo necessario per ultimare il lavoro che aveva tra le mani, e subito era pronto a prepararne un’altra, delle sue trottole sensazionali.
Joan, sebbene avesse già passato la quarantina, avesse un lavoro e casa di proprietà, non era sposato, e nemmeno aveva collaboratori sul lavoro.
Nessuno di noi ragazzi riusciva a spiegarselo, quel mistero, e il giorno che decisi di chiedere al babbo che pregasse Joan di prendermi a bottega, il babbo me le diede di santa ragione. Così, senza motivo. E quando, quasi in lacrime (che già avevo i miei dodici anni e non potevo piangere come un bambino), andai a chiedere spiegazioni alla mamma, lei mi apostrofò con uno scappellotto.
Allora, con la scusa di un’altra trottola, andai a parlare direttamente con Joan il falegname, che mi disse:
— Chiedi a tuo padre, se ti lascia venire!
Sconsolato mi ritrovai a parlarne con Nino, il mio amico. E quello, guardandomi con aria di meraviglia, cominciò un discorso complicatissimo; chissà, forse perché si era convinto di dover proseguire gli studi in seminario, oppure perché non sapeva come spiegarmi una cosa che nemmeno lui capiva proprio bene.
— Joan ha il segreto — disse a un certo punto.
— Ha un segreto, e allora? — risposi io.
— No, Joan ha “il segreto”. Lui è un cane! — disse finalmente.
— Ma come fai a dirlo, se è la persona migliore che ci sia ad Alghero? — risposi stupito e offeso. Ma il mio amico, guardandomi con pazienza, continuò:
— Non capisci! Joan è veramente un cane. È un “Prubunaru”, un lupo mannaro, per questo lo chiamano L’Angelo del diavolo, perché‚ è buono come un angelo, ma quando lo prende la malattia diventa cattivo come il diavolo.
Mi sembrò di cadere dalle nuvole. Joan aveva “il segreto” e io ero l’unico a non saperne nulla. Cominciai a guardare gli altri con sospetto. Com’era possibile, che pur sapendo, fingessero tanta indifferenza. Oppure, solo Nino e i miei genitori erano a conoscenza del “segreto” di Joan? Non riuscivo ad accettarla, tutta quella serena ipocrisia.
Ogni notte lo sognavo, Joan. Intrecciavo i tanti racconti sull’uomo lupo ascoltati mille volte dai nonni e dai parenti nei dopo cena accanto al fuoco. Immaginavo il falegname trasformarsi in cane e correre per le strade a capo d’un branco di bestie rabbiose.
Durante il giorno evitavo di passarci, accanto alla bottega, e una volta che me lo trovai di fronte con una trottola nuova tra le mani, fuggii gridandogli: «Passa via! Passa via!», e chinandomi per tirargli un sasso, come mi dicevano sempre di fare con i cani.
Quella notte non potei dormire in nessun modo. Dentro di me non accettavo che il mio amico falegname fosse un “prubunaru”, come diciamo in algherese, o un “uomo lupo”, come si vede nei film, o più correttamente un “licantropo”, come è scritto nei libri. Dovevo vederci chiaro. Dovevo farmi coraggio e verificare se Joan avesse davvero “il segreto” e si trasformasse in mezzo uomo e mezzo cane durante le notti di luna piena. E poi, non ne potevo più di andare con le tasche piene di pezzetti di legno per farne croci improvvisate e spille da balia per pungerlo, perché perdesse il sangue cattivo.
Aspettai la prima notte di luna piena e, senza che né il babbo né la mamma mi vedessero, uscii con in tasca un rosario e un chiodo lungo un palmo, e mi appostai dietro l’angolo di casa di Joan.
Le ore passavano e non accadeva niente di strano, tanto che, se non fosse stato per il freddo che faceva, ci avrei potuto dormire, là per strada. Niente di strano fino ai rintocchi delle due, quando si levarono degli ululati paurosi. Urla terribili, né di bestia né d’uomo. Subito dopo, sette od otto cani arrivarono per disporsi sotto la finestra di Joan. E tutti, cani e no, presero ad abbaiare. Ancora mi si accappona la pelle.
L’avevo fatta grossa. Adesso Joan, l’Angelo del diavolo, il lupo mannaro, avrebbe disceso le scale, avrebbe aperto la porta e insieme ai cani mi avrebbe sbranato, e non mi sarebbero serviti a niente né chiodi né rosari.
La paura mi paralizzava.
«Bau! Grrrr! Uau-uau!»
Scale discese in fretta.
«Crash! Tum!»
Un portone appena chiuso. E io là, nelle mani del diavolo.
Un’ombra enorme e curva veniva a prendermi. Tra sudore e lacrime lo vedevo sempre più vicino. Era un uomo, era un cane. La luce della luna gli sbiancava i denti.
— Joan, sei angelo o diavolo? Perché‚ io sono sempre io! — gli dissi con la voce che mi usciva più dal ventre che dalla bocca.
E Joan, il falegname più esperto di Alghero, mi guardava con certi occhi da bambino e la bocca sfigurata dal dolore che lo prendeva alla schiena.
— Uau-iua-ta-miiaa! — guaì e abbaiò Joan attorniato dai cani. E io, con la forza della disperazione, fuggii pregando alla Madonna.
Però, adesso che il tempo è trascorso e l’Angelo del diavolo riposa in una fossa, ancora li rivedo quegli occhi di bambino, e quel grido, sempre più, diventa un’invocazione:
— Aiutami!
Sulla spiaggia, sotto la luna II
Il calvo e barbuto finì il suo racconto nel bicchiere di birra. Ci fu una pausa silenziosa e muso di cinghiale lo irrise:
— Ma che uomo-cane d’Egitto era il tuo, era un banale malato di licantropia. Un caso da pronto soccorso. Non c’è nulla di soprannaturale nella tua storia.
Il calvo non reagì, si limitò ad ordinare dell’altra birra. Le sopracciglia di muso di cinghiale mi interrogarono inquiete:
— Che cosa ne pensa lei. Anzi, diamoci del tu. Che cosa ne pensi, era uno dei nostri prubunarus o un semplice licantropo. Avanti, parla?
— Non saprei, non ho mai badato troppo alle storie degli uomini lupo, credevo che si trattasse d’una invenzione del teatro popolare dell’Ottocento inglese.
— Teoria interessante — intervenne il biondo.
— L’ho letto da qualche parte, non ho mai fatto ricerche in proposito — dissi ancora intimidito.
— Quindi non sa niente del prubunaru algherese? — continuò il biondo.
— No — confessai, — non ne so nulla.
— Da cui deduco che lei non è di qui, e forse nemmeno sardo?
— No, sono di Verona.
— Adesso capisco perché non ne sa nulla di uomini e donne che di notte si trasformano in bestie. La Sardegna è piena di animali banalissimi come mosche, mucche, gatti, asini che, di volta in volta sono streghe, guardiane malefiche, succhia sangue, portavoce del demonio. Ma tutte queste bestie, da noi, in questo paese sulla riva del mare, non ci sono: noi sardi di Alghero siamo diversi, siamo discendenti d’una medievale colonia catalana e ne abbiamo conservato tradizioni, costumi e…
— Leggende? — dissi io.
— No, leggende no, la lingua, abbiamo conservato la lingua.
— Per cui, deduco, prubunaru è una parola catalana?
— No!
Mi sentivo completamente fuori posto, non capivo se il biondo mi prendesse in giro oppure no, mentre gli altri due osservavano e bevevano birra in silenzio.
— Non voglio annoiarla con la storia della Catalogna, mi disse, sappia che nel Settecento la dominazione catalana finì, ma non il ricordo della sua lingua, così, quando nell’Ottocento ai pescatori siciliani fu concesso di venire a pescare nelle nostre acque, molti di loro si stabilirono qui, e pagarono il dazio linguistico della gente delle strade.
— Impararono il vostro dialetto per farsi accettare, non è così? — dissi io.
— Sì, è così, ma non lo chiami dialetto, lo chiami idioma, o parlata, se non se la sente di chiamarlo lingua.
— Mi scusi…
— Basta chiacchiere noiose — intervenne “il cinghiale”. Il nome prubunaru venga da dove gli pare, a me non importa, ciò che so con certezza, è che esiste.
— Come fai a dirlo? — gli chiese il calvo sornione.
— Perché mio padre non mentiva e quando ero piccolo mi raccontava sempre un fatto che era accaduto nella sua strada quando era ancora un ragazzo.
La moglie del prubunaru
A voi potranno sembrare cose da nulla, fantasie di gente strana, invece, quelli del prubunaru, sono storie molto serie. Cose che sono veramente accadute. Forse dipendeva dall’epoca, oppure dalla luna che una volta era più grande e più bianca, oppure dal DDT che non c’era e per questo avevamo la malaria; comunque sia, prima, Alghero era frequentata dai lupi mannari, ogni quartiere, ogni strada aveva il suo.
Per questo, i ragazzi non uscivano mai dopo l’imbrunire, e le ragazze non uscivano mai e basta. La gente non si fidava: perché se incontravi il prubunaru senza un chiodo in tasca, o lontano da una chiesa, o lontano da una strada in cui s’incrociassero quattro cantonate i lupi mannari ti saltavano addosso e “addio sogni di gloria”.
A parte questo, per chi non usciva la sera, non si allontanava troppo dalla chiesa e non andava mai nelle bettole, grossi pericoli, da parte del prubunaru, cioè l’uomo lupo, non ce n’erano, perché il prubunaru, durante il giorno, è una persona serissima, normale, perfino buona e educata. Qualche prubunaru riusciva (e riesce, perché ancora oggi qualcuno ce n’è) addirittura a sposarsi. E le povere mogli, come facevano con un marito cane?
Come tutte le mogli di Alghero, perché il marito, cane lo può diventare soltanto una notte al mese, e nemmeno tutti i mesi, dato che certe brutte notti le nuvole coprono la luna. Già, perché il prubunaru, come tutti i lupi mannari, esce solamente se c’è la luna piena grane e bella su nel cielo, altrimenti se ne rimane in casa, coricato nel suo letto come ogni buon cristiano.
Sia come sia, la storia che io so, e che è vera perché, anche se ero molto piccolo, ho ancora una buona memoria, è la storia di Zia Joana la Rasposa come dire: Giovanna la Ruvida.
Bene, questa era una bella donna, bella, alta, occhi chiari, due gambe come due querce e un seno come una cesta colma, una bella donna. Nella sua strada, non c’era nessuno che non desiderasse diventare il suo ragazzo. Tutti tranne Bàquis lo Topu, come dire Bachisio lo zoppo. Un bell’uomo, ricco perché pieno di campagne e selvatico con la gente per via del ginocchio che non poteva più piegare.
Non c’è bisogno che vi dica come sono le donne quando si fissano con una cosa, e la Rasposa, martella oggi, martella domani, Bàquis lo Topu, ricco contadino, se lo sposò in pompa magna.
Tutto funzionava bene, nella coppia, anche perché s’erano maritati d’inverno e le lune erano sempre piuttosto coperte. Però, nel mese di febbraio, durante le feste per il carnevale, al signor Bàquis, che dormiva in campagna, la luna piena gli provocò la trasformazione; e tutti nella strada lo videro. Bàquis, raschiava alla porta di casa come un cane e la povera Joana. Fino alla terza raspata d’unghie sul legno non lo fece entrare.
Bene, questa storia della luna piena durò tutto il periodo in cui Bàquis dormì in campagna, che, come si sa, sui campi la luna è più chiara e più forte e non lascia dormire.
Dunque, per chi non l’avesse capito, la magia del numero tre sconfigge il lupo che è nell’uomo, e tutte le mogli d’un marito prubunaru sanno perfettamente che non debbono aprire la porta né alla prima, né alla seconda, ma alla terza, perché con il numero tre la rabbia del cane passa e ritornano uomini normali. E così aveva fatto durante i mesi di febbraio, marzo, aprile e maggio la bella Joana la Rasposa. Quando il marito ritornava di notte dalla campagna rabbioso come un prubunaru — che, poveretto, sembrava davvero un altro, perché quando era trasformato in cane correva a quattro zampe con tutti e due i ginocchi improvvisamente sani —, Joana gli apriva la porta sempre alla terza volta, e lui entrava in casa dritto come un fuso, si metteva nel letto con la moglie e, al mattino all’alba se ne ritornava in campagna.
Così fino a luglio, quando Bàquis volle che sua moglie dormisse anche lei in campagna. Passò un giorno e non accadde nulla, passarono tre giorni e ancora niente, finché arrivò la luna piena e Bàquis l’avvisò:
— Non aprire la porta per nessuna ragione fino alla terza volta.
Però, sarà stata l’aria della campagna, sarà stato il sonno, Joana si fidò e aprì al secondo tentativo del lupo, e Bàquis lo prubunaru la fece a pezzetti.
Sulla spiaggia, sotto la luna III
Mi tornarono alla mente echi pirandelliani, quel racconto, effettivamente aveva un non so ché di siciliano e al contempo di sardo. Forse nelle modalità così popolari del racconto, ma le parole del “cinghiale” emanavano profumo di cisto e di mirto.
— Non ho conosciuto tuo padre, ma dubito che questa storia sia reale — disse il calvo.
— Non è vero, potrei indicarti i nomi dei nipoti di Bàquis e Joana.
— Ma come — insisté il calvo e barbuto, — non era morta, Giovanna la Ruvida?
— Sicuro, ma Bàquis si risposò, ed ebbe molti figli.
— E con la licantropia come la mise?
— La sua seconda moglie stava più attenta, tutto qui.
Il dialogo fra i due amici bevitori di birra, si capiva che era ozioso e inconcludente, chissà quante notti se l’erano ripetuto, lo scherzo dell’incredulo e cinico che fa perdere le staffe al credulone. Ne approfittai per chiedere qualche chiarimento al biondo, che mi suggerì tre o quattro titoli di libri che ho dimenticato e mi assicurò che quella storia dei pescatori siciliani che si algheresizzavano imparando il catalano era vera, e che in qualche dialetto siculo il lupo mannaro si chiama “lupucumunariu”, “lupuminaru”, “lupunaru”, “lupupunaru” e da lì, pronunciato all’algherese con l’articolo determinativo maschile che suona “lu”: “lupupunaru”, “lu prubunaru”, il passo è breve.
Gli dissi che mi convinceva abbastanza, però, gli insinuai se non pensasse che magari non erano stati i pescatori siciliano a narrare in catalano, ma gli algheresi stessi, probabilmente gli stessi colleghi pescatori, che ascoltavano quelle storie in siculo italiano e poi le giravano, digerivano in catalano di Alghero.
Non mi rispose, fece finta di non avermi sentito e si rivolse direttamente ai suoi tre amici che ancora giocavano ad offendersi come due ragazzi.
— Le vostre non sono vere storie di uomini lupo, o uomini cane, non sono prubunarus, i vostri.
— Come no, — gli dissero, — ha parlato quello studiato, che si è laureato in chimica durante i bombardamenti della seconda guerra mondiale.
— Che male c’è, a leggere qualche libro ogni tanto? Dico bene? – mi chiese.
Gli sorrisi accondiscendente.
— Se vuole sentire…
— Non ci davamo del tu? — lo interruppi.
— Se vuoi sentire una vera storia di prubunarus — mi disse di nuovo a suo agio, — la mia sì che ti farà accapponare la pelle. Ehi, dico anche a voi! — urlò agli altri.
— Sono pronto ad ascoltare — gli dissi.
Il lupo dell’orto
Non era così prima. Di fatto non erano così i vecchi tempi, ma era molto, molto peggio.
C’era la povertà diffusa; la gente non mangiava carne ogni giorno, e i bambini non avevano il latte fresco tutte le mattine. I vecchi, poi, non godevano mica la pensione! Chi non poteva più lavorare, peggio per lui: se ne aveva messo da parte si divertiva e altrimenti: dimenticato in un angolino il più vicino possibile accanto al cimitero. Per non parlare delle donne; per carità, che non potevano né parlare né votare né decidere su niente di niente, nemmeno nella propria casa.
E come se non bastasse, c’era la malaria e ogni giorno un amico o un parente era a letto con le febbri, e d’estate, oltre all’acuirsi degli effetti della malattia, arrivava anche il colera, ed era fortunato quel bambino che superava ferragosto; che con i caldi tutti i virus più cattivi divenivano fortissimi e trascinavano alla tomba vecchi e bambini a carrettate.
Inoltre, la scuola non era realmente obbligatoria e quasi non ci andava nessuno e, per questo, tutti i mali che si abbattevano sulla povera gente i poveri li accettavano come disgrazie inevitabili. Per cui, invece di non mangiare le cozze crude, le benedicevano, e quando qualcuno veniva sopraffatto dalle febbri, al posto del chinino, pregavano San Giuseppe, o qualsiasi altro santo.
Ciò che voglio dire, è che se non c’era alcun rispetto per i bambini, i vecchi e le donne, era giustificato dall’ignoranza e dalla certezza della morte, senza comprendere che era la prima cosa a portare la seconda.
La metà delle donne moriva di parto, i lavoratori morivano prima dei cinquant’anni di malattia o di disgrazia e i bambini morivano alla nascita o prima che potessero compiere tre anni e, fino ai dieci, avevano poche probabilità di diventare adulti.
Non era così prima, e per fortuna, che i vecchi tempi erano un tempo d’orrori. Tutto perché la gente non poteva apprendere né a leggere né a scrivere e considerava i topi della peste animali di Dio e le zanzare della malaria mosche rumorose.
Così, per queste, e altre ragioni che qui tralascio perché ci porterebbero in politica, voglio parlare d’un bambino e d’un prubunaru.
Il bambino aveva appena nove anni. Si chiamava Gabriel e la famiglia l’aveva ritirato dalla frequenza scolastica alla terza volta che avrebbe dovuto ripetere la prima elementare. I suoi maestri dicevano che era un buono a nulla, che tirava malissimo le aste, che parlava soltanto in catalano e che, soprattutto, non c’era modo di farlo scrivere con la mano destra: Gabriel insisteva a voler scrivere utilizzando la mano sinistra, la mano del demonio, e questo non avrebbe potuto permetterlo nemmeno il Ministro in persona.
L’altro, il prubunaru, l’uomo cane, il licantropo, si chiamava Miquel Ullgros, Michele Occhiogrosso, era ortolano e nessuno era a conoscenza del suo segreto; nemmeno lui, probabilmente, sapeva ancora di essere un prubunaru.
Bene, il racconto inizia quando la famiglia di Gabriel, che, ripeto, aveva soltanto nove anni, decise di metterlo da apprendista, e dato che era (fisicamente) troppo piccolo per fare il manovale muratore, il falegname non l’aveva voluto per via della statura e imbarcato su un peschereccio non l’avevano accettato perché troppo gracile, l’avevano affidato alle cure di Miquel Ullgros, l’ortolano, che se l’era preso per fare compagnia al cane, più che altro.
Sì, signori, come Pinocchio, Gabriel, bambino dalla corporatura gracile, durante le notti d’estate faceva la guardia all’orto al posto del cane che sonnecchiava.
All’inizio, poverino, Gabriel era contento, nell’orto di Miquel Ullgros; un po’ per la novità, un po’ perché non c’erano né il padre né la madre a dargliele in continuazione con la cinghia o con la pompa, ma, soprattutto, era felice perché giocava con il cane. Osservava l’ortolano zappare e innaffiare e giocava con il cane. Di notte, con quella bell’aria di primavera, dormiva come un angioletto. Una meraviglia, dunque. Fino alla prima luna piena di maggio.
Quella notte sembrava che avessero acceso lampioni in cielo. Le luci delle stelle erano da processione di Venerdì Santo. E la luna brillava quanto dieci ceri sull’altare maggiore. L’orto sembrava illuminato a giorno e le foglie delle patate riflettevano luccichii argentati.
Gabriel, povero bambino, accovacciato in un giaciglio sotto la tettoia di canne, avrebbe scritto una poesia, se fosse stato capace a reggere la penna con la destra. Improvvisamente, un urlo così infernale da riuscire a risvegliare i morti dalle loro tombe.
Che cosa poteva essere, quell’urlo? Gabriel, nove anni compiuti a febbraio, morto dalla paura si mise sotto la coperta stringendo gli occhi fino a farsi male. Di qualsiasi cosa si trattasse, lui non voleva sapere. Il cane, inferocito come non mai, abbaiava e ringhiava contro quella presenza che urlava come un animale ma che animale non era.
Boh! Anche se tutto quello non era durato che pochi minuti, Gabriel non riuscì a dormire per tutto il resto della notte, e al mattino aveva timore a chiedere di che cosa si fosse trattato, e babai Miquel Ullgros, al contrario, sembrava bello, fresco e riposato come mai prima di allora.
Il primo giorno che poté rientrare a casa dai suoi, il bambino cercò di parlarne, ma ciò che ottenne fu uno schiaffane dal padre e una sonora presa in giro da parte dei fratelli più grandi. Ma Gabriel sapeva che, per calmare un prubunaru, è necessario fargli andare via il sangue cattivo. E lui, per non sbagliare, si procurò un trincetto da calzolaio per pelli dure.
Passarono i giorni e Gabriel non era più allegro. Babai Miquel Ullgros aveva sempre uno sguardo e un sorriso che il bambino non capiva. Che cosa potevano significare? «Aspetta che ti mangio?» «Stai tranquillo che ti proteggerò io dal prubunaru?»
Gabriel non capiva e non era contento, ma se ne parlava in casa erano schiaffi e risate. Perché lui non aveva imparato né a leggere né a scrivere, era di taglia piccola e fortuna che l’avevano preso all’orto, che altrimenti sarebbe stato destinato alla disoccupazione a vita.
Quando arrivò la luna piena di giugno, Gabriele era sveglio più che mai, e non per guardare le stelle e le foglie dei pomodori e delle patate, ma per stare attento che non ritornasse ancora quel mostro, bestia, fantasma o prubunaru che fosse.
Nemmeno il cane era calmo, anche lui, vuoi per i nervi tesi del bambino vuoi perché sì, sentiva che le cose non andavano per il verso giusto. Di fatto, poco dopo la mezzanotte: ancora quell’urlo orribile. A Gabriel ritornò l’istinto di nascondere la testa, ma si fece forza, doveva scoprire chi era il suo nemico, e poi c’era il cane a difenderlo e aveva un trincetto affilato tra le mani. Eccolo! Com’era brutto, né uomo né bestia, con la bava alla bocca. Difenditi, Gabriel, che è venuto per te! E Gabriel, nove anni compiuti a febbraio, colpì col trincetto con furia cieca e il cane abbaiò e morse come un dannato. Basta, era tutto finito. La bestia era fuggita.
Al mattino, Gabriel, corse nella casetta in cui dormiva l’ortolano Miquel Ullgros. Ma Gabriel non aprì bocca, perché babai Miquel aveva le mani e le braccia ferite dal trincetto. Gabriel fuggì e corse verso casa a piedi, anche se quello non era il suo giorno di libertà. Il padre e la madre lo riportarono all’orto a calci e a pugni, chiamandolo sfaticato e bugiardo.
Poi arrivò la luna piena di luglio. Ma quella Gabriel non la vide. Miquel Ullgros disse che la povera creatura se l’era portata via la malaria, e lui stesso, anima pia, l’aveva seppellito nell’orto, accanto al cane morto di crepacuore.
Non era così, prima, erano molto peggio i vecchi tempi. Molto peggio.
Sulla spiaggia, sotto la luna IV
Già alle ultime parole del biondo avevo tenuto gli occhi chiusi, per non vederlo e per non sentire troppo stonati la bellezza del mare di notte illuminato dalla luna algherese e il significato di quelle parole terribili e poi, perché non dirlo, per vincere una lacrima che voleva sgorgare malgrado io sia un uomo adulto.
Quando li riaprii, quei tre non c’erano più, se n’erano andati lasciando sul tavolo un paio di biglietti da diecimila e tre boccali da birra completamente prosciugati.
Mi alzai in fretta e quasi scappai da quel bar sulla spiaggia. Il ragazzo dietro il bancone, pallidissimo, mi salutò: «arrivederci!».
Era da poco passata la mezzanotte e corsi verso il mio albergo. Era tardi, anche se non avevo creduto a nemmeno una parola di tutte quelle storie di uomini cane o prubunarus, come li chiamavano loro.
Affrettai il passo e fui subito in albergo, nella hall il portiere di notte mi disse che il mio compagno di stanza era già andato via e mi lasciava detto di non aspettarlo.
Salii in camera e mi misi a letto, la sua bara era ancora calda.
La canzone di Dracula
Tu, bianca di luna,
mi prendi sulla sabbia
e tra le onde del mare,
mentre Dracula
discende
lentamente
le scale.
Ti ho ceduto l’anima,
da quando il sole di notte
non mi fa più sognare
e intanto Dracula
discende
lentamente
le scale.
Dracula
discende
lentamente
le scale.
Dracula
discende
lentamente
le scale.
Non ho niente da dire,
non ho nulla da dare,
vorrei soltanto fare fare
quando Dracula
discende
lentamente
le scale.
Tu, bianca di luna,
sporca di alghe e di sale
mi vorresti fermare,
ma sono Dracula
discendo
lentamente
le scale.
Dracula…
discendo
lentamente
le scale.
Dracula…
discendo
lentamente
le scale.