Delirium
Puesia
Spezzato,
incupito,
avvelenato,
resisto, spargo luce,
miele scorre dalle mie sorgenti.
Spezzato nel punto più debole,
il restare da soli
che non danneggia nessuno,
ma per me è la fine
dai dolori
che colano dolcezza
di sangue pigiato
in solitudine.
Oh, è geniale questa condizione, mentre capisco che ho perduto tutto, sento l’infinita felicità, dell’avere in mano
Il mio essere,
quello,
che non ha potuto donarmi
né lode, né corona.
Lode! Che cos’è questa parola?
Da dove mi è giunta, come è venuta fuori?
Un’invenzione!
(Sicuramente questa ambizione scarsa,
innaturale).
Gira che ti rigira, torna alla natura:
resisto, voglio giudicare, di nuovo mi ritraggo.
Tanto bello e al tempo stesso mortale, l’uomo.
Con tanto cuore e ancora solitario
Tanta forza ma anche tanto sospetto…
Oh, senza posa
il turbine inerte assume rilievo allontanandosi.
Ogni assoluto diviene d’un tratto relativo.
Soltanto la bellezza, essa soltanto, ha il diritto
di avanzare pretese?
Perché andate via da me creature reali?
In una traduzione passabile l’oggi
è mutato in ieri,
tanto in fretta da non riuscire a concepirlo
(c’è forse vita senza concepimento?)
I desideri hanno fame di domani
che non è più mio.
Perché andate via da me creature reali,
vivo una vita di oggetti sempre inesistenti
e solamente me stesso ho in mano…
Oh, non c’è felicità come questa,
ma nemmeno amarezza come questa può esserci.