Icaro
Puesia
Il padre ti insegnò a far le ali.
Per questo e perché fuggisti dal labirinto
le accettasti come una buona cosa.
Era bella, la terra dall'alto, con la ginestra fiorita.
Al tuo fianco le nuvole, sfilacciate come la lana di un gomitolo
con cui hanno giocato i gatti degli angeli.
Ed una fonte cantava: si vedeva la sua voce
quando il sole del meriggio le accarezzava l'acqua,
ed il fatto di non udirla, misura e leggerezza del piacere di volare.
Potesti qui riconoscere il quieto orgoglio dell'aquila ed il tuo,
di voler esser da più di lei: libero, l'affanno della caccia ignoto.
(Tassi e scoiattoli guardano indifferenti).
L'aria un sussurro nelle orecchie dei messaggi del nord. Ed intendere
il privilegio che gli dei concedono a quelli, eletti, che sopravvivono.
Salire, salire, salire fin dove i raggi del sole perdono obliquità,
dove non ci son vecchi che piangono né superbia di re deboli come nani
né vaghi funzionari, né domande inutili come dolci di sale.
Ma da un ultimo colpo d'occhio, tuttavia, vedesti il bimbo con il dito in alto.
Fu da allora che cominciasti a cadere. La tenerezza, la pigrizia,
l'abitudine, i panni stesi ad asciugare, un pochino di febbre, la tela da
disegno, che hai fatto oggi a scuola, abbiti un buon giorno, buon appetito, e se
ti fa ridestare un incubo pensa che, accidenti!, sognavi,
tutti i calzini son sporchi, come scotta la zuppa, soffia
ed il gelato accanto perché si raffreddi. Tutte le piume volano.
Pesi. Come noccióla di perfidia la cera generosa s'è disfatta.
Cadi. Mai saprai ciò che volevi sapere. Se il sole
era veramente il sole, se il mare era veramente il mare,
se il cammino verso il cielo tanto lungo e triste come tu temevi.