Le donne di Parride
Prosa
…de alimento, la literatura se transmuta en vicio obsesivo: una forma incurable de addicción…
Juan Goytisolo, En los reinos de taifa, 1986
UNO
10.XI.1985 - martedì, sera
- Ti amo. Giuro! Ti-amo-ti-amo-ti-amo…
Soffoco chiuso dentro la cabina telefonica numero Quattro. Aspetto la linea. Non riesco ad impedirmi di ascoltare le dichiarazioni d'amore di chi mi sta accanto. Ci separa un sottilissimo velo di legno lucido e artificiale.
- Mamma? sì… certo… finalmente… sto bene, sicuro. Voi, piuttosto, come state? - credo di gridare, chi sa se l'innamorato al mio fianco deciderà di origliare anche lui. - No mamma, sto benissimo - queste cabine hanno il soffitto bassissimo, allungo la mano e riesco a poggiarci pienamente il palmo. - Ma sì, ho avuto una fortuna sfacciata. Sì, in un appartamento ammobiliato. Ovvio che costi un po' di più, ma non dovrò dividerlo con nessuno - il contatore ha superato i venti scatti. - Ma certo che mangerò. Un abbraccio. Va tutto bene. Tutto bene. Il preside mi ama, i colleghi mi adorano, gli alunni stravedono per me!
Ho caldo. Nella foga ho perso le ultime battute dell'innamorato. Oltre la finta parete di legno capto una nuova voce; è una donna angosciata, ne sono certo, grida il nome di un uomo: Mario, Mario!
Ho bisogno di aspettare qualche secondo prima di uscire, per staccarmi la camicia dalla pelle. Sono sudato. La donna ripete quel nome tra i singhiozzi. Le pareti interne della cabina sono tatuate di messaggi, nomi, numeri. Volessi lasciarne uno mio, dovrei faticare per trovare due centimetri liberi. Ma non sarebbe necessario, il mio appunto è già stato preso, qui, a sinistra, all'altezza dei miei occhi, a un metro e settanta circa dal pavimento: «martedì alle 19, chiama la mamma».
Fuori della cabina un uomo molto grasso e barbuto mi chiede se ho finito, annuisco con un lieve sorriso. Ma non credo di ispirargli simpatia, perché non ricambia e velocemente infila metà del suo corpo all'interno dello stanzino buio, e con l'altra metà richiama l'attenzione del barista. Agita la mano, sbatte il tacco, mugugna. Finalmente gli danno la linea. Mentre mi allontano la sua enorme schiena prende a confidarsi al telefono.
Il caffè Da Piero è un lunghissimo corridoio per metà adibito a bar e per l'altra a posto telefonico pubblico. Le cabine sono tutte occupate, dietro i vetri, in penombra, scorgo nuche e profili. Non mi guardano, mi voltano le spalle.
Il contrasto di luce con la zona bar è troppo netto. Dietro il bancone uno dei possibili Piero è indaffarato alla macchina del caffè; l'altro, alla cassa, rifà il totale a un giovanotto dai capelli lunghi e il viso pieno di brufoli. È lui l'innamorato. Lo sento.
Mi incontro riflesso in un enorme specchio. Le labbra sorridono. Piero cassiere chiede conferma sul mio numero di cabina. L'altro ha smesso coi caffè e armeggia su una piastra di registrazione. I suoni dell'ultimo successo anglosassone si confondono tra le facce e gli oggetti del bar. Il primo Piero comunica il mio importo. Mentre conteggia il resto mi confida che non ama questa musica.
- Lo facciamo per accontentare i giovani - parla e ammucchia biglietti da mille. - Veda, non è che da casa non possano telefonare, ma qui non devono renderne conto a nessuno, mi capisce?
- Davvero?
Credo di averlo colto di sorpresa. Insisto per fargli capire che non mi dispiacerebbe chiacchierare con lui: - Ero convinto che ai ragazzi interessasse soprattutto la comodità - dico.
- Esattamente, ma provi a pensare a come siamo noi genitori. «Chi era quello», «chi era quell'altro», «alla fine del mese tanto c'è chi paga!»
Conclude inarcando lungamente le sopracciglia. Sulla fronte gli si forma una ragnatela di rughe.
Una donna magra vestita di nero gli chiede il conto in un sussurro. Ordino una birra all'altro Piero. La donna nera esce. Fuori è buio. Bevo. Devo riuscire a sapere se il Piero cassiere sia genitore di qualcuno dei miei alunni. Gli chiedo esplicitamente se ha figli che frequentino le scuole medie.
- Magari! Sono quasi nonno. Il maschio è sotto le armi e la femmina è sposata da più di un anno. Quanti anni mi dà?
Sorride mostrandomi tutti i suoi denti sicuramente finti.
Bevo.
- Cinquanta - dico.
- Sessantacinque. E da quindici sono prigioniero di questo bar. Quando lo comprai da Piero Usai, qui c'era un solo telefono a gettoni - si interrompe per incassare altri totali.
Non ho più birra e mi è venuta fame, sul banco c'è un vassoio mezzo pieno di panini, allungo la mano per prenderne uno, l'uomo della macchina del caffè mi guarda indifferente, l'uomo della cassa segna un numero su un taccuino. Nessuno dei due può essere Piero.
Mastico lentamente, non riesco a indovinare gli elementi del companatico, una salsa rosea li eguaglia tutti. Mentre deglutisco rifletto sulle mie nuove cene da insegnante in ruolo ordinario con cattedra fissa.
10.XI.1985 - martedì, notte
Sono sbarcato appena ieri pomeriggio in questa città che mi è del tutto estranea. E già possiedo una casa mia che sono in grado di ritrovare senza chiedere informazioni ai passanti. Vantaggi dei piccoli centri; ma non sono del tutto sicuro che questa sia una vera città, un moderno villaggio magari, certo una località inventata per il turismo estivo.
«Facente parte la Sardegna dell'impero romano d'oriente, Santalba, per la sua eccellente posizione (una penisola, e perciò per tre parti difesa dal mare), fu interamente ripopolata da greci devoti a Sant’Agostino. Ai primi del 500 d. C., sotto la guida del vescovo Fulgenzio di Ruspe, il culto del Santo trasformò i santalbini in veri guerrieri della fede. Nel corso dei secoli, avendo le spoglie mortali del santo filosofo abbandonato la terra sarda, le tracce dell'antica presenza si sono conservate, come segni ancora tangibili, nella devozione dei santalbini al prezioso mantello di Sant’Agostino, gelosamente conservato nella cattedrale di Santalba, e, fatto questo vieppiù straordinario, nell'idioma grecano che gli abitanti dell'antica colonia miracolosamente conservano». Santalba nei secoli, pubblicazione a cura della Pro Loco, senza data, p. 7.
Sono arrivato soltanto ieri a Santalba, ho alloggiato per una notte in un alberghetto a tiro di stazione e, dietro suggerimento del portiere, dopo pranzo ho preso in affitto queste poche stanze.
- Professore è? E allora faccia conto di avere già casa sua. Se dice che l'estate se ne va, la casa gliela danno correndo correndo. Mi lasci fare un paio di telefonate.
Mi guardo intorno. Da una scaletta esterna sul cortile si entra direttamente in una stanza piuttosto spoglia, un tavolo, qualche sedia, una cucina smaltata di bianco accanto al lavello. Poi tre porte, la prima è quella del bagno, un minuscolo quadrato reso ancora più angusto dal bianco plastica della tenda della doccia. La seconda porta è quella della camera, armadio, comò, letto matrimoniale con capezzali di ferro battuto rosso. E la terza porta è la stessa da cui sono entrato dopo aver attraversato il cancello e poi salito le scale. Questa sarà la mia casa fino all'arrivo dell'estate.
Ho già svuotato le valige e riempito gli armadi. Sul comò ho poggiato quei pochi libri che non ho potuto fare a meno di portarmi dietro. Manuali per la scuola e poi alcuni Moravia e Cervantes, i due volumi del Don Chisciotte.
Il televisore non era previsto insieme ai mobili e sono quasi le dieci di notte. Non ho voglia di mettermi a letto, non ho voglia di uscire. Ho il frigorifero vuoto e sono il solo abitante di questo appartamento senza telefono. Forse comincerò il Don Chisciotte, quello che non ho letto mai, lasciando credere di padroneggiarlo a menadito. Inaugurerò il bagno.
Mi lavo le mani. Il rumore dell'acqua che dalla mia pelle si rovescia sullo smalto è l'unico rumore che riempie la casa, se escludo il battito del mio cuore e il pesante ansimare del frigo. Mi guardo nello specchio, sorrido, mostro i denti, se fossi in me domani andrei dal dentista, il secondo premolare superiore destro non ha un bell'aspetto.
Non sono male, qualche capello precocemente perduto, ma una fronte che sprizza saggezza, occhiali da onesto intellettuale, e intorno agli occhi tante e tante rughette d'intelligenza. Se si è uomini, se si è donne: zampe di gallina. Io fossi in loro non mi lascerei scappare, giovane, laureato, insegnante d'italiano; al primo incarico da titolare certo, ma posto fisso; non lo nego, questo no!, duecento chilometri lontano da casa sono un pochino tanti, non si discute, ma, «quanti anni mi do?»
Ho deciso, mi rado. Mi rado, perché non so farmi la barba, mi rado perché adesso è notte e domattina non avrò più tracce di sangue sul viso. Mi rado perché Moravia ha scritto un romanzo intorno a una rasatura, mi rado perché non c'è niente di meglio che una rasatura per cominciare una nuova vita.
Mi rado. Ci siamo: sanguino.
20.IX.1985 - venerdì, pomeriggio
Santalba, 20 settembre 1985,
Carissimi…
Era da anni che non trovavo più motivi per scrivere lettere, e oggi, colto da raptus da inchiostro, ne ho scritte otto di seguito. Ho raccontato tutto. Dei colleghi, degli alunni, del paese, dell'appartamento. Iniziando la sesta lettera ho persino pensato di utilizzarle per un romanzo epistolare: Le ultime lettere del giovane Pintus.
D'altra parte non sono stato io a scegliere il confino in questo buco di culo del mondo, lavorare intorno a un romanzo potrebbe essere il sistema per alleviare le mie sofferenze di insegnante.
Non devo rinunciare a questa idea del romanzo epistolare. Far scoprire la personalità e il curriculum vitae di un uomo, Io, attraverso una rete di indicazioni inframmezzate di «come stai?» e «io bene e così spero di voi».
Con Sergio ho messo l'accento sulla struttura urbana di Santalba, un lunghissimo serpentone di case affacciate sulla costa, dove ogni attività sociale si concentra nel piccolo porto e nella città vecchia tutta protesa verso il mare. Un modo di vivere diversissimo da quello di noi gente di boschi e bassa montagna. Ad Anna e Marco ho trascritto alcune ricette gustosissime datemi dalla padrona di casa che vive nell'appartamento sotto il mio e che non viene a rassettare perché la casalinga di casa sono io medesimo. A Patrizio ho confessato che la solitudine mi opprime, che questa casa è scomoda, che per arrivarci debbo attraversare un cortile interno dove un ignobile cane nero sporco e riccioluto mi attende digrignando i denti, e che lo invidio, lui, a Bologna. A Elena ho lasciato credere che le uniche ragazze carine del luogo siano quelle col fidanzato robusto e cattivo. A Gavino Ghilarza, il direttore di La Miniera Del Serpente, ho scritto che da Santalba sarò orgoglioso di fare il corrispondente letterario per la sua eccellente rivista. Ai miei ho spedito una foto di Santalba al tramonto con la facciata della chiesa bizantina riflessa nelle acque del porto riparato da un bellissimo, lungo e possente braccio di roccia. Con Caterina sono dilagato, le ho confessato tutte le mie paure di insegnante impreparato al compito di trasmettere l'italiano la storia e la geografia a una seconda e una terza classe numerosissime, e che i colleghi sono delle merde umane.
A Andreina ho gridato forte e chiaro che cosa penso di lei, che dopo cinque anni non può mettermi da parte come un paio di jeans smessi, che se lei ha sofferto, anch'io ho sofferto. È dal dicembre dell'84 che questa lettera ogni volta la riscrivo uguale e diversa. È dal dicembre dell'84 che ogni volta la strappo e la mastico.
20.IX.1985 - venerdì, pomeriggio: più tardi sotto la doccia
Dovrei scomparire. Per giustificare il romanzo dovrei dissolvermi. Morire. Scappare. Impazzire. Ogni lettera diverrebbe una testimonianza casuale-necessaria.
Titolo: Paride Pintus di anni ventisette (27).
Sottotitolo: Suicida per amore.
Una donna, Caterina - se sparissi, ne sono certo, lei sarebbe la sola a interessarsi di me davvero -, viene a Santalba per recuperare le povere cose di Paride. La padrona di casa ha ammonticchiato i vestiti, i libri e i quaderni in uno scatolone. Caterina ha un moto di stizza contro la società e quella donna che non rispetta la morte voluta. Asciugandosi una lacrima. No, con determinazione. Mette ordinatamente quegli oggetti dentro una valigia. Di che colore? Vedremo. Quello stesso giorno, oppure dopo vent'anni, frugherà dentro quell'Arca perduta per scoprirne il segreto. In un’agenda blu sono contenute tutte le minute delle lettere di Paride. Tutte: otto, solo queste otto. Caterina le ricostruisce. Sono quasi tutte indirizzate ad Andreina. Quella donna non accettava le debolezze di lui. Avrebbe potuto amare soltanto un Paride capace di lottare, in grado di uccidere e tradire per ottenere il successo. Andreina ha sofferto, è stata offesa dalla fame e dal sesso, a lei è stato impedito di apprezzare la poesia e lo slancio eroico. Andreina è cinica, amorale, per questo ha accettato l'ipocrisia della morale fascista senza ipocrisie. Per questo Paride è morto, per dimostrare la sua onestà intellettuale. Per questo i legali di Moravia mi citerebbero per plagio. Perché va bene pubblicare uno stralcio della propria tesi in La Miniera Del Serpente di aprile-maggio-giugno, rivista trimestrale che legge chi la legge, ma copiare la trama di Le ambizioni sbagliate senza nemmeno cambiare il nome alla protagonista!
Peccato che Andreina si chiami Andreina.
Titolo: Paride Pintus di anni ventisette (27).
Sottotitolo: desaparecido.
Gavino Ghilarza, il suo editore, direttore, amico, lo cerca per fargli pubblicare il suo prezioso lavoro sull'opera di Alberto Moravia. La padrona di casa è preoccupata, Paride è sparito da tre mesi, nell'appartamento non ha spostato una forchetta, anche il cane nero bravo e riccioluto sente la sua mancanza, «lo guardi poverino, non mangia più, non corre più, e la notte abbaia alla luna». Ghilarza si introduce nelle due stanzette che costituiscono la casa di Paride. Ha la sensazione che il tempo si sia fermato, gli sembra che il suo giovane amico sia in bagno a radersi o fare la doccia - un po' di autobiografia non guasta -. Silenzio. Gavino Ghilarza si fa coraggio, apre i cassetti. Tutto è in ordine, mutande, calzini, camice, lettere. Le prende, ne apre una a caso, viene da Bologna. «Caro Paride, è da mesi che non scrivi più…» Le lettere sono tante, dopo averne lette alcune seguendo il caso, Ghilarza le raggruppa riordinandole secondo mittente. Ne ottiene un quadro variegato. I fatti cui gli amici di penna fanno riferimento hanno precise corrispondenze: militanza nel movimento studentesco, laurea travagliata, le vacanze intelligenti, una sola donna importante: Andreina. No, cambiamo cambiamo!, ma chi se ne frega!, tanto tutto questo non lo leggerà mai nessuno: Andreina! Da ogni lettera viene raccontato un Paride diverso: il saggio e coraggioso, il compagnone cantante spesso ubriaco, il prudente parsimonioso uomo d'ordine, il piagnone, lo sparaballe, il fallito, il beato te. E perfino il bello, il bruttino, il basso, il robusto, il mingherlino, il pieno di capelli, il quasi calvo, l'alto. Il vedi Zelig e poi muori.
San Konigsberg che sei nei cieli, aiutami tu. Shampoo.
Titolo: Paride Pintus di anni ventisette (27).
Sottotitolo: il terrorista.
Il nostro eroe è morto durante un conflitto a fuoco con la giustizia - anzi, sa justícia, che più in sardo non si può, polizia uguale stato, stato uguale imposizioni, lo stato amministra la giustizia, cioè amministra le imposizioni attraverso la polizia, polizia uguale justícia -. Il padre arriva a Santalba per riconoscere la salma. Il padre è un uomo alto, coi baffi, prima di sposarsi era stato carabiniere. I poliziotti gli fanno firmare delle carte. Gli consegnano un fagotto, gli ultimi averi di Paride. Il padre non vuole entrare nel covo del figlio, ne ha vergogna. È alla stazione. Sul muro giallo di una casa una scritta rossa: Paride è vivo e lotta insieme a noi. L'uomo ha uno scatto d'ira. Lancia il fagotto. Sotto la scritta rossa ha disperso camice, pantaloni, una maglia bianca e rossa. È sangue! L'uomo si avvicina, osserva il sangue di suo figlio. «Papà!» Un bambino gli corre tra le gambe, va a raggiungere un giovane uomo che gli sorride pochi metri più in là. Il padre raccoglie quanto ha lanciato, fra gli indumenti scopre una scatola di cioccolatini: è una piccola Arca zeppa di lettere. Le afferra le nasconde nella tasca interna della giacca, le leggerà in treno. In treno. Le lettere non sono mai state spedite, e sono sempre indirizzate a lui: Caro papà. Raccontano episodi di vita quotidiana, di piccole punizioni corporali, di piccole crudeltà a fin di bene. Dell'adolescenza trascorsa a interpretare il primo della classe, dell'università sofferta più dei litigi familiari. Delle azioni dirette cominciate per amore di Andreina. Sempre Andreina. E continuate per convinzione e per amore di lui, il padre. L'uomo non capisce. Non riesce ad accettare che suo figlio abbia creduto di applicare i sani e alti principi morali che lui gli ha insegnato attraverso il terrorismo. Se lo avesse di fronte lo schiaffeggerebbe. Ripensa al cadavere del figlio, si rende conto di che cosa ha pensato, si batte un pugno sul ginocchio. Continua a leggere. Le altre lettere sono un semplice resoconto delle azioni compiute. Rapine, fughe, seminari sulla ineluttabilità della lotta armata, il poliziotto giustiziato. Il padre è sconvolto, si sente male, il cuore. Adesso ha tra le mani un foglio di una diversa grammatura, la copia di una lettera sicuramente spedita. «Cara mamma, tu che sai tutto di me…» La madre, sua moglie, sapeva tutto. Da sempre. Lui solo era stato tenuto all'oscuro. Lui, che credeva di essere il padre di un figlio esemplare. Si alza, esce dallo scompartimento, in corridoio abbassa un finestrino, l'aria lo spettina e lo offende. Rientra il capo, si volta, di fronte a lui un volto riflesso in uno specchio. Il volto di un Paride invecchiato. Il treno rallenta, l'uomo corre verso la porta, l'apre e salta. Si ritrova in aperta campagna, una distesa pianura verde con un solo albero d'olivo. Il grande verde è solcato unicamente dai binari, e in lontananza si scorge un paese, più indietro una striscia azzurra, il mare forse. L'uomo ha del fango sulla fronte, ma non si pulisce, cammina in direzione delle case, verso la linea azzurra.
Questa non è male, devo dire che non è male. E alla Ginzburg chi gliene parla, e a Monicelli, a Risi e a Gassman chi glielo va a dire? Caro Michele! Caro papà!
Titolo: Paride Pintus di anni ventisette (27).
Sottotitolo: Come Dino Campana.aParide Pintus è pazzo. Sì, e poi Sebastiano Vassalli chi lo sente?
Ma io, sotto la doccia, perché non canto come ogni italiano che si rispetti? Ci sono, potrei scrivere lunghissime pagine bianche, o meglio, elenchi confusi di parole che mi piacerebbe utilizzare. Oppure potrei non scrivere affatto e limitarmi a sognare.
DUE
1. Augusto sta disteso sul divano, le gambe allungate sul tavolino, il capo quasi conficcato tra le spalle. Studia il televisore. È poco più dell'una, e una donna spiega come si fa con le cipolline. Mi siedo anch'io sul divano. Senza distogliere lo sguardo dallo schermo Augusto prende la mia mano destra e se l'avvicina alle labbra, ruba metà del mio gelato con un solo morso.
- Crema bruciata! - dice in una smorfia di disgusto.
Quella dentro il televisore agita quattro tuorli d'uovo dentro una scodella bianca. La crema bruciata mi pasticcia le dita. Gocce biancastre scivolano lungo il mio polso. Una lacrima cretina è in agguato dietro il mio occhio destro.
- Non ti va più? - chiede.
Ma non aspetta la mia risposta, lo prende e lo sbrana, il gelato che mi ero regalata un minuto prima di rientrare in casa.
La mia mano è appiccicosa e dolce, Augusto la prende, la lecca, batte la sua lingua sulla mia pelle, mi fa sentire le sue labbra umide. Succhia le mie dita una dopo l'altra. Ma non c'è già più dolcezza nella mia mano, perché si aggrappa al mio seno, lo stringe forte, mi fa male. Bene. Mi bacia sul collo. Offre le sue labbra. Morde le mie orecchie.
- Marìlu!, Marìlu! - sussurra. Ansima. Quasi gli mancasse l'aria. - Marìlu!
Stringe la mia mano destra, se la porta al basso ventre. Vuole che prenda il suo sesso. Che lo sostituisca al mio gelato di crema bruciata.
2. Da bambina ero convinta che la gente mi fissasse sempre. Al cinema avevo paura degli intervalli. Restavo immobile nell'attesa che la luce smettesse di illuminarmi. Mi sentivo spogliata dagli sguardi degli altri. Avrei voluto non esistere. Marilena Cau non è mai nata.
Invece esisto, Cau Marilena di anni diciannove, disoccupata, convivente, matricola numero 9315, primo anno di lettere. Pazza.
Non mi sopporto più. Sono stufa, mi taglierò i capelli, sono stanca di tenerli fino alla vita. Li voglio cortissimi.
3. - Come è andata in facoltà, hai fatto tutto?
Augusto parla senza guardarmi, si sistema i pantaloni. È un uomo molto ordinato, si lava sempre, dopo: il cuore, le mani. Dentro il televisore qualcuno ha afferrato una padella colma di carne a tocchetti e comincia a farla saltare.
- Allora?
- Che cosa?
- Ti sei iscritta, o vuoi che sia ancora io chi dovrà occuparsi della tua vita?
Mi fissa coi suoi occhi da adulto. Da vecchio saggio ultratrentenne. Si frappone tra me e il televisore, siede sul tavolino. Sento che ridono, si divertono, ma è lui il mio schermo adesso, e lentamente lo vedo trasformarsi in uomo zucchero. Ha preso le mie mani, vuole che vada a sedermi sulle sue ginocchia, quasi fossi realmente la bambina che lui dice. Mi accarezza con le sue guance mal rasate. Mi coccola dolcemente. Prende a cantare la ninna nanna che lui ha scritto per me:
- Vieni vieni Marilena,
vieni scalza e senza pena,
vieni piano Marilena,
nanna ninna Marilena.
Lo odio questo amato Augusto bastardo.
Chiudo forte gli occhi, cerco di volare. Oggi è un giorno di dieci anni fa, oppure un mattino del prossimo anno. Quando Augusto non era mio principe, quando Augusto sarà mio re. Le sue braccia mi avvolgono, si fanno rifugio provvisoriamente-fantastico. Il suo petto si fa materasso e io lo calco, lo scavo con le mie spalle, i miei capelli, le mie labbra.
- Come è andata stamani Marìlu? - chiede la sua voce al latte miele appena scaduto.
Non riapro gli occhi. Non voglio sapere della cucina sporca, i piatti unti sull'acquaio, i fornelli macchiati di fritto e caffè, le mattonelle sotto il tavolo offuscate da una polvere rossastra. Non è stata una buona idea questa di praticare uno squarcio nella parete tra la cucina e la sala. Il mare ci sarà ancora, oltre i vetri?
- Parla Marilena!
- Ho preso il treno, ho fatto la fila, mi sono immatricolata, ho fatto autostop, ho passeggiato lungo il porto, e mi sono incantata a guardare uno scemo di paese che ha pescato una spigola enorme.
- E il gelato? Non dimenticare il gelato.
- Sì, l'ultimo gelato della stagione, crema bruciata, buonissimo!
4. Lo giuro, non so perché lo sto facendo, non sono così io. Non l'ho mai avuta la vocazione della casalinga. Quante botte mi ha dato Paola perché lavassi i piatti. Lo giuro, non so perché mi sono alzata dalle ginocchia di Augusto, ci stavo bene. Lo giuro, non so perché sto lavando i piatti di tutta una settimana. E adesso lui è dietro di me. Augusto torta-di-panna.
Gioco con le montagnole di schiuma. Le trapasso con piatti, forchette, padelle, bicchieri.
Augusto mi stringe la vita. È molto più alto di me. Venti centimetri almeno. Piega le ginocchia per stringersi a me con tutto il suo corpo. Mi accarezza un seno, mi bacia sul collo, sotto i capelli che scosta dolcemente, che devia dalle spalle. I miei lunghissimi capelli castani che ricadono sul mio petto, che si bagnano nell'acqua sporca di schiuma e di grasso.
- Che ha Marìlu?, che ha la mia novella studentessa?
Lascio che mi accarezzi, allungo all'indietro la testa, per sentirgli le guance. Con le mani sporche di schiuma e di grasso lo prendo alla nuca e gli offro le labbra.
- Merda! - esclama allontanandosi nervosamente e pulendosi il viso e i capelli con un telo da cucina.
5. Non ci sono più stanze in questa casa. Ha abbattuto ogni porta quel genio di Augusto. Devo chiudermi al cesso per stare da sola. Come da bambina, quando la mamma mi urlava di uscire, ma io riuscivo a non sentirla, aspettavo che Paola tornasse dal liceo. Le somiglio adesso, alla mamma. Gli stessi occhi castani, le labbra carnose, il naso un pochino a patata. Che ho sul naso? Cazzo, Augusto! Sostiene che questi specchi col fondo argentato valgano una fortuna. Ma perché non li vende allora? Sono percorsi da reti di graffi e macchie interiori. Questa tra la narice e il labbro è un segnale dello strato d'argento che si sfalda, oppure una brugolina? Una stronzissima brugola.
- È pronto Marilena.
Non sento, non riesco a sentire.
- Marilena!
Io sono sorda.
6. Ad Augusto brillano gli occhi verde castano. Mi guarda ma non mi vede. Sono invisibile. Mangia il suo risotto di verdure. Muove ritmicamente le dita della mano sinistra, quasi a dare il tempo ai suoi pensieri. Smette di mangiare. Si porta alla fronte tutte e dieci le falangette, i gomiti sul tavolo, è l'immagine di un toro che si prepara all'assalto. Mostra i denti. Rincorre un'idea, geniale, ovviamente.
- Non ho fame - gli dico. Poi mi allontano dal tavolo, mi allontano da lui.
- Non vuoi almeno la frutta? - chiede fingendo meraviglia.
Sono già via, in un'altra stanza, lontanissima a pochi metri. Mi faccio posto sul letto, tra i quaderni e la macchina per scrivere, gli strumenti di quell'uomo che di là continua a mangiare e a pensarsi.
I capelli li aveva cortissimi due anni fa, e ancora gli piaceva andare al mare. Perfino in settembre seguitavamo ad andarci. Veniva accompagnato dalla sua ragazza, una bionda della sua età, vecchia compagna di mia sorella.
Prendevano il sole e parlavano sempre e soltanto di loro stessi. Le loro università, le loro storie, i loro cazzi. I concorsi inesistenti per il ruolo di Paola, l'impossibile esame di anatomia per la laurea della bionda e il servizio militare di Augusto, quell'entità maligna che lo aveva scacciato da Trento, sottraendolo alla promettente carriera di sociologo, rubandogli due anni di vita, abbandonandolo a se stesso e quel libro cominciato a vent'anni e di cui ogni giorno raccontava una trama diversa.
- Ti piace Marìlu?
Io lo adoravo.
- Ma non può capire, è di un altro pianeta.
Io la odiavo.
- Lasciatela la mia sorellina, si intende soltanto di discoteche.
Io diventavo sorda.
Augusto mi sfidava in mare. Nuotavamo a lungo, fino dove l'acqua diventa verde per quanto è profonda e trasparente. Io gioivo, quelle due vecchie non avevano mai voglia di nuotare. Non era necessario parlare, studiavamo l'azzurro del cielo sdraiati sull'acqua a corpo morto, con le braccia e le gambe allargate che la corrente faceva incontrare. Io tremavo e mi rimettevo diritta, con solo il viso fuori dell'acqua e tutto il corpo ballerino occupato a mantenermi a galla. E gli andavo vicino, gli chiedevo del suo libro, di Trento, delle ricerche che aveva avviato subito dopo la laurea. Conoscevo già ogni sua risposta. Alberoni si ostinava a non chiamarlo Piras, ma Pérez, e lui, con “Francesco”, se lo sentiva, avrebbe finito per lavorarci insieme se non fosse stato per l'esercito italiano. Militare a ventisette anni, lui, Augusto Piras, sociologo, coinvolto nei casini di truppa di bambini di diciotto anni, stupidi e analfabeti.
Io no, io avevo solo diciassette anni, ma la maturità di una vera donna, peccato, però, che avessi solo diciassette anni, perché, davvero!, magari ci avrebbe spedito la bionda e avrebbe preso a corteggiarmi.
Non perdevo mai un sussurro. Ogni lento ritorno alla riva era sempre la stessa prima volta. E dove l'acqua si fa più verde morivo, nell'attesa di quella cosa sulla bionda che lui magari ci avrebbe spedito se io…
Sul bagnasciuga la bionda gli andava incontro, lo avvolgeva di sé e dell'asciugamano di spugna, lo baciava, sulle spalle, sotto gli orecchi.
Di notte la bionda telefonava dicendo di restare a dormire da Paola, in casa nostra, invece veniva qua, a dormire nel letto con Augusto.
7. Era oggi, due anni fa. La notte era umida e dal mare veniva la brezza che riempie i capelli di sale. Avevo consumato il pomeriggio tra hashish e martini, insieme alle mie compagne di scuola Anna e Marta. Cominciavamo a stordirci più tardi, di solito, e soltanto nei giorni di discoteca. Ma quella notte d'ottobre avrei visto Augusto da sola. Per essergli Virgilio nell'inferno dei ballerini di notte. Era interessato alle nuove mode giovanili, affascinato da questi ragazzini che non avevano ritenuto niente del '68 e del '77. Era solo, la bionda studiava per l'ultimo esame. Perché non Beatrice?, gli avevo chiesto. Perché no?, aveva detto, mi avrebbe senz'altro sposata se non fosse stato per quegli stronzissimi diciassette anni.
Non volle ballare. Io ridevo. Ci sistemammo su uno dei sedili della terrazza sul mare. Dentro, sommersi dal buio illuminato delle piste, i ragazzi ballavano agitandosi come pazzi, li guardavo attraverso la vetrata picchiettata dalla salsedine. La disco-music arrivava confusa coi rumori del mare sugli scogli. Io ridevo.
- Marilena…
E le sue ginocchia divennero la mia cavalcatura. L'orlo della gonna mi si sollevò alla vita. Ed era già Augusto chi stavo baciando fino a perdermi nella sua bocca. Le sue mani erano mille e interminabili; il sedile scolpito sul granito prese a volare, volare, volare. Per posarsi su questo letto dove nuotammo a corpo morto tra lenzuola increspate, intenti nello studio delle ombre proiettate dai fari delle auto sul soffitto. Glielo dissi di non essere stata mai «veramente» con nessuno prima. Era oggi di due anni fa. E lui si adirò moltissimo, strillò che non avrei dovuto ingannarlo in quel modo. Niente al mondo è più terribile di una donna vergine.
L'unica finestra della stanza da letto è esposta a ovest, prima del tramonto si apre sul sole che si adagia sul mare, e poi, col buio, racconta le luci delle stradine selciate di pietre intorno al porto di Santalba.
8. - Marilena, c'è Paola!
Mia sorella è già entrata, si affaccia dietro il volto di Augusto che tiene appoggiata una spalla allo stipite della porta senza più porte. È alta Paola, Augusto la bacia passerotto sulle labbra, senza doversi piegare sulle gambe.
- Come stai sorellina? - dice avvicinandosi al letto e chinandosi per baciarmi sulla guancia.
Fa per stendersi accanto a me, ma Augusto la previene, si precipita verso il letto per liberarlo dei suoi fogli, della sua macchina elettronica e leggera, delle sue matite, dei suoi quaderni dalla copertina dura e i fogli quadrettati estraibili.
- Scusa - dice.
Accuratamente sistema i progetti per il suo libro e macchina per scrivere in un ripiano liberato dell'enorme e affollata libreria che invade i muri della camera. Ha abbattuto le porte e non ha pensato a uno studio.
- Adoro studiare e scrivere a letto. Sai?, a Trento vivevamo in tre in una stanzetta minuscola.
Paola si mette al mio fianco, una gamba col ginocchio ripiegato sul letto e l'altra col piede a toccare il pavimento. Ha le gambe lunghissime mia sorella, la gonna gliele scopre generosa e Augusto le studia. Gli occhi di lei mi interrogano.
- Diglielo, Marìlu - ma poi è lui a parlare. - Si è iscritta a lettere e si allena per impersonare la giovane signorina intellettuale.
- Stronzo! - grido.
Sono corsa in bagno, per lavarmi il viso, per provare a piangere. Paola mi ha già raggiunta. Le sue mani mi accarezzano le spalle. Le sue anche si stringono ai miei glutei. La sua guancia poggia sulla mia. È mia sorella.
L'acqua continua a cadere sulle mie mani, sui polsi. Ho le mani grandi e sottili. Paola adesso le sottrae all'urto dell'acqua. Non posso fare a meno di confrontarle le nostre mani. Sono la sola cosa in cui ci somigliamo. Lei è alta, lei ha gli occhi verde scuro, lei è una donna che lavora, lei ha avuto un padre.
È un'immagine ridicola quella che vedo dentro lo specchio: la donna a due teste.
- Sorridi! - dice la bocca nella testa più vecchia.
- Non una parola capisci! - le dico. - Nemmeno stessimo insieme da dieci anni. Non parla d'altro che del suo libraccio e di discoteche dell'avvenire.
- Non prendertela. Conosco Augusto da anni, ha sempre vissuto sulle nuvole. Non cambierà mai. Festeggeremo da sole, da amiche.
Alla mia nuova amica!, disse una notte di otto anni fa entrando in camera mia. Tra le mani una coppa di spumante per me e un'altra per se stessa. Fuori festeggiavano la sua laurea, io avevo avuto da poco undici anni e per la prima volta il mestruo. Augusto dormiva nella sua stanzetta trentina, quella notte.
9. Stiamo tutti e tre distesi sul letto, la schiena alta sui cuscini e Paola tra me ed Augusto. Frugo nel borsone di lucido nero di mia sorella, trovo le sigarette e un accendino d'oro. Augusto fuma tendendo la sigaretta con la destra e un portacenere di vetro pubblicitario con la sinistra. Racconta la millesima versione del suo “lavoro”.
- Deve cadere come una bomba sulle teste di tutti i santalbini che si nascondono dietro il nullismo delle tesi neogreciste. Sono troppi anni che gli intellettualoidi locali bruciano il fumo del recupero folcloristico della colonia greco-bizantina. Sarà anche vero che i vecchi marinai-contadini dell'antica roccaforte parlano ancora il greco omerico, ma i giovani non lo parlano più, anzi, i giovani a Santalba non parlano più. Capite?, i giovani non parlano più, non parlano più e basta. Giocano a morire da virus metropolitano, si ubriacano di cartoni giapponesi e discoteca, e poi si annullano nell'eroina. Santalba ha la maggiore percentuale di sieropositivi di tutta la Sardegna. Mentre politicastri e scrittori di muri locali litigano su quale greco recuperare, se quello evangelico antico, o quello progressista e cinematografico di Angelopulos, i giovani santalbini muoiono per l'assenza di valori.
- Quando uscirà? - gli chiede Paola.
- Presto! - afferma spegnendo la cicca e obbligandomi a prendere il posacenere circolare di vetro pesante.
- Senti! - dice in piedi di fronte al letto. - Senti. Senti - continua soffermandosi con lo sguardo sulle pagine di uno dei quaderni dai fogli estraibili. - Ecco. Il primo buco è stato una frustata. Bellissimo, avevo quasi quattordici anni. Avete capito? Nemmeno quattordici anni e già tossico. Altro che greco antico o moderno. Ogni notte in discoteca raccolgo nuove testimonianze. E non intendo solo le siringhe che togliamo dai cessi dopo ogni pulizia.
Augusto, col suo quaderno tra le mani, attende l'approvazione di Paola. E io comincio a spogliarmi, devo cambiarmi per andare a lavoro, faccio la baby sitter.
- Augusto, tu non puoi continuare così. Questo tuo saggio, ogni giorno di più somiglia a una storia infinita. Io sono certa che il materiale che hai raccolto sia più che sufficiente per trarne mille, di libri.
Indosso solo le mutandine, jeans e camicetta sono rimasti accanto a Paola. Sento che mi osserva. Anche Augusto mi guarda mentre vado verso l'armadio incassato tra i libri.
- Forse hai ragione Paola, ma sento che ogni ragazzo che sta male ha il diritto a gridare le sue ragioni e io, con questa mia ricerca, sono il solo che possa dargli la voce.
Comincio a frugare tra i miei vestiti. Non so cosa mettermi, l'estate non è finita completamente e questo autunno è balordo. Loro mi guardano di sguincio, li vedo dallo specchio interno dell'armadio.
- Sì, intanto sono due anni che rinunci all'insegnamento per fare il gestore di una discoteca. Ho il sospetto che tu preferisca la disco-music a Durkheim.
- Non scherzare Paola.
- Dì qualcosa anche tu Marilena, dì qualcosa!
- Qualcosa!
- Molto spiritosa, davvero molto spiritosa. Comunque, sappi che al tuo posto comincerei a preoccuparmi per quegli antiestetici copertoni di grasso che coltivi sui fianchi.
Augusto è un coglione, cambio anche le mutande e mi inchino, mi inchino perché osservi fino in fondo il mio enorme sedere.
- Dai Augusto, finiscila. Piuttosto, a proposito di intellettuali, sai che ne abbiamo uno nuovo?
- Un altro?
Paola è riuscita a distrarlo. Peccato. Ho deciso, metterò questo vecchio vestito bianco con le spalline in pizzo. Lo appoggio sul corpo, perché Augusto mi dica se gli piaccio e perché riflesso nello specchio continui a guardare tutto intero il mio dorso e i capelli, lunghi all'osso sacro. Gli sorrido smorfiosa. Augusto viene sempre sorpreso dai miei sorrisi, dice che ho troppi denti, tutti bianchi e tutti grandi. Dice di non capire se sto per sorridere oppure per mordere.
- Non fare il prevenuto! - ribatte Paola, - credo che sia uno bravo, un rospetto con gli occhialini dalla montatura dorata che insegna italiano nella mia scuola. Abbiamo una classe insieme.
Augusto mi sorride e io mi avvicino a lui. Cammino scalza, in punta di piedi. Con le mani reggo il vestito all'altezza del mio seno. Ho solo un metro e sessanta di altezza, se lui non si china non potrò baciarlo. Le sue labbra sono grandi, femminili. Si china, lo bacio. Il vestito cade. Mi abbraccia.
- Chi è? - chiede a Paola.
- Mi ha parlato di un suo lavoro pubblicato sul numero del maggio scorso di La Miniera Del Serpente, qualcosa su fascismo e ruolo della donna in Moravia.
- Paride Pintus! - esclama mentre cerco di mordergli il lobo dell'orecchio destro.
- Lo conosci? - chiede Paola.
- No, ma è certamente uno stronzo. Com'era? Le ambizioni sbagliate… sì, Moravia contro il regime. L'intellettuale che rifiutò il suo tempo. Quante puttanate in quell'articoletto!
Raccolgo il vestito da terra, lo indosso dal basso. Prima di tirare la cerniera sotto l'ascella lo chiamo: - Augusto!
Lui mi risponde coi suoi occhi più dolci, un lembo ripiegato del vestito mi scopre il seno. Augusto è chiaramente eccitato.
- Augusto - gli chiedo, - è vero che non sono grassa.
- Stupidina - risponde stringendomi forte.
- Sentite, piccioncini - interviene Paola, - se volete che me ne vada, ditelo chiaramente. Diversamente, smettetela di strusciarvi.
- Che ora è sorellina? - le chiedo.
- Le quattro e mezza.
- Cazzo, è tardissimo, la cacchina santa di Alessandrino non può aspettare oltre; se non scappo, la sua mamma grecista mi strozza.
5.X.1985 - sabato, al mattino
Per recarmi a scuola preferisco passare dal porto, passeggiare lungo la banchina e respirare l'aria odorosa del mare. Lungo il piccolo molo mi capita spesso di incrociare uomini con un filo di lenza tra le mani. In alcuni tratti l'acqua è ancora limpidissima, e quelli, accovacciati sui massi di granito, si impegnano a pescare. Al più assiduo fra loro ho già dato un nome: Giangabén, è un anziano signore che sembra essersi appena materializzato dal telone di uno schermo cinematografico; da qualche giorno, benché non ci conosciamo ancora, abbiamo preso a salutarci.
- Salute! - gli dico.
- Vita! - mi risponde con una smorfia in perfetto stile noir.
- Salute!
- Vita!
Anche durante il cammino del ritorno Giangabén è ancora lì, al contrario degli altri, tutti più giovani e meno cinematografici di lui. E nel suo secchio di plastica celeste non manca mai qualche pesce.
Oggi ho voglia di attardarmi, il sole di mezzogiorno splende ancora molto alto. Anche i miei alunni passeggiano. Consumano i gelati comprati nel baretto tettoia sulla banchina del porto. Qualcuno di loro mi saluta. Comincio a godere, o meglio, soffrire di una certa notorietà. Giangabén è sempre al suo posto, come questa mattina alle otto, come ogni giorno. Col suo borsalino di paglia calato sugli occhi e pochi metri di lenza sottile tra le dita.
- Salute!
Questa volta non sfuggirò al mio destino, rimarrò al suo fianco finché non avremo parlato del più e del meno come due vecchi amici.
- Vita!
- Ma come fa? - dico. - Ma guarda, sono tutti ancora vivi! - continuo indicando il secchio celeste dove agonizzano alcuni pesci coloratissimi.
Non sembra troppo interessato alla mia conversazione. Anzi, sono sicuro che mi ritiene un perfetto imbecille.
- Mi'lu!
Dopo questa esclamazione dalla nobile origine santalbina, che credo corrisponda all'italiano “eccolo”. Giangabén si solleva di scatto e mi impone la sua arma tra le mani.
- Tenga! - ordina. - E tiri forte.
Sono un po' deluso, lo avevo sempre visto seduto e me l'ero immaginato più alto, invece non deve superare di molto il metro e sessanta, in compenso dà l'impressione di un uomo ancora forte.
Credo si renda conto della mia totale insipienza peschereccia, perché mi si fa dietro, mi tiene le mani, le stringe forte e grida:
- Così, bello forte, che non scappi.
Sono sicuro di essere arrossito. Mentre lui rimane chino a cercare chissà quale attrezzo in mezzo alle sue cose, io sto facendo la figura dell'imbecille davanti ai miei alunni. Stanno tutti qui intorno, a ridere della certa figuraccia che farò lasciandomi sfuggire dalle dita qualsiasi cosa il vecchio marinaio abbia agganciato al suo amo. Le dita mi fanno male.
Giangabén ha recuperato ciò che cercava, un retino del tutto simile a quelli che ho visto disegnati nelle barzellette dei cacciatori di farfalle. Intuisco le sue intenzioni e ne sono terrorizzato, non riuscirò mai a trascinare a riva l'oggetto che urta la pelle delle mie mani e che riesce ad affondare il dischetto di sughero.
- Tiri!
È come se l'ordine mi venisse gridato da tutti i componenti la piccola folla e non da lui, che sta leggermente piegato sulle ginocchia, con il retino tra le mani, pronto a catturare la sua preda. Vorrei gridargli che non ho mai pescato niente in vita mia, che volevo stargli vicino perché il suo volto mi ricorda quello di un attore francese. Ma devo farcela, devo.
Uno, due. Uno, due. Uno… Si avvicina, è facile, ce la faccio. Uno, due, uno, due, uno, due. Una grossa foglia argentata corre a pelo d'acqua, è un pesce enorme. Lo vedo, sento l'ammirazione della folla. Non provo più nessun dolore.
- Professo' non così. Non così che si rompe la lenza.
Chi è? Sono paralizzato, la presa mi sfugge.
- Ecco, così, insieme, via!
È un ragazzino che tiene la mia lenza, lui la tira per me, io fingo solamente. Lo riconosco, si chiama Serra di cognome, uno sveglio, robusto, simpatico, ripetente.
Dietro di noi qualche ragazzina comincia già a emettere quegli orribili urletti che fanno tanto donna; in classe impazzisco ogni volta che le sento urlare così.
- Mi esce, professo', non ci posso fare niente, mi esce così.
Bugiarde, sono certissimo che a casa passano ore ed ore ad allenare le corde vocali a quell'urlo terribile: Ahaaaa!: Al topo, al topo.
- Dai professo'!
- Serra-Serra-Serra-Serra…
Eccolo, un pescione enorme e argenteo annaspa fuori dall'acqua. Gliel'abbiamo fatta. Giangabén è fulmineo. Con una sola mossa imprigiona il bestione dentro il retino. Il tifo della folla è tutto per noi. Se non mi sentissi così stupido penserei di essere felice. Ho voglia di abbracciarli, ma sono troppo stupido per farlo.
- La mano professò, mi dia la mano.
È il mio alunno a fare il primo passo, mi tende la mano, mi guarda pieno di sfida e complicità e io decido di sorridergli, gli stringo la mano e con la sinistra gli do un colpetto affettuoso sul bicipite, sento che è un ragazzo molto forte.
- Bravo! - gli dico.
Si avvicinano tutti, ammirano la nostra preda, Giangabén guarda il suo retino con orgoglio. I miei alunni ci guardano. Mi rendo conto di quanto sia banale ciò che mi viene da pensare: sono uomini imperfetti, non sono più bambini, ma non sono ancora ragazzi, i loro corpi subiscono quotidianamente gli effetti della metamorfosi puberale, e le loro menti sono vittime della stupidità di insegnanti come me.
7.X.1985 - lunedì, dopo cena
Da quando vivo a Santalba mi sento più vicino agli alcolisti. Il vino uccide i virus della solitudine, o almeno li sterilizza. A casa, tra pranzo e cena, non avevo mai superato i due bicchieri, qui, invece, ho già raggiunto quota mezzo litro. Senza un televisore poi, il vino diventa indispensabile. Spaghetti, patatine e vino. Per non parlare dei panni, quelli sporchi.
Da universitario infilavo tutto in due robuste sacche e ciao-mamma-lavato-e-stirato-per-lunedì-mattina. I più lontani da casa, quelli che non scappavano per il “uichend”, avevano la fidanzata ad ore. Io no, Andreina mi aspettava alla stazione.
La convivenza con me stesso si rivela ogni giorno sempre più difficile, mi ci vorrebbe una fidanzata, non una a ore, per quello c'è la padrona di casa; una vera, nemmeno un'amante: una fidanzata come si usa in paese, per il passeggio, il cinema, il tè con gli amici.
Forse conviene che mi ammali. Come Dino, il pittore neutro del romanzo di Moravia. Troppo noioso. Meglio sarebbe un bel ruzzolone dalle scale.
Mi detesto, odio il vino più che me stesso.
Non ho ancora comprato le tende per le finestre, attraverso i vetri vedo la luna.
8.X.1985 - martedì, pomeriggio
- Sì mamma… sì, è vero… sì mamma. Sì, mamma… ma cerca di capire, sì… - sono un uomo di ventisette anni e mi tratta ancora come un bambino, mi sculaccerebbe se potesse.
- Ma mamma, quante volte lo dovrò ripetere. Non ho più la patente, e per tornare a casa occorrono sei ore tra pullman e treni… - piange, se papà non glielo impedisse lei verrebbe a stare con me, ne sono certo.
- Basta! non lo ripeterò più, il mio giorno libero è il giovedì, il sabato e il lunedì io lavoro, non puoi obbligarmi a morire in treno per trascorrere cinque minuti insieme a te!
Sto gridando. Chiuso in una cabina qualsiasi del posto telefonico pubblico, sto litigando con mia madre. È ridicolo. Chiudo.
Mi sto comportando come un bambino. Respiro. Autocontrollo. Esco dallo stanzino buio con solo metà corpo, gesticolo verso il padrone del bar, capisce, riattiva la mia linea.
- Papà? Sono io, sì. Senti, scusami con la mamma, cerca di farle capire, ti prego. Dille che sarò da voi ai primi di novembre, sì, profitterò delle festività di Ognissanti.
Ho bisogno di parlare con una persona normale. Paola, la mia collega. Fatti sentire qualche volta.
Paola Cau, laureata in lettere, 110 e lode con una tesi su Calvino. Paola, capelli scuri, alta e slanciata, in ruolo da anni, anche se giovane ancora.
- Pronto, famiglia Cau? La professoressa Paola. Grazie. Ciao, sono Paride.
Paola, non so proprio perché ti ho chiamata, non ho niente da dirti, ma sono un pochino disperato e in questo paese di merda non ho voglia di conoscere nessuno, a parte te, forse.
- Ho comprato un televisore ed una lavatrice usati. Sì, funzionano benissimo, mi sembra. Certo, il televisore è un coso enorme in bianco e nero, ma tiene ugualmente compagnia.
- Sicuro, tutto bene, e a te come va? Mi chiedevo se non avessi voglia di venire al cinema. Che cosa danno? Un film dell'orrore credo. Non ti piace quel genere? Figurati, io lo detesto. Va bene, d'accordo. Passo a prendervi alle otto, il tuo fidanzato oggi non lavora. A più tardi.
Chiedo il conto. Il tuo fidanzato oggi non lavora! Esco. Il tuo fidanzato oggi non lavora! Per tornare a casa dovrò passare sul porto. Il tuo fidanzato oggi non lavora! A quest'ora è già pieno di ragazzini che vanno a baciarsi tra i roccioni. Il tuo fidanzato oggi non lavora! Merda. Il tuo fidanzato.
8.X.1985 - martedì, notte
Paola non mi guarda più negli occhi, sembra interessatissima alla pizza quattro stagioni che le hanno appena servito. Io non so perché l'ho ordinata alla salsiccia, questi dischetti di carne di maiale non hanno un bell'aspetto.
- Non hai fame? - chiede smettendo per un attimo di masticare.
Le sorrido, mi accorgo che con questa luce i suoi occhi diventano più scuri. Mi accingo ad affettare la mia pizza. Anche lei sorride. Mi versa ancora del vino.
- Scusami per il film, ma non valeva proprio la pena di soffrire su quegli scomodi sedili per una storia di mostri spaziali.
- Hai ragione, non so come abbia potuto venirmi in mente di chiederti di accompagnarmi.
- Perché siamo amici e colleghi, no?
L'affermazione di Paola è così assurdamente ovvia, che arrossisco. È chiaro, non entriamo in sintonia. Anche lei adesso arrossisce.
È imbarazzante, provo a spiccicare una qualche parola di scusa, e anche lei decide di farlo nello stesso istante in cui io comincio a borbottare. I nostri mozziconi di frasi si sovrappongono. Ride, si porta il tovagliolo alla bocca, anch'io fingo di ridere. Lei non credo che finga. Mette una mano sulla mia. Arrossisco ancora. Lei ride più forte. Mi porto il bicchiere alle labbra. Cerco di dimostrare buon umore.
- Se ci vedessero i nostri alunni, ci pensi? - parla in falsetto: - La signorina Cau, con professor Pintus, il bel tenebroso - cambia ancora tonalità di voce: - E il fidanzato di lei che non sapeva nulla. È medico, una chiamata all'ultimo momento - torna al primo falsetto: - Secondo me “la chiamata” è stato un trucco del Pintus per liberarsi del rivale.
- Davvero, sono mortificato, non vorrei crearti complicazioni col tuo ragazzo - le dico sembrando di apparire sincero.
- Ma che dici?, ho trent'anni e sono una donna libera.
Fin da bambino, ho sempre avuto una forte predisposizione verso le brutte figure. In ventisette anni di vita ne avrò messo da parte a milioni, almeno quindici al giorno. E oggi, con Paola, lo sento, riuscirò a battere tutti i miei record.
- Davvero i ragazzi mi chiamano “il bel tenebroso”?
- Ma guardalo il nostro Pintus, oltre che timido anche narcisista, ma bravo.
Scherza, lo so che scherza, e io mastico e bevo. Fingerò di non aver colto e cambierò discorso:
- Lo conosci da tanto?
- Chi?
- Il tuo ragazzo, il medico che lo squallido Pintus avrebbe fatto chiamare in ospedale con uno stratagemma.
- Ti sei offeso?
- No!
Mi stringe nuovamente la mano. Mi guarda teneramente. Non riesco a sostenere il suo sguardo.
- Scherzavo - mi dice. - Paride, scherzavo.
Riprendiamo a mangiare in silenzio. Improvvisamente sono diventato vorace, ho già quasi finito, mentre Paola ha praticamente smesso di mangiare, la sua pizza è rimasta una mezza luna.
- Lo conosco da sempre - dice, - siamo coetanei e sono abituata da anni, ai suoi improvvisi cambi di programma. È il destino delle donne dei medici, dicono. Ma non ho voglia di parlare di lui, parlami un poco di te.
- Da dove vuoi che inizi - le dico cercando di esserle simpatico, - dalla prima infanzia o dagli ultimi tre anni?
- Considera che a mezzanotte la mia matrigna spranga l'uscio con le catene.
- Vediamo, in meno di un'ora potrei raccontarti di quando a tredici anni sono fuggito di casa con una chitarra e lo spartito delle canzoni di Dylan.
- Non ci credo! - esclama speranzosa.
- Infatti è una bugia, non sono mai fuggito di casa e la mia è sempre stata una banalissima e normalissima vita da figlio unico di madre apprensiva e babbo ex-carabiniere.
- Amori?
Mi sento la grotta dei quaranta ladroni, Paola ha pronunciato la parola magica, la porta Andreina ora le si spalancherà lentamente, che saccheggi pure tra i reperti del mio male d'amore.
- Dolce, caffè?
Mi sembra di avere parlato per ore, la voce del giovane cameriere altissimo mi riporta a Santalba: interno notte di un ristorante-pizzeria semivuoto a pochi metri dal mare che continua ad agitarsi arginato dagli antichi bastioni costruiti, dicono, dai conquistatori bizantini. Paola è una donna molto bella e io non riesco a impedirmi di desiderarla, anche se lei non può non essere fedele al suo uomo e io non l'amo, ne sono quasi certo.
- Torta di mele - dice. - E tu Paride, desideri niente?
- No grazie! - le dico un po' sorpreso. Ma sono già pentito, vorrei anch'io un po' di dolce. Paola mi precede e fa un gesto al cameriere.
- Caffè, vero? - dice guardando prima lui e poi me.
Annuisco.
- Credo che il mio problema sia l'eccesso di tempo libero - dico prendendo a riflettere a voce alta. Paola mi guarda e ascolta. - Fare, pensare, mangiare, sognare, dipendono solo da me. Oltre alla scuola, qualsiasi altro impegno dipende esclusivamente da me. E Santalba sarà certamente un posto ideale per trascorrerci le vacanze, ma è mortale viverci. Non succede mai niente, l'attività culturale si svolge all'insegna di casa chiesa e discoteca, a parte una sala cinematografica dalle poltrone scomodissime. A scuola non sento parlare d'altro che di neogrecismo, corna e disgrazie.
Il cameriere altissimo poggia il piattino con la torta e quello col caffè. L'aroma è forte, è buono. Guardo verso il piccolo cratere scuro e fumante. Vorrei che Paola fosse Andreina.
- Insomma, questa città ti annoia - afferma Paola un attimo prima di introdurre alla bocca una scheggia di dolce.
- Non vorrei sembrarti prevenuto, ma Santalba, non lo definirei una città, semmai un paese…
- Ma chi ti vuole? Perché non dici chiaramente che ti mancano tanto la fidanzatina che ti baciava così bene il pisello e la mammina che ti prepara i pranzetti, ti stira le camicine e ti rimbocca le coperte.
Il suo sguardo mi impedisce qualsiasi reazione, siamo soli, ma sento il peso di cento occhi che mi fissano.
- Scusa… - borbotto.
- Sono una stupida, - dice abbandonando coltello e forchetta sul piatto. - Andiamo via, ti prego.
Usciamo, la sua torta, il mio caffè e Andreina sono rimasti sul tavolo. Fuori l'aria è pungente, del tutto dissimile da quella di Mureddu Maiore, il mio paese di bassa montagna al centro di quest'enorme isola dove il mare ha un valore reale soltanto lungo le coste.
Paola cammina al mio fianco, un pochino è più alta di me. La sua lunga gonna a fiori si mette tra le mie gambe, mi intralcia, mi fermo, sono costretto ad abbracciarla. Ma lei non si ferma, mette un braccio intorno alla mia vita, con le labbra mi sfiora sotto l'orecchio destro. Continuiamo a camminare. Abbracciati.
Il mare non è più sotto di noi, abbiamo lasciato la strada costruita sopra gli antichi bastioni, ci siamo persi per l'intrico di stradine selciate con sassi levigati, arriviamo davanti a un piccolo portone buio, Paola entra prima di me, poi mi trascina dentro, dolcemente. In piedi, la schiena al primo piolo della vecchia balaustra in ferro battuto, ci baciamo, a lungo.
- Scusa, - dice staccandosi. - Mia madre non va a dormire se io non sono in casa. Buona notte.
Fugge, per ultimo vedo sue caviglie sottili.
TRE
Mureddu Maiore, 2.11.85
Ciao Paperino,
errori in vista, attento. Ma non devi preoccuparti, questa volta sarò io a commetterli.
Ricordi quando venivi da me perché ti aiutassi con il latino? «Aiutami Caterina, dammi una mano per la prossima interrogazione». E poi per il compito in classe. Poi per tradurre Cicerone. E io, scema, ti aiutavo. Ti correggevo le versioni e poi, per me stessa, faticavo il doppio.
Mi piacevi, eri buffo, sempre così sfortunato, come Paperino. Tu ti adiravi sempre quando ti chiamavo così. E guarda com'è finita: tu insegnante e io direttore di un caseificio: tu plasmi le menti e io il formaggio. Confessa, anche tu mi chiamavi Formaggina, come tutti gli altri. È da prima che nascessi che scherzano sul lavoro della mia famiglia. Sono anni che non ci faccio più caso, oppure dovrei dire “casu”, per farti sorridere con una ulteriore battutina casearia e perché non ti senta in colpa per essere stato come tutti, per avere chiesto il mio aiuto e poi aver scherzato con la mia professione.
Tu non lo sai, ma allora, quando ti chiamavo Paperino e tu ti arrabbiavi, io ero innamorata di te. Tra un'esercitazione di latino e l'altra tu parlavi di Moravia e delle tue voglie per questa e quell'altra e non mi guardavi mai. Nemmeno allora ero bella, ma per te io esistevo solamente in funzione delle versioni di latino. Pochi incontri alla fine di ogni trimestre.
È molto tardi, le ripide strade di Mureddu sono buie e vuote, come me in questo momento. Scusa, non voglio sembrarti patetica, ma credo che capirai anche tu. La mia non è stata una reazione istintiva. Li avrei ricambiati i tuoi baci, se tu mi avessi fatto capire che davvero conto qualcosa per te.
Domani uscirò presto di casa, e camminerò per i nostri boschi. Mi coprirò bene, è già inverno qui, non come a Santalba, dove, a sentirti, c'è il sole anche di notte. Immaginerò di sentire i tuoi racconti universitari, di quando ritornavi entusiasta per la città e per “il movimento”.
Una domenica ci raggiunse una ragazzina, voleva lezioni private da me; di latino, anche lei. Ma tu ti offristi gratis e rimanesti a Mureddu due settimane intere. Poi tornasti sempre più spesso, fino a che anche Andreina non si iscrisse all'università.
Sembro gelosa, a parlare così, ma è che lo sono, non ho mai smesso di essere innamorata del mio Paperino.
Come dovrei sentirmi? Sei rientrato a Mureddu mercoledì e solo questo sabato ti sei ricordato di chiamarmi, dopo che in due mesi ti eri fatto vivo soltanto con una orribile lettera lamentosissima. E io: «Sì Paride!», «certo Paride». Sono arrivata di corsa, in macchina, per andare a fare quattro passi in un paese un po' meno soffocante del nostro, dove si possa entrare in un bar senza che qualcuno ti chieda come stanno i tuoi e com'è che non ti si vede in giro da tanto; perché tu, da un anno, non puoi più guidare. Abbiamo passeggiato, hai parlato, hai parlato. Poi sono venuti fuori Ruggiero e Bradamante: io per te sono un amico, un maestro d’arme. E io, nella speranza di una tua dichiarazione inconscia, ho ricordato che quei due erano amanti e tu, pronto, hai sostituito il nome di Ruggiero con quello di Rinaldo.
«Caterina, per me tu sei di più che un amico, sei quella sorella che non ho mai avuto».
Ma tu, ne sono certa, nelle mie parole avevi letto il lapsus freudiano che ti dischiudeva il mio corpo. E al ritorno hai voluto che ci fermassimo lungo la strada, al buio: «Per parlare». E mi sei saltato addosso, mi hai baciata, «Caterina Caterina», sospiravi, ma io sentivo «Formaggina Formaggina».
Sarebbe tutto così comico se non sapessi di volerti bene, di non avere mai smesso di amare il mio Paperino.
Incontro spesso tua madre, a lei Andreina non è mai piaciuta, e ha sempre visto in me la tua donna ideale. om'è ridicolo. Da lei so tutto dei tuoi giorni santalbini, sono sicura che ogni volta che mangi formaggio lei spera che tu ci senta un poco di me. Ha voluto il pecorino migliore. «È per Paride», mi ha detto, «fammi fare bella figura, anzi perché non lo porti tu a casa?, domani, quando c'è lui». Capisci Paperino?, «domani, quando c'è lui». E io che morivo aspettando una tua chiamata.
Se solo tu non fossi così tremendamente trasparente per me. Non sei mai stato capace di dire bugie. Riesco a leggerti in viso come in un libro. Tu non mi desideri, non ti sono mai piaciuta, e per te, non sarò mai di più che Bradamante, finché tu rimarrai Rinaldo. Credo che in psicologia la chiamino coazione a ripetere, chissà, forse e per questo che mi hai “palpata”: perché la macchina e la strada buia ti hanno fatto ripensare ad Andreina, a quando rubavi l'automobile di tuo padre per fare l'amore con lei.
L'ho vista sai, è cambiata, ha i capelli cortissimi e biondissimi adesso.
Sono una stupida, non dovrei parlarti della mia rivale.
Lo so che sono scema a scriverti tutte queste cose…
3.XI.1985 - domenica, pomeriggio
Sono troppo stanco per dormire, e questo treno non arriva mai. Prima di Santalba ci saranno ancora un milione di fermate. Savoia, Savoia. Ci hanno lasciato una linea ferroviaria ridicola. Arriverò a notte fonda, e in pullman, per di più. Santalba è collegato al resto dell'universo da un indegno troncone ferroviario. Assurdamente lento e assurdamente al servizio di ferrovieri che dopo le nove di sera si rifiutano di partire.
Ho mangiato troppo. Mia madre vorrebbe sempre che mi ingozzassi, non lo sopporto.
Il vagone è pieno di ragazzini che chiacchierano. Spero che scendano al primo paese con discoteca. Di domenica nessuno viaggia per lavoro. Quell'anziana coppia ha tutta l'aria di dover fare una visita di cortesia, quel giovanotto baffuto che legge il giornale va senz'altro a un appuntamento galante, anche quella ragazza occhialuta.
No, sono spie al servizio del governo nemico. Baffo Baffo Sette finge di leggere il giornale sportivo, in realtà lo paga mia madre perché controlli se mangerò tutta tutta la marmellata fatta in casa con le sue mani sante o se riuscirò a dimenticarla sui sedili del treno come abilmente sono riuscito a fare col pecorino a orologeria, abbandonato sul tavolo di cucina all'ultimo secondo. Quei Due Come Loro sono greci in missione a Santalba per rintracciare l'anima di Alessio Papatanàssius e controbattere le fallacie di chi sostiene che non dall'esilio ma da vile turismo marino fosse mosso l'eroe dell'antifascismo greco. Mio padre ne è certo, negli anni '60 Santalba era il rifugio di tutti i greci progressisti esiliati dai colonnelli. E lui queste cose le sa, per dieci anni è stato carabiniere, e che carabiniere. Lei, Marta Ari, legge La bella estate, ma è un avvertimento. Il Min-Pub-Istruz mi manda a dire che l'estate sta finendo e un anno se ne va, e se non comincerò il lavaggio dei cervelli che ho garantito accettando il ruolo, mi verrà recapitato un volume di Pavese contenente cianuro.
Guardo oltre il finestrino, i rari alberi e le colline di origine vulcanica sembrano di cartapesta. Non riesco più ad assegnare alle cose il loro valore. Una cosa è una cosa. Alberto Moravia che sei nei cieli dammi anch’oggi la tautologia quotidiana.
Fremo, arriva il controllore, devo nascondere la lettera per i Rosselli. Devo stare tranquillo, in fondo sono in viaggio di nozze, nessuno sospetterà di me e Stefania Sandrelli.
- Biglietti?
Il controllore è un uomo robusto, basso, vicino alla pensione.
- Favorisca la tessera ferroviaria.
Non si fida di me, è un nemico del Min-Pub-Istruz.
- È lei Paride Pintus?
No, sono Marcello Trintignant. - Sì, certo!
- Bisogna che si decida, benedetto ragazzo, o si fa ricrescere la barba oppure cambia fotografia nella tessera. Buonasera.
Si allontana, per fortuna non sa niente di Lino, sono stato io a ucciderlo.
Il treno si è fermato. Scendono tutti. Quasi. Marta Ari è rimasta, stringe ancora La bella estate tra le mani.
Il treno riparte. Lentamente, a piccoli scossoni. Ci sono nuovi viaggiatori. Vorrei che qualcuno di loro si fosse seduto accanto a me, e mi avesse obbligato a parlare di una cosa qualunque. Di calcio, di Andreotti, di Moravia. Nessuno vuol più socializzare come una volta. Non c'è pietà per chi ha paura della solitudine.
Il treno ha preso velocità. Fra un minuto mi alzerò. fingerò di voler andare a fumare e sosterò nell'antivagone. Rimarrò un po' in piedi, da solo contro il rumore del treno.
Tra un minuto.
Devo solo riuscire a trovare la coordinazione opportuna. Il cervello manda gli impulsi. I lombi scattano. Le gambe si alzano.
Ora!
- Mi scusi!
Anche Marta Ari ha avuto la mia stessa idea. Ci siamo scontrati, cavallerescamente le cedo il passo. Cammina davanti a me. Indossa scarpe basse e ha lasciato Pavese sulla poltrona. In mano ha un pacchetto di sigarette col filtro.
È venuta fin qui per fumare. Mi guarda dubbiosa. Le sorrido timidamente.
- Vuole una sigaretta? - mi chiede.
Arrossisco. Ho le orecchie caldissime.
- Non fumo grazie, è solo che non volevo più stare seduto, e allora…
Continua a fumare, sono certo che è una studentessa del liceo classico. Se abborraccio un qualche discorso di carattere letterario mi lascerà parlare, sicuramente.
- Ha cominciato da molto a leggere Pavese?
- Da una settimana.
- Le piace?
Tira una lunga boccata di fumo. - Abbastanza - dice. Insieme alle sillabe espira dense nuvolette di fumo.
- Ah!
Non riesco ad aggiungere altro, mi sento molto stupido.
- Lo leggo in treno per ammazzare il tempo.
- Dove studia?
- Non studio, lavoro.
- Capisco, la famiglia - dico cercando di toglierla dall'imbarazzo.
- Quale famiglia? - dice.
Forse sono solo io a provare imbarazzo.
- Loro avrebbero voluto che io continuassi - prosegue, con decisione, - ma io non ce la facevo più a sopportare quegli stronzi di professori. O erano tonti o erano bastardi.
Sembra molto sicura delle sue affermazioni.
- Non esagerare, non tutti i professori sono pessimi.
Fa un gesto eloquente. Agita la mano con cui tiene la sigaretta all'altezza degli occhi: che cosa ne capisci tu!
- Se mi permetti, anch'io sono un insegnante, e non mi considero né tonto e né bastardo.
- E con questo, pensi di spaventarmi? - anche lei mi dà del tu. - Uno cerca di toccarti il culo durante l'ora di ricreazione, anche se sa tutto di Petrarca, tu come lo chiami? E una che ti fa andare male alle interrogazioni solo perché avete comprato la stessa camicetta e a te sta molto meglio, tu come la chiami?
Ha parlato tutto d'un fiato, sento che è sincera.
- E tutto questo perché avrei dovuto sopportarlo? Per un pezzo di carta che poi non mi servirà a niente? Meglio andare a servizio, almeno guadagno subito e se mi toccano il culo li denuncio.
La sigaretta è finita, butta la cicca per terra e la schiaccia con la punta del mocassino.
- Che cosa credi, che siccome sei laureato sono obbligata a rispettarti? Il rispetto te lo devi guadagnare, devi meritartelo.
Si aggiusta gli occhiali, credo che consideri il discorso già chiuso.
- Ma la scuola a qualcosa serve - dico, - ti ha insegnato a leggere Pavese.
- Pavese è di una mia amica che lavora alla Upim, non della scuola.
Non ha nessuna voglia di parlare con me, mi saluta con un gesto della mano, scompare dietro la porta dello scompartimento.
- Ciao! - dico sorridendo tristemente a me stesso.
Che cosa penseranno di me, fra vent'anni, i miei alunni? Come si chiamava, ti ricordi? Paolo, no Pallido Tintus! Che stronzone, ti ricordi che stronzone era? Fra vent'anni, e adesso? Dopo quasi due mesi di lezioni?
Siamo in prossimità di un'altra stazione, il treno sta per fermarsi nuovamente. Scenderanno facce che non conosco per lasciare il posto ad altre ugualmente sconosciute. Rientro tra le file di sedili. La ragazza di Pavese è scomparsa, non può essere andata via, il treno è ancora in corsa. Ecco, si ferma. La vedo, mi passa vicino, sul marciapiede, picchio sul vetro con le nocche, le sorrido, la saluto. Lei non mi guarda, si allontana verso il sottopassaggio. Non vuole più avere niente a che fare con la specie dei professori, per questo è scesa dalla porta opposta, per non dovermi incontrare.
Il treno è ripartito. asta. Fra poche fermate arriverà al capolinea. Dalla stazione dell'unica città del Nord Sardegna andrò alla ricerca di un pullman che mi riporti a Santalba. A casa. Ci arriverò passeggiando lungo il porto. Poi cucinerò qualcosa, guarderò la tivù, e a dormire. Basta. Sono confuso. Devo smetterla, devo assolutamente decidere che cosa fare da grande. Non posso continuare a nascondermi dietro il fantasma di Andreina. Non è un mulino a vento, lei. E io non credo in nessuna morale di cavalleria errante. Se Andreina non mi ama più, io non scriverò sonetti, non metterò la testa nel forno. Ci sono cose più importanti dell'amore, in questo mondo. Il lavoro, l'amicizia. Caterina, sono stato uno stupido, l'ho martoriata con tutte le mie paranoie e non sono stato capace di chiederle come va. Bell'amico, sono. Come con Paola, lei mi ha offerto la sua amicizia e io ho subito tentato di saltarle addosso.
- Buona sera professore, come sta?
Chi è? È un ragazzino dai capelli cortissimi, è piccolo, avrà al massimo dodici anni. Dove l'ho visto?
- Mia madre dice se gradisce un biscotto, professore.
Mi volto, vedo una donna e un uomo che mi sorridono, mi aggiusto gli occhiali per vederli meglio, tutte due somigliano al ragazzo. Mi indicano un pacchetto avvolto in una carta colorata che la donna tiene sulle ginocchia.
- Buona sera - dico rivolto verso di loro.
- Gianni! - chiama la madre.
Il ragazzo le si avvicina, prende il pacchetto e me lo porge. Il profumo dei dolci è stuzzicante. Assaggio una polpetta biscotto spolverata di zucchero a velo, un “pirichitto”.
- Li fa mia nonna, in casa - spiega Gianni.
- Ne prenda un altro - insiste la madre.
Li ringrazio masticando sorridente, poi ritorno alla mia postura fingendo di aver riconosciuto l'alunno che non so chi sia.
Sto di merda, non ci sono Andreine che tengano, non devo permettermi di diventare un insegnante tonto o bastardo.
- Professore - è ancora Gianni, il mio alunno sconosciuto. Mi offre un piccolo pacchetto, certamente una parte dei biscotti fatti in casa da sua nonna. Lo ringrazio. Mi vergogno come un ladro, neanche mi volto per ringraziare i genitori. Il pensiero che possano chiedermi informazioni sul profitto del loro figlio mi provoca un forte dolore all'addome.
9.XI.85 - sabato, pomeriggio
Questa sera inaugurerò l'ultimo maglione fatto a mano dalla mia mammina. Lo ha lavorato con tanta lana e tanto amore. Fortuna che vanno di moda gli indumenti ampi. Vediamo, la tonalità dominante è il bianco, quindi camicia turchese. Bianco, jeans e turchese, il top dell'abbigliamento, indicatissimo per il ritorno al futuro di questa notte. A film intellettuale uniforme intellettuale. A me non la si fa, caro il mio Spielberg. Spielberg?, ma non era la prigione in Moravia, sì, quello scrittore che si era tagliato una gamba a morsi? Brivido.
Bene, ho tutto il tempo per procedere con calma. Sparecchiare, rigovernare, spaparanzarmi davanti al mio magnifico ventisette pollici bianco e nero modello “Campanile Sera”, e preparare gli appunti per le lezioni di lunedì nell'attesa che Paola e Nando arrivino per il cinema.
Mi piace Nando, è l'unico medico che conosco con il quale si possa parlare. Peccato sia sempre così pieno di lavoro. Sono una bella coppia lui e Paola. Innamorati. Che stupido, se penso a tutte le illusioni che mi ero fatto. «Perché continui a evitarmi? Hai un mucchio di cose arretrate? Bugiardo d'un Paride, sappi che io sono innamoratissima del mio ragazzo e che non ho nessuna intenzione di lasciarlo. Sai, può capitare di sentirsi un po' così, delle volte». Capisco. «No, tu non capisci, ma non importa, e questa sera uscirai con noi, con me e con Nando. Ti piacerà vedrai».
Dovrei invitarli a cena da me qualche volta. In fondo non deve essere troppo difficile cucinare un paio di piatti importanti. Basta saper scegliere il libro giusto.
Se Nando non mi fosse così simpatico: lui non ha il minimo dubbio sulla fedeltà di Paola.
Tivù scacciapensieri. Cerca, cerca, cerca, cerca. Humphrey! Sì. Uccidilo Boghey. Dov'è la Bacall? Parla se non vuoi che faccia cantare la mia fedele colt. Pubblicità. Panettone Piazza del Duomo, una montagna di dolce bontà.
Nando e Paola non arriveranno prima di un'ora.
Lo Strudel
Commedia in due atti e un epilogo
Personaggi
Antonio Garofaniello, 50 anni, grecista
Costantino Dicostanzo, 50 anni, barista
Pier Andrea Marcellini, 40 anni, inviato della Rai
Gigliola Giovannangeli, 30 anni, bionda ossigenata, inviato di una rete privata
Marta, 20 anni, operatore
Giorgio Notardigiacomo, sindaco di Santalba
Augusto Piras, 20 anni, studente, ragazzo di Lucia
Nando Nieddu, 20 anni, studente, ragazzo di Paola
Paola Cau, 20 anni, studentessa, ragazza di Nando
Lucia Pieromalli, 20 anni, studentessa, ragazza di Augusto
A Santalba, piccola cittadina sul mare del nord-niente della Sardegna. Durante i giorni di une prossime olimpiadi di Atene.
Atto Primo
La scena si svolge all'aperto, sulla banchina del porto di Santalba. Sulla sinistra vi è una piccola barca ammarata per riparazioni, lo scafo è rovesciato. Il maggior spazio della scena, però, è occupato dalla terrazza di un piccolo chiosco bar. Il bancone bar sulla sinistra e, sotto la tettoia di plastica ondulata verde su cui svetta un'antenna televisiva, una dozzina di sedie, disposte intorno ai tavolini, che guardano verso lo schermo gigante di un televisore sempre acceso.
Sopra il bancone sta appeso un vistoso quadro ex voto: il mare in tempesta, il braccio roccioso (Lo Strudel) che delimita la baia di Santalba e la Madonna che salva un annegato da morte sicura.
Si ode il rumore di lievi onde contro la banchina.
Il barista si affaccia sul bancone del bar con un bicchiere e un telo in mano. Asciuga il bicchiere, lo alza alla luce, lo controlla, lo ripone. Prende un altro bicchiere… Dopo qualche minuto, senza interrompere mai l'operazione, il barista guarda di fronte a sé, verso il mare. Si ode il rumore di una barca che attracca. Lo schermo non proietta nessuna immagine, solo la nebbia del segnale di interruzione.
Costantino: Già di ritorno?… Sono scappati tutti i pesci? Non fare la vittima, Alessandro, sono anni che ti ripeto che il tuo sistema di pesca non è competitivo. Devi adeguarti. Adeguarsi, o soccombere. (Guarda attentamente il vetro di un bicchiere:) Addio Alessandro, Addio. Ah, buona pesca… (Ride, senza smettere di asciugare i bicchieri).
Dal lato opposto al barista entra Garofaniello. Si accomoda su una delle sedie. Estrae un libro da una tasca della giacca. Lo legge. Costantino centra la posizione di uno specchietto retrovisore da camion che tiene sul bancone, vuole controllare il nuovo arrivato.
Garofaniello (Senza alzare lo sguardo dal libro, e in tono ironico): Ehi, Costantino, già non ti funziona questa meraviglia della tecnica?
Costantino (Continuando ad asciugare i bicchieri): Come no? Con quello che mi è costata. È l'antenna, il vento deve averla ancora spostata.
Garofaniello: Perché non vai a sistemarla.
Costantino: Chi?
Garofaniello: L'antenna!
Costantino: Perché non lo fai tu?
Garofaniello: Sicuro, se tu paghi, io vado. Per denaro sono pronto a tutto.
Costantino (Sottovoce): Anche a toglierti dai piedi.
Garofaniello: Come dici?
Costantino: Adesso arrivo, dammi il tempo di prendere la scala.
Garofaniello: Sono i giorni delle olimpiadi di Atene questi. Se non ne garantisci la visione per ventiquattro ore su ventiquattro, stai ben certo che non verrà un cane in questo tuo orribile bar.
Costantino: Tuo nonno!
Garofaniello: Come dici?… Lo sai pure tu che queste olimpiadi sono anche nostre, di tutti noi greci di Santalba.
Costantino scompare. Garofaniello si rimette il libro in tasca, si volta verso lo schermo gigante e aspetta. Dopo qualche attimo e molto rumore, compare Costantino che regge una scala a pioli.
Garofaniello: Ce l'hai fatta, credevo ti fossi perso nel retrobottega.
Costantino non gli risponde. Poggia la scala sul bordo della tettoia e sale. Quasi stesse camminando sul filo, muove pochi passi in direzione dell'antenna.
Garofaniello: Allora!?! Qui non si vede ancora niente.
Costantino, dall'alto, gli fa un mal gesto. Finalmente arriva all'antenna, la gira, la rigira.
Costantino: Come va? Capta l'immagine?
Nello schermo comincia ad apparire qualche immagine, ma dura solo qualche frazione di secondo.
Garofaniello: Non si capta un bel mazzo di niente, non si capta.
Costantino: E adesso?
L'immagine è regolare, alcuni atleti si dispongono per la partenza di una gara di velocità.
Garofaniello: Così va bene, puoi scendere. (L'immagine scompare:) No! Sistemala, presto. C'è Metaxas in gara.
Costantino: Chi?
Garofaniello: Metaxas, Nikos Metaxas, il miglior velocista greco degli ultimi tempi.
Costantino è impegnato a “lottare” con l'antenna. Ritorna l'immagine per qualche istante. Gli atleti sono in piena corsa.
Garofaniello: Dai, dai. (Lo schermo si annebbia ancora una volta:) Buono a nulla!
Costantino: L'ho detto io, che quel Metaxas è una schiappa.
Garofaniello: Non lui, tu sei un buono a nulla. Non sei capace nemmeno di tenere su un'antenna per quei pochi secondi necessari per una gara di cento metri piani.
Costantino: Oh basta! Ho altro da fare io che farmi offendere da un grecista perdigiorno.
Scende giù dal tetto. Indispettito prende la scala e la rimette nel retrobottega, ancora una volta con grande trambusto. Ricompare dietro il bancone del chiosco. Si lava le mani, se le asciuga. Garofaniello, intanto, riprende a leggere. Costantino, ancora indispettito, lo guarda attraverso lo specchietto che tiene sul banco.
Costantino (Mutando espressione, saluta qualcuno che passa): Ehilà, come va, vecchio? Sempre in gamba!
Garofaniello: Che modo di parlare, neanche fossimo in un film americano degli anni '50.
Costantino (A Garofaniello): Il signore desidera?
Garofaniello: Niente, grazie!
Costantino: Il cliente che non intende consumare non è un cliente…
Garofaniello: Che cosa vuoi dire, che dopo anni che vengo a sedere qui tu non mi consideri un cliente?
Costantino: Il cliente che non consuma non è un cliente. Il tempo è danaro.
Garofaniello: Denaro, denaro. Ignorante.
Costantino: Insomma, se non intende consumare è pregato di sloggiare. Immediatamente.
Garofaniello: Ma sei impazzito? Mi cacci? A me? Antonio Garofaniello?
Costantino: Insomma basta. Questo bar è mio e lo gestisco a modo mio. Senza consumazione non puoi usare le mie sedie.
Garofaniello si alza dalla sedia e va a sedersi per terra, appena oltre l'ultima sedia della terrazza.
Costantino (Salutando un immaginario qualcuno che passa): Buongiorno, ossequi alla signora.
Il passante però non sembra essersene andato, perché Costantino a gesti e mimica facciale sembra dargli spiegazioni sul perché “quel matto” di Garofaniello sta seduto per terra.
Costantino: Di nuovo, ossequi alla signora. Buona passeggiata.
Entra Nando, tra le mani ha un piccolo secchio. Va verso la barca.
Nando: Buongiorno a tutti.
Garofaniello: Hmm.
Costantino: Ciao, Nando. Viene su bene la barca!
Nando: Già, presto la metteremo a navigare. (Poggia il secchio accanto allo scafo, ne trae alcuni attrezzi, sceglie una spatola e, con questa, prende a raschiare la chiglia:) Ehi, Garofaniello, che fai seduto per terra?
Garofaniello: Il non cliente.
Nando: Il non cliente? Non capisco.
Garofaniello: È facile. Chi non consuma non è un cliente, e il non cliente non ha diritto alla sedia.
Nando: È vero Costantino?
Costantino: Verissimo.
Nando (Sospendendo la sua operazione): Non si direbbe ma è un lavoro che stanca, perché non è tanto la fatica, quanto la precisione che devi metterci che ti butta giù. Che ne dici, Antonio, ce la facciamo una mezza birra?
Garofaniello: Hmm.
Nando va verso il banco, prende i due bicchieri e la bottiglia che Costantino gli porge, poi va verso Garofaniello e li poggia sul tavolino. Si accomoda su una delle sedie.
Nando: Alla salute.
Garofaniello (Alzandosi e poi mettendosi a sedere sulla sedia con grande lentezza): Alla salute.
Nando: Non è delle migliori, ma si lascia bere. Non sei d'accordo?
Garofaniello: Diciamo che fa schifo, e che il padrone di questa stamberga non ha rispetto per i suoi clienti.
Nando: Sssht.
Costantino ha un gesto di stizza. Garofaniello beve tutto d'un fiato e si rimette in piedi. Va verso la barca e continua il lavoro dove Nando lo ha lasciato.
Nando: Lascia, Antonio. Non devi affaticarti, la tua lesione, lo sai.
Garofaniello: Non è fatica, questa.
Costantino: Antonio, non fare lo stupido.
Garofaniello: Stai zitto, tu!
Nando: Lascia, Antonio, ancora non sono diventato un medico, ma, per il tuo bene, ti proibisco di fare certi sforzi.
Garofaniello (Abbandonando gli attrezzi): Ti ho mai raccontato di quella volta che mi sono ritrovato a Patrasso senza una lira e una fame da non vederci più?
Costantino fa dei vistosi gesti di noia, Nando gli fa cenno di lasciar stare.
Garofaniello: Mi sono messo al centro di una piazza è ho improvvisato Paese mio, Santalba antica. (Sulla melodia di un sirtaki, accenna qualche parola di una canzone:) Sant-alba di fuo-co, Sant-alba di a-cqua, Sant-alba di te-rra, Sant-alba di a-ria, Sant-alba mia… Un successo. Cantavo e ballavo. (Accenna a qualche passo di danza:) Pochi minuti e avevo le tasche piene di dracme.
Nando: Altri tempi. Allora, i greci, ancora si ricordavano di noi. Gli servivamo allora!
Costantino: C'era in gioco la vita di Alexis Papatanhassious allora, gli servivi per coinvolgere l'opinione internazionale. Non come adesso, che per inaugurare le olimpiadi di Atene hanno chiamato cani e porci, a patto che non fossero di Santalba.
Nando (Come se leggesse da un immaginario giornale): Antonio Garofaniello si incatena ai cancelli dell'aeroporto di Atene per protestare contro l'incarcerazione di Alexis Papatanhassious.
Costantino: Se ne occuparono perfino i giornali di Sidney. Gli servivamo, allora. Com'era quel titolo? Da Santalba il grido che parla con la voce di Omero: liberate Papatanhassious. Ma oggi? Quand'è l'ultima volta che si è visto un Greco da queste parti?
Garofaniello: Ma come potete parlare in questo modo? Noi, noi siamo Greci. Siamo i greci di Sardegna, e dobbiamo gridarlo con orgoglio.
Nando: Ma dai. All'epoca dell'Impero d'Oriente siamo stati greci, quando qui comandavano i Bizantini e a Santalba era stata impiantata una colonia. Ma oggi? Dopo quasi mille anni che sono andati via, chi può ancora dirsi greco, qui a Santalba?
Garofaniello: Io, sono greco, e poi sardo, e poi mediterraneo, e poi europeo.
Costantino: E poi fesso.
Garofaniello: Fesso, certo! Però io almeno sono stato utile a qualcuno, io l'ho pagato il mio tributo alla storia. Guarda!
Si toglie la giacca, solleva la camicia e gli mostra la schiena nuda, poi la mostra a Nando. Alcune vistose cicatrici gli segnano la colonna vertebrale. Si ricompone.
Garofaniello: E tu? Tu non sai nemmeno far funzionare questo maledetto televisore.
Nando: Già, com'è che non arriva il segnale?
Costantino: Dipende dall'antenna. C'è troppo vento qui, e non vuole stare ferma.
Nando: Devi fissarla meglio. Non ha senso che ti sia fatto sistemare questo schermo gigante ultra moderno per far uscire di casa la gente, se poi non si vede altro che nebbia.
Costantino: Oh, basta, ci ho già provato. La salsedine ha fatto andare a male le viti e non regge più niente, lassù.
Nando: Ma ci sono le olimpiadi di Atene. Se il tuo televisore non funziona non verrà nessuno al bar.
Costantino: Senti, qui c'è la scala.
Costantino scompare un'altra volta e, dopo qualche attimo di grande rumore, ricompare con la scala di prima. Nando la prende e la poggia alla tettoia. Costantino ritorna ad asciugare bicchieri. Con il solito specchietto, di tanto in tanto, controlla l'operato dei due.
Nando: Dammi una mano Garofaniello.
Garofaniello gli regge la scala. Nando, salito sul tetto, arriva fino all'antenna camminando carponi. Si siede e l'antenna sembra spuntargli dall'inguine. Comincia ad armeggiarci intorno con molta delicatezza. Poi si ripete la scena di prima, questa volta le immagini sono di una corsa a ostacoli.
Nando: Come va? Si vede qualcosa?
Garofaniello: No.
Nando: Come va? Si vede?
Garofaniello: No. Solo nebbia.
Nando: Come va?
Garofaniello: Nebbia. No! Ci siamo, così va bene, sono partiti.
Nando: Lascio?
Garofaniello: Di nuovo nebbia.
Nando: E ora?
Garofaniello: Tienila così. No…, come prima.
Nando: È inutile. Non reggono le viti. Ci vorrebbero dei tiranti.
Entrano Pier Andrea Marcellini, Gigliola Giovannangeli e Marta. Gigliola porta a tracolla un registratore, Marta regge sulla spalla una pesante telecamera. Sono entrati dalla parte della barca e vanno subito al bancone. Marta Riprende un dettaglio della barca, poi una panoramica del pubblico, poi un primo piano di Garofaniello, Nando sul tetto e poi quando scende dalla scala aiutato da Garofaniello. Poi i due giornalisti che parlano tra loro.
Intanto, Nando e Garofaniello, seduti al tavolino, finiscono la birra e ascoltano.
Marcellini (Parlerà sempre come un giornalista da talk show molto pieno di sé): Ti consiglio un vermentino della Cantina Sociale di Santalba, funziona benissimo come aperitivo.
Gigliola (Parlerà sempre con un leggero accento romanesco): D'accordo.
Marcellini: Per la tua amica?
Gigliola: Lei non beve, lei non si nutre, lei solo registra.
Marcellini: Ma va?
Gigliola: Marta, vuoi prendere qualcosa?
Marta: Hmm.
Gigliola: Che cosa?
Marta: Hmm.
Marcellini: Va bene un vermentino?
Marta: Hmm.
Marcellini: Tre vermentini di Santalba.
Costantino (Che seguirà i discorsi dei due con mal dissimulato interesse): Arrivano.
Gigliola: Credi che dovremo aspettare ancora per molto, in questo buco?
Marcellini: Chi può dirlo, un giorno, una settimana, un'ora.
Gigliola: Una settimana? Non posso trattenermi per più di un'altra notte, io.
Marcellini: Pensa che io sono arrivato da più di una settimana e ancora non è successo niente.
Gigliola: Come niente? C'è stata la frana sulla parete est. E poi lo smottamento di giovedì.
Marcellini: Sì, ma tutto risulta sotto controllo. Secondo il sindaco non accadrà niente. Lo Strudel, come lo chiamano loro, continuerà a delimitare la baia di Santalba fino al giorno del Giudizio.
Gigliola: Balle. Qui tutto può crollare da un momento all'altro, e quel che è peggio è che noi potremmo non esserci, in quell'istante.
Marcellini: Io ci sarò. Ho altre due settimane a disposizione.
Gigliola: Senza la troupe, però. Mi spieghi che servizio ne caverai fuori quando qui crollerà tutto?
Marcellini: Un magnifico servizio, la mia penna farà piangere calde lacrime anche al più cinico dei telespettatori.
Gigliola: Balle. La gente se ne sbatte delle parole, la gente vuole immagini forti. Vuole sangue. E con la concorrenza di ste maledette olimpiadi di Atene, già me l'immagino chi starà a sentirti: nessuno!
Marcellini: Tu credi?
Gigliola: Sangue e merda, questo è ciò che vuole la gente. Sangue e merda.
Marcellini: Anche la tua operatrice, la pensa come te? Non sta ferma in secondo.
Costantino: Chiedo scusa, ma mi pare di aver capito che siate dei giornalisti.
Marcellini: Ha proprio indovinato. La signorina qui presente è la reporter d'assalto Gigliola Giovannangeli di canale 47, e io sono Pier Andrea Marcellini, inviato Rai.
Costantino: Ecco, senza volerlo, ho ascoltato i vostri discorsi, e, se mi è concesso, ecco, io penso che stiate perdendo il vostro tempo, se mi è permesso.
Gigliola: Cazzo che tatto!
Marcellini: Non si lasci impressionare, dica, di grazia, perché staremmo perdendo il nostro tempo?
Costantino: Ecco, capo Santalba… (Fa una breve pausa per indicare l'ex voto sopra la sua testa:) Lo Strudel, come lo chiamiamo, noi.
Gigliola: Cazzo, che schifezza paranoica.
Marcellini: Dica, la prego, continui.
Costantino (Risentito, si rivolge solo a Marcellini): Lo Strudel, non cadrà mai. Voi potreste stare qui altri cent'anni e ancora lo trovereste lì, alto, imponente, a proteggere Santalba dall'impeto del mare.
Marcellini: Che poeta.
Gigliola: E che ignorante. Si vede che no sa un tubo di niente di geologia. Il vostro Strudel è solo una parvenza di roccia, le sue fondamenta da più di dieci anni non poggiano più su niente, è solo un lungo ramo rinsecchito che aspetta un soffio di vento per staccarsi dal fusto.
Garofaniello: Una bella immagine. Complimenti, peccato che sia completamente falsa.
Gigliola: E questo chi è?
Garofaniello (Alzando il bicchiere alla sua salute): Antonio Garofaniello, narratore, poeta, saggista, pittore e cantante, per servirla.
Gigliola: Gigliola.
Marcellini (Chinando leggermente il capo): Pier Andrea Marcellini, inviato speciale.
Nando (Alzandosi dalla sedia): Nando Nieddu. Studente. Medicina. Terzo anno.
Marcellini: Lei è Marta.
Marta (Che non ha smesso di filmare): Hmm.
Costantino (Richiamando l'attenzione): Hm hm!
Marcellini: Sì…
Costantino: Costantino Dicostanzo, musicista.
Gigliola: E che è, siete tutti artisti in questo paese?
Marcellini: Mia cara, devi sapere che Santalba è un luogo particolare. Pieno di magia e folclore.
Garofaniello: Niente di tutto questo. Né magie e né leggende. Santalba ha una sua storia, una sua tradizione e una sua lingua. Una precisa peculiarità che noi santalbini abbiamo il dovere di difendere.
Costantino: Bravo Antonio.
Gigliola: Ma chi vi ha chiamato? Che volete?
Gigliola si appoggia alla barca, Marcellini prende una sedia e siede accanto a Garofaniello e Nando.
Marcellini: La prego, signor… cantante.
Garofaniello: Garofaniello Antonio.
Marcellini: La prego, continui.
Garofaniello: Come loro certamente sapranno, quando venne diviso l'Impero Romano…
Gigliola: Che palle… Non me ce potevano manna' a me, a Atene? No, hanno preferito quel cornuto d'Alfonso. (Rivolta a Marta:) E basta co' sta telecamera.
Marcellini: Prego, continui, fa così con tutti. E tu, Marta, riprendilo in primo piano, gli occhi e la bocca, mi raccomando.
Garofaniello: Con il crollo dell'Impero d'Occidente, in Sardegna arrivarono i Vandali.
Gigliola: Già, e magari Attila è nato da ste parti.
Marcellini: Ma sì, ha ragione lui, da qui i Vandali si spinsero in Africa, anche, non è vero? signor…
Garofaniello: Garofaniello. Arrivarono fino a Cartagine.
Marcellini: A Cartagine, per l'appunto.
Gigliola: Si va be’, ma che stiamo a fare, una telenovela? Non potrebbe farci un bignamino un tantinino più stringato.
Garofaniello: I vescovi Cartaginesi, quando le cose cominciarono a mettersi male, decisero di fondare alcune colonie lungo le coste della Sardegna. E qui, a Santalba, si stabilì la colonia bizantina più forte, quella…
Gigliola: Che c'entrano i Bizantini, adesso?
Nando: I Cartaginesi…, erano Bizantini.
Gigliola: Ma non erano Fenici i Cartaginesi?
Marcellini: L'Impero d'Oriente, che dominava sul Mediterraneo dal…, grosso modo…
Garofaniello: Trecentotrenta dopo Cristo.
Marcellini: Fino al…
Garofaniello: Millequattrocentocinquantatrè.
Marcellini: Fino al millequattrocentocinquantatrè, secondo alcuni storici è ricordato anche come Impero Bizantino.
Gigliola: E perché?
Costantino: Perché la cultura dominante era quella greca.
Gigliola: Anche i greci ci mettiamo in mezzo, adesso?
Marcellini: Ma sì, cara, la cultura dominante, all'epoca era quella greco-bizantina.
Marta smette di filmare, deve cambiare la cassetta. La inserisce nel video collegato allo schermo, gli altri non le badano finché sullo schermo non compaiono i loro volti. Tutti fingeranno di non essere troppo interessati a se stessi, a parte Costantino che, a causa della pochezza del suo specchietto retrovisore, uscirà dal suo gabbiotto.
Gigliola: E i latini, allora? Dove li mettiamo?
Garofaniello: I latini si limitavano a tradurre, quando erano in grado, più spesso falsificavano le scritture.
Gigliola: Ma guarda sto pozzo di scienza, cantante, pittore, ballerino, storico, e moralista, anche.
Marcellini: Non le badi, dottor Garofaniello. Prosegua, è molto interessante ciò che dice.
Garofaniello: Nel cinquecentosette, i vescovi di Cartagine e di Ipona fondarono Santalba e il santuario dedicato a Sant'Agostino, il cui corpo è stato custodito dai Santalbini fino al sacrilegio compiuto dai Pisani in epoca tardo-giudicale, che lasciò ai Santalbini soltanto il mantello del Santo, che da allora adorna la statua lignea della Nostra Signora del mare.
Gigliola: Sant'Agostino, chi? Quello del libero arbitrio?
Marcellini: Non mi dica, qui a Santalba, per oltre cinquecento anni, sono state custodite le spoglie di Sant'Agostino?
Garofaniello: È in tutti i libri di storia.
Costantino: E già.
Marcellini: E già!
Garofaniello: In ragione di ciò, della presenza delle sante reliquie, Santalba divenne l'ultima roccaforte greca nell'isola, e mentre fuori le mura i Santalbini utilizzavano il volgare latino che presto diede origine alla lingua sarda, dentro le mura, noi Santalbini, abbiamo continuato a parlare orgogliosamente il greco. Ed è per questo, che oggi, a ragione, noi Santalbini siamo considerati i Greci di Sardegna.
Gigliola: E ballate il sirtaki, e bevete retsina.
Nando: Ma che, balliamo disco-music, e beviamo birra.
Garofaniello: I giovani, i giovani soltanto.
Costantino: Tutta colpa della televisione.
Gigliola (Quasi fosse un'offesa diretta a lei): Ehi!
Garofaniello: Sicuro, questo media trita tutto, che impasta qualsiasi forma culturale per ricavarne giganteschi polpettoni premasticati.
Marta manda l'avanti veloce.
Costantino: Ma che fa, sta cancellando tutto?
Marcellini: La prego, non esageri, qualcosa di positivo, alla televisione di Stato, bisogna pur riconoscerla.
Garofaniello: Certo, la massificazione, l'omogeneizzazione, l'analfabetismo di ritorno.
Gigliola: Cazzo! Dai, Marta, spegni sto coso che mi sono rotta.
Marta: Hm! (Con un filo collega la sua telecamera al video. Sullo schermo cominciano a comparire i volti in “diretta”).
Gigliola: Spegni e andiamocene. Marta, ti decidi o no?
Costantino: Ma siamo noi, adesso…
Nando (A Marcellini): Gli chieda…
Marcellini: Prego?
Nando: Gli chieda di Papatanhassious.
Marcellini: Papatanhassious? Alexis Papatanhassious, l'eroe di Cipro?
Nando: Sì. Alexis Papatanhassious, l'eroe di Cipro!
Marcellini: Professor Garofaniello, Alexis Papatanhassious, le dice niente questo nome?
Garofaniello si alza dalla sedia e intona il sirtaki, questa volta però, prima canta un lento recitato in una lingua greca impossibile, e poi, quando Costantino suonerà il mandolino, goffo e lento danzerà fino a cantare con l'affanno. Marta ne riprende per intero la performance, con molto interesse per i passi di danza e per i primi e primissimi piani. Quando Garofaniello si renderà conto di essere l'unico protagonista sullo schermo darà le spalle al pubblico per potersi guardare.
Garofaniello: Separakalà perimènete mia, elàte mazhì mu. Dhen-gatalavèno. Dhe thèlona sas enochlìsso…
Marcellini: Che cosa dice?
Nando: È greco.
Marcellini: Già, ma non riesco a coglierne il significato.
Garofaniello: Polì evyenikò ek mèrus sas. Milàte italika, anghlikà ghallika?
Nando: Si capisce, è il greco che parlano i vecchi di qui, un miscuglio di greco, latino, spagnolo, sardo, italiano…
Marcellini: Sì, ma che dice? Che cosa significa? È un canto in memoria di qualcuno, mi pare.
Garofaniello: Kiniphòtopos, kiniyetikì, periochì, proponitìs, rèfari, apovoli, termatofìlakas, podhosferistìs. Podhosferistìs. Podhosferistìs…
Nando: All'incirca. Dice, fratello, tu sei mio fratello, saremo fratelli per sempre, anche nell'aldilà, Alexis, oh, Alexis, fratelli, fratelli per sempre.
Marcellini: Capisco, capisco. Ma lui, sto Garofaniello, che cosa ha avuto a che fare con Papatanhassious?
Garofaniello: Kiniphòtopos, kiniyetikì, periochì, proponitìs, rèfari, apovoli, termatofìlakas, podhosferistìs. Podhosferistìs. Podhosferistìs…
Nando: È stato lui a farlo liberare dal carcere dei Colonnelli.
Marcellini, GIGLIOLA: Che cosa?
Gigliola va ad occupare il posto lasciato vuoto da Garofaniello. Costantino scompare per un attimo, poi ricompare con un mandolino. Accompagnerà la danza di Garofaniello.
Garofaniello: Separakalà, perimènete mia. Elàte mazhì mu dhen-gatalavèno. Dhe thèlona sas enochlìsso. Polì evyenikò ek mèrus sas. Milàte italika. Milàte anghlikà. Milàte ghallika. Podhosferistìs. Podhosferistìs. Podhosferistìs…
Nando: Non ricorda? Ne parlarono tutti i giornali dell'epoca; perfino io, che non dovevo avere più di due anni, allora, ricordo tutto per filo e per segno?
Marcellini: Nel settantuno?…
Nando: Nel settantadue.
Marcellini: Nel settantadue, un italiano si era dato fuoco in una piazza di Atene per protestare contro la dittatura.
Nando: No, nessuno si è dato fuoco. Garofaniello, che era partito da Cipro insieme a Papatanhassious…
Marcellini: Insieme a Papatanhassious!?
Garofaniello: Milàte italika. Podhosferistìs. Milàte anghlikà. Podhosferistìs. Milàte ghallika. Podhosferistìs. Podhosferistìs…
Nando: Erano grandi amici.
Marcellini: Grandi amici.
Nando: Ha letto Sotto le onde del mare?
Gigliola: Sì!
Marcellini: Il longseller di Alexis Papatanhassious.
Garofaniello: Milàte podhosferistìs. Ghallika milàte, proponitìs rèfari…
Nando: C'è un personaggio, il coprotagonista…
Gigliola: Nikos Giglio.
Nando: Sì, Nikos è…
Marcellini: È?…
Nando (Indicando Garofaniello): È lui.
Gigliola: È lui che si è incatenato al cancello dell'aeroporto di Atene? Che ha subito le più atroci torture pur di riuscire a liberare Alexis Papatanhassious.
Nando: Già, e a causa delle lesioni subite non può svolgere nessuna attività fisica, e lo stato gli riconosce una misera pensione da accattoni.
Garofaniello: Kiniphòtopos, kiniyetikì, periochì, proponitìs, rèfari, apovoli, termatofìlakas, podhosferistìs…
Marcellini: Antonio Garofaniello, questo personaggio da operetta d'altri tempi, è Nikos Giglio? Incredibile. Ma ne è certo?
Gigliola: Ne sei proprio certo?
Nando: Ecco, certo, certo, no. Ma insomma, lui è così che la racconta.
Marcellini: Ma guarda che interessante. Davvero interessante.
Gigliola: E già. Nell'attesa che venga giù sto Strudel, potrei utilizzarlo per servizio…
Marcellini: Ma allora tu non sai?
Gigliola: Che cosa?
Marcellini: Niente, poi ti dico.
Gigliola: Ma chi te capisce?
Dopo il velocissimo crescendo finale, la musica e la danza si interrompono. Marta poggia la telecamera su un tavolino e fa degli inchini alla giapponese prima a Garofaniello e poi a Costantino. Gli altri applaudono. Intanto la telecamera continua ad andare e riprende dall'inguine al collo escludendo le teste. Gigliola accende il registratore e va col microfono verso Garofaniello.
Marcellini: Professor Garofaniello, senta…
Il sipario si chiude per riaprirsi dopo qualche secondo.
La scena è la stessa, Augusto è in piedi sul tetto che armeggia con l'antenna, accanto alla scala Costantino osserva il funzionamento dello schermo. Nando e Paola lavoreranno alla barca per tutta la scena. Entra Lucia.
Lucia: Augusto! Che fai lassù? Scendi ti prego. Nando, diglielo anche tu, che scenda.
Augusto: Come va, Costantino?
Costantino: Magnifico, sembra quasi di stare al cinema.
Da questo punto in poi, senza sonoro, sullo schermo passeranno immagini di gare di un qualsiasi meeting di atletica, inframmezzate da gare di nuoto.
Augusto: Te l'avevo detto, con un pochino di pazienza, e qualche centimetro di spago, avremmo sistemato tutto.
Lucia: Augusto, scendi, ti prego.
Augusto: Adesso potremo goderci ogni attimo delle olimpiadi d'Atene, “le nostre” olimpiadi (Ride).
Costantino: Le olimpiadi di Garofaniello, sono solo sue, non nostre.
Paola: Io non credo che dovremmo ridere troppo di Antonio. In fondo non ha del tutto torto. Se lasciamo che ci tolgano anche questi ultimi sussulti di grecità, che cosa ci rimane?
Costantino: Tutto: il sole, il mare, il cielo…
Augusto (Scendendo dalla scala): Lo iodio…
Lucia gli va incontro e lo abbraccia, rimarrà incollata a lui per tutta la durata della scena.
Nando: Lo Strudel.
Paola: I chioschi che vendono perline e specchietti, i politici corrotti.
Augusto: I libri sulla storia e la lingua di Santalba sponsorizzati dal comune e pagati coi soldi dei contribuenti.
Paola: E poi più niente, quando capo Santalba sprofonderà nel mare.
Costantino va a riporre la scala nel retrobottega. Dopo qualche momento di rumore, riappare dietro il bancone, dove si metterà a gingillare con bottiglie e bicchieri.
Nando: Lo Strudel non ci abbandonerà mai.
Costantino: Ero un bambino, io, quando cominciarono ad arrivare le prime cornacchie annuncianti l'erosione della roccia, e invece, guardatelo. È sempre lì, alto, imponente, maestoso…
Paola: Sbriciolato.(Passa con più forza la carta vetrata sulla chiglia).
Nando: Ma sì, anch'io sono convinto che non cadrà mai.
Paola: Siete così ottusi da non rendervi conto che, ogni volta che lasciate che qualcuno entri nelle grotte del Tritone, commettete un omicidio preterintenzionale. Ogni giorno rischiamo la carneficina soltanto per salvare il look di questo lercio buco di mondo.
Lucia: Sono magnifiche le grotte del Tritone. Quando con la barca entri nell'antro sotto Capo Santalba… l'ottava meraviglia!
Augusto: È verissimo. Ma quali sono le altre sette?
Nando: Mammolo, Pisolo, Brontolo…
Lucia: Ignorante.
Paola: Ma chi me lo fa fare a perdere tempo con voi.
Lucia: Ma perché lo chiamate Lo Strudel, vivo a Santalba da più di due mesi e ancora non sono riuscita a saperlo.
Nando: È semplice, devi solo guardarlo. Che ti fa venire in mente?
Lucia: Un…, un…
Augusto: Quello no, tesoro, quello non dirlo, non in pubblico, almeno.
Lucia: Volevo dire un braccio… a cui è stato spezzato il pugno, però.
Paola: Fantastico, ed è così che era Capo Santalba fino al Cinquantasei; un braccio disteso sull'acqua con un enorme pugno chiuso. Fino alla notte del sei maggio, quando il pugno scivolò nell'acqua trasformando la tenuta del Bizantino in una palude e provocando il crollo di un'ala di villa Santalba…
Costantino: Questo scrissero i giornali e questo vollero far credere quei furbi milanesi per intascare l'assicurazione, ma lo smottamento del Cinquantasei non ebbe nessuna conseguenza diretta né con il crollo della villa e né con l'allagamento della tenuta.
Augusto: Credo che Costantino abbia proprio ragione, il Bizantino, da campo incolto che era, è diventato una camping lussuosissimo, e villa Santalba è divenuta un mega hotel per turisti ricchissimi.
Nando: Coi soldi stanziati dalla Protezione Civile…
Lucia: C'era già l'attuale ministro?
Nando: Non so, credo di sì, forse…
Lucia: Però, ancora non mi avete detto perché Capo Santalba la gente di qui lo chiama Lo Strudel.
Augusto: Ma è facile, perché è una torta, e ogni politico se ne accaparra una fetta.
Lucia: Davvero? Che carino.
Paola: Stronzate.
Costantino: Vedete questo? (Indica l'ex voto sopra la sua testa:) Questo quadro? Lo dipinse Garofaniello nel sessantasei. Eravamo giovani allora. Una mattina uscimmo in mare nonostante il vento di tramontana che già minacciava il suo arrivo. Eravamo giovani. A largo, uno sbandamento terribile della vela mi gettò in acqua. Garofaniello riuscì a farmi risalire, tuffandosi subito dopo di me. Ma io ero quasi svenuto, avevo in corpo non so quanti litri d'acqua salata, non ero più utile a niente, mi sentivo morire. E lui, Antonio, per lo sforzo che aveva compiuto, non era in grado di risalire sulla barca da solo. Rimaneva aggrappato a una cima, in attesa di recuperare le forze, ma il mare brutto, la barca non più governata… Sarebbe morto, e forse sarei morto anch'io. Fu a quel punto che la Nostra Signora del mantello ci venne in aiuto. Alexis ci raggiunse con il suo piccolo motoscafo e ci portò a riva, in una delle calette di Punta del Tiglio, ci trascorremmo una notte e tutta una mattina, tra quei sassi, fino a quando non passò la tramontana. Chiesi a Garofaniello di dipingere questo quadro per ringraziare la Vergine del Mantello. È così che è nato Lo Strudel.
Lucia: Non ci ho capito niente, assolutamente, niente.
Paola: L'Alexis che hai nominato è Papatanhassious?
Costantino: Certo.
Paola: Adesso, mi è chiaro.
Nando: Ma no, che non è chiaro, non è chiaro proprio per niente. (Cominciando a rivelare la sua gelosia nei confronti di Paola:) Che cosa sai, tu, che non sappiamo anche noi, di Alexis Papatanhassious?
Augusto: Eh Nando, se invece di studiare anatomia, anche tu studiassi letteratura come la tua fidanzatina, avresti già capito tutto da un pezzo!
Lucia: Mi volete spiegare?
Costantino: Che cosa le ricorda il Capo Santalba dipinto qui da Antonio Garofaniello?
Lucia: Uno strudel.
Augusto: E come si intitola la prima silloge poetica pubblicata da l'allora giovanissimo Alexis Papatanhassious, autore greco cipriota da anni candidato al Nobel?
Lucia: Come?
Nando: Lo…
Costantino: Lo Strudel, perché quel fesso di Garofaniello non sa tenere un pennello in mano. Altrimenti quel primo libro di Papatanhassious oggi si intitolerebbe Capo Santalba.
Nando: Ma erano davvero così amici?
Costantino: Da non potersi sopportare, Antonio gli andava dietro come un cagnolino, e Alexis non muoveva un passo senza di lui.
Lucia: Ma che storia è questa? Non ho mai saputo che Alexis Papatanhassious fosse di Santalba.
Costantino: Non lo è infatti, si trovava qui in vacanza.
Paola: Stronzate. Alexis tentava di organizzare la resistenza Santalbina. Non era un turista.
Nando: Alexis lo chiama. Gli dà del tu. È entrata nelle sue grazie. Sono diventati amici. Basta così poco alla mia ragazza per diventare amica di qualcuno.
Paola non gli bada e continua a lavorare.
Augusto: Amico, amico, amico, … arrivasti di notte col soffio del vento, … amico, amico, amico, … io ti cercavo …
Lucia: Che cos'è?
Paola: È questo, Lo Strudel?
Augusto: La poesia d'apertura della prima e unica raccolta poetica pubblicata dal Papatanhassious, il romanziere più pagato in Europa. È lì che si parla di grotte dove nascondere le armi e biblioteche per preparare i cervelli.
Costantino: Ma sono tutte balle. Alexis era ed è un puttaniere ubriacone, e Antonio Garofaniello era ed è un buono a nulla esaltato.
Quando Costantino pronuncia la parola puttaniere Nando ha un evidente moto di stizza.
Lucia: Non è questo che volevo sapere… Che cos'è che ha Nando?
Augusto: Ah, ti riferivi a quello! Sciocchezze, Paola ha conosciuto Alexis Papatanhassious personalmente; in un congresso mi pare.
Nando: E il bel Papatanhassious la aspettava, capisci? Non si sono mai persi di vista durante due giorni interi.
Lucia: Paola! Voglio sapere tutto.
Paola: Ma non è vero niente. Alexis…
Nando: Senti come lo dice bene: Alexis…
Paola: Alexis… aveva saputo che al congresso di Letterature, Lingue ed Etnie di Cagliari dove lui teneva la relazione di apertura avrebbero partecipato alcuni Santalbini e ha voluto conoscerci, me e Irene. Tutto qui.
Costantino: Peccato che non ci fosse Antonio con voi, ne avreste visto delle belle.
Augusto: Si parla del diavolo.
Entra Garofaniello, sembra molto frustrato. Intanto, Nando rivolge qualche silenziosa domanda a Paola, che gli risponde infastidita e a gesti.
Lucia (A Garofaniello): Ma è vero che conosci Alexis Papatanhassious? Perché non ce ne parli mai?
Garofaniello va a sedere molto vicino allo schermo gigante, sembra molto interessato alle gare.
Costantino: Oh, ne parla, ne parla.
Lucia: Quando ne parla?
Nando e Costantino mimano il gesto di una bevuta, Costantino alzando il bicchiere vuoto, Nando succhiandosi il pollice. Paola gli dà un colpo sulla mano.
Lucia: Quando ne parla?
Augusto (Sottovoce): Quando ha bevuto.
Lucia: Molto?
Augusto: Molto!
Augusto si scioglie dall'abbraccio di Lucia per andare verso il bar. A gesti si fa dare una bottiglia e tre bicchieri. Due bicchieri li dà alla ragazza. Vanno al tavolo di Garofaniello, si siedono. Augusto riempie i tre bicchieri. Uno lo porge a Lucia, un altro lo avvicina a Garofaniello.
Augusto: Di', è vero che non ti sei lasciato intervistare? Ma perché?
Garofaniello non risponde.
Costantino: Quei fessi di giornalisti si sono stanziati qui in attesa della caduta a mare dello Strudel. (Intanto che parla sistema lo specchietto retrovisore): Idioti. Aspetteranno mille anni, e nel frattempo, per ammortizzare le spese intervisterebbero perfino il diavolo.
Augusto: Di', com'è la giornalista di canale 47, è davvero bella come sembra in tivù?
Lucia: Quell'oca di Gigliola Giovannangeli!
Garofaniello non risponde.
Nando: A me non è sembrata tanto stupida.
Lucia: Non dirmi che piace anche a te. Ma se è ossigenatissima.
Nando: Davvero? Non ci ho fatto caso.
Paola lascia il suo lavoro e va verso il tavolo. Prende il bicchiere di Augusto e beve. Garofaniello distoglie lo sguardo dallo schermo e la saluta con grande tenerezza.
Garofaniello: Ciao!
Nando PAOLA: Avresti potuto cavarne qualche lira. Perché non hai lasciato che ti facessero qualcuna delle solite domande sulla grecità di Santalba? Sei un maestro tu, a raccontare.
Garofaniello le sorride ma non risponde. Paola gli prende il bicchiere che sta portandosi alla bocca.
Nando PAOLA: Basta, quanti ne hai già bevuti stamani?
Garofaniello: Non è me che vogliono intervistare. Ma Alexis. È arrivato a Santalba già da giorni; in incognito. Per assistere in diretta alla caduta dello Strudel, dicono. E trarne il suo prossimo libro di sicuro successo.
Augusto: Davvero?
Lucia: Papatanhassious è qui!? In che albergo alloggia?
Nando (Abbandonando il lavoro e andando verso il tavolo e con aria preoccupata): È vera questa storia?
Costantino: Che fessi! Che fessi! Non sanno che Antonio e Alexis non si rivolgono la parola da anni. Era dal 1976 che Papathanassious non metteva piede a Santalba. Dall'autunno 1976!
Paola: Io non riesco a crederlo che non siate più amici, tu e Alexis.
Costantino: Ma che!, questo fesso di Antonio Garofaniello ha strappato tutte le lettere provenienti dalla Grecia senza mai nemmeno aprirle.
Paola: Ma tu, nel 1972, ti sei fatto incarcerare, torturare, per protestare contro l'arresto di Alexis Papathanassious. Non riesco a credere che, da allora…
Costantino: Quando ci sono di mezzo un paio di gambe di donna!
Garofaniello (Senza troppo vigore): Stai zitto.
Costantino: Eccolo che si scalda, l'eroe dei due mondi.
Nando: Questa è davvero bella, uno rischia la vita, si fa torturare per salvare l'altro, e poi non si rivolgono più la parola per colpa di una gonnella.
Paola: Stai zitto! È vero questo, Antonio?
Garofaniello le sorride ma non risponde.
Augusto: Ma davvero tu non sapevi niente dell'arrivo di Papathanassious? E tu, Paola?
Garofaniello e Paola non rispondono. Dallo schermo va via l'immagine.
Lucia: Che romantico, ed era una greca? Di', era una donna greca?
Garofaniello si alza e dà dei grandi colpi sul video.
Costantino: E che è? Nemmeno fosse roba tua!
Garofaniello: È andata via l'immagine. Ma non c'è nessuno che sappia tenerla su questa antenna maledetta?
QUATTRO
3.XII.1985 - martedì, mattino, in classe
- Mi scusi professò, una cosa che non c'entra con la scuola.
È Costantino, un ragazzo di quattordici anni alto e magro.
- Non si adiri però - continua poggiando le mani sulla cattedra.
- Avanti, sentiamo.
Chiudo il registro. Ridacchia pregustando l'imbarazzo che seguirà alla sua domanda.
- Io non devo chiedere niente, sono le ragazze che vogliono sapere. Mi'!
Si volta verso il resto della classe, le ragazze delle prime file gli mandano comiche maledizioni.
- Ma lei - pausa. Sguardo d'intesa col suo pubblico. - Non ce l'ha una fidanzata?
Sono sorpreso. Ridacchiano. Godono per il mio arrossire.
- Ma non c'è nessuno che le piace? - è stata Irene a parlare, una ragazzina studiosissima.
- L'abbiamo visto, come guarda la professoressa Cau! - anche Marina.
- Ma vi rendete conto della massa di stupidaggini che state dicendo? Le mie questioni personali non fanno parte del programma da portare all'esame - mi sembra di non riuscire a incutere alcun timore in questi ragazzi.
- Non c'è niente di male, la professoressa Cau ci ha detto che lei è simpatico - Irene.
Dovrei continuare a controllare il registro, verificare chi fra loro deve ancora essere interrogato. Ma non ci riesco. Mi obbligano a pensare a me stesso. Santalba è un paese di ventimila anime, e per i suoi abitanti l'omosessualità è ancora la peggiore tra le malattie possibili; stare vicini all'appestato, anche se per motivi di lavoro, è fonte di grandi preoccupazioni. Sono incuriositi e spaventati dal sesso questi miei alunni.
- Finitela - ho ordinato senza nessuna convinzione. - Finitela - ripeto.
- Lo sa, che la sorella piccola della professoressa Cau vive con uno, senza essere sposata?
«In questo paese sono tutti bestie. A questi ragazzi non importa niente di studiare, e i genitori se ne fregano, se potessero li manderebbero a lavorare a dieci anni. Tanto a che gli serve Pitagora? Te lo dice Dario Catania. Uno che a Santalba ci vive da dodici anni». Magari ha proprio ragione Dario, che queste cose me le ripete ogni volta che ci incrociamo in sala professori. Mentre gli altri pendono dal suo accento pugliese e dicono comèvvero comèvvero.
Ma forse anch'io, se dovessi rimanere altri dieci anni confinato a Santalba mi ridurrei come lui. Con una moglie che dalla boutique «puliti puliti» toglie tre milioni al mese, un'automobile da sedici milioni «tondi tondi» e in moneta sonante, e una figlia che stringe tra i denti un apparecchietto da «svariate centinaia di biglietti da mille».
Ma io non insegno matematica, non li so fare i conti. Non riuscirei a farlo questo lavoro senza sentire un po' di solidarietà verso i ragazzi.
- Basta con queste sciocchezze, pensiamo a lavorare.
Ma non concludo il mio invito, vengo interrotto dal bidello. È entrato senza bussare.
- Professor Pintus, una firmetta per il preside.
I miei alunni ridacchiano ancora. - Che cosa avete da ridere, maleducati! - li apostrofa il bidello.
14.XII.1985 - sabato, notte
- Ti invidio Paride, che cosa potrei chiedere di più al tuo posto?, hai un lavoro, una casa, sei libero di rimorchiare tutte le donne di questo mondo. Bevo alla tua salute.
Nando si alza in piedi e beve. Si passa la lingua sui baffi.
- Ma la vita è fatta anche di aspirazioni, non solo di cose - dico chiudendo anch'io con un lungo sorso di vino.
- D'accordo, vivere da soli non è tutto. Però prova a immaginare me e te a casa mia, con mio padre e mia madre e le mie sorelle tra i piedi. Nando non bere, beva Paride che il vino fa salute, Nando non bere! Oppure tu o io sposati a una orrenda megera come la tua padrona di casa, che ama molto di più il suo orribile barboncino piuttosto che quell'ubriacone del marito. Alla salute!
Nando beve un altro lungo sorso, poi, osservando la trasparenza del bicchiere vuoto continua:
- Se non ci fosse Paola non so come farei, in questo buco di paese finirei certamente alcolizzato, o magari accoltellato da qualche altro medico di belle speranze. È un ambientaccio, il nostro.
- A Paola! - brindo.
- A Paola - risponde.
Sul tavolo sono rimasti i piatti sporchi e una bottiglia di vino rosso mezzo vuota; la nostra cena è finita, mi accingo a sparecchiare. Butto gli avanzi nella spazzatura e depongo i piatti sul bordo del lavello. Nando si accende una sigaretta.
- Non ti secca che lavi i piatti, eh Nando? Sai, la domenica dormo sempre fino a tardi.
Non mi risponde, è soprappensiero. Verso il detersivo e faccio scorrere l'acqua. Gioco con la schiuma.
- Quanto starà via Paola? - gli chiedo intanto che passo la spugna su un coltello.
- Fino a Natale, credo.
Si alzato dal tavolo, sta in piedi con le spalle alla porta a vetri che dalla cucina dà sul cortile. Fuma.
- È tanto - considero passando a fregare le pentole.
- Non è tanto!
- Ma come, dieci giorni lontana?
Non risponde, mi si avvicina, spegne la sigaretta e si mette accanto a me per sciacquare i piatti.
L'acqua dal rubinetto scorre forte, copre le nostre voci, ma parlo ugualmente, lo interrogo su banalità ospedaliere. Lui risponde a mugugni.
Ecco, non ci sono più stoviglie da lavare, abbiamo finito. Ci asciughiamo le mani con lo stesso telo da cucina.
- Tu sai che Paola mi tradisce - dice in tutta apparente tranquillità.
- Scherzi? - gli dico più sorpreso per il contesto che per il contenuto della sua frase.
- Sì, non è un segreto, Paola è una donna deliziosa, intelligentissima, ma non crede nella fedeltà.
- E tu?
- Io cosa? - risponde seccato.
- Scusami, sono stato indiscreto.
Abbiamo deciso di uscire, di fare due passi lungo il porto, non ci sono film interessanti questa notte, e l'inverno tarda a venire. Stiamo seduti nel bar terrazza a ridosso dei bastioni bizantini, l'aria del mare odora di salsedine e nafta. Beviamo birra. Vorrei che continuasse a parlarmi di Paola e della sua infedeltà, invece parliamo d'altro, di sociologia da pronto intervento. E fra un po' ripeteremo il nostro copione, Nando sosterrà che Moravia è omosessuale, perché troppo spesso ha scritto immedesimandosi nelle sue protagoniste femminili. Lo dice un poco per prendermi in giro e un poco perché ci crede. Ma non mi adirerò questa sera, non controbatterò gridando che si tratta di azioni di sfondamento, non mascherate ma veri e propri gesti politici, come quando attraverso Desideria affronta il terrorismo dalla parte di chi ha lottato contro se stessa e non contro la società.
- Paride!
Ci siamo, colpisci amico mio.
- Senti - abbozza un sorriso, si interrompe. È strano, questo non è il suo tono di quando mi attacca per l'insana passione albertina.
- Vorrei che non parlassi con nessuno di questa cosa mia e di Paola.
La scarsa illuminazione prodotta dalle lampadine sotto la tettoia di legno e plastica ondulata, dà una luce surreale al suo viso. Vorrei trovare il coraggio per ricattarlo, vendergli il mio silenzio in cambio di ogni più piccolo dettaglio riguardante le infedeltà di Paola.
- Stai tranquillo - gli dico.
Alzo il bicchiere alla sua salute. Poi chiudo gli occhi, mi allungo sulla seggiola dallo schienale di plastica intrecciata. Mi rivedo a sedici anni, disteso sul freddo pavimento del cesso di casa, mentre mi masturbo leggendo le pagine della seduzione di Lisa in Gli Indifferenti.
È tardi, non riusciamo a parlare, la birra è finita. Ci alziamo in direzione di casa mia, Nando ha lasciato lì la sua auto.
- Senti - gli chiedo. - Tu che sai tutto dei Santalbini, com'è che non vedo più quel vecchietto che ogni mattina si metteva qui a pescare? Ve ne ho parlato molte volte, a te e a Paola.
- Credevo di avertelo detto, è stato ricoverato in ospedale poco tempo fa.
- Mi dispiace, e come sta adesso?
- Ma davvero non lo sai?, ai funerali hanno partecipato diversi insegnanti.
15.XII.1985 - domenica, mattino
È quasi mezzogiorno, ieri ho bevuto troppo, ho la testa pesante. In questo paese c'è sempre il sole, se volessi potrei abbronzarmi rimanendo sdraiato a letto; a poche settimane dal Natale. Chissà quanto incide il clima sulla personalità dei santalbini?
Il caffè! È delizioso l'aroma del caffè che brucia sui fornelli. Devo correre. La caffettiera da una dose soffre di eiaculatio precox, bisogna ammetterlo, non faccio in tempo a scaldarla che ha già schizzato la mia bella cucina bianca di tante macchioline scure. Ma non importa, al caffè bruciacchiato aggiungo zucchero latte e un pizzico di Fata Turchina e la pillola va giù. O era col chicco, col chicco d'uva passa?
È incredibile, mi sono svegliato di buon umore, magari stai male Paridino!
La cartellina arancio è ancora lì sul tavolo, questa notte sono stato assalito da astratti furori e sono andato a frugare fra le carte polverose della mia memoria, ho ritrovato i versi che scrivevo negli interminabili viaggi ferroviari da Castello a Mureddu. Dall'università a casa. Ignobili sfoghi contro la vita malandrina che mi proibiva un assiduo confronto erotico con il reale. Stupidaggini puberali che negli anni ho via via integrato giustificandole a posteriori prima col “movimento”, poi con Andreina, e adesso la solitudine.
L'educazione sentimentale di un giovane Giuseppe. Così mi è venuto di intitolare il pretestuoso poemetto che ora sento come interamente prodotto in Santalba.
Non ho più intruglio di latte e caffè nel bicchiere, in compenso mi fa un po' paura rileggermi, non sono un poeta, io.
15.XII.1985 - domenica, pomeriggio
Mi sono ripassato a macchina, quattro ore di lavoro continuato, una media di battuta terrificante, ho gli indici indolenziti. Certo, ho modificato molto i testi, ed ho anche mangiato un panino, ma chi diceva che scrivere procura sofferenze indicibili?
Non capisco come a vent'anni abbia mai potuto credere che questa robaccia somigliasse, anche vagamente, alla poesia: masturbazioni, questo solo è il termine. Mi sono masturbato per anni nei vagoni dei treni riempiendo bloc-notes di parole e adesso continuo a masturbarmi staccandomi le unghie su questa stupida portatile gialla dove le “enne” e le “qu” ritornano a mano.
Poesia numero uno. Sei terzine formate da versi brevissimi, spesso di una sola parola. La quarta e la quinta terzina non sono separate. Perché?, a sì!, non è un errore. Il tutto somiglia a un pettine sdentato. Un non meglio precisato Io, cioè io, si lamenta per non saperci fare con le donne. E una fuori!
Poesia, o foglio numero due. Quattro terzine, righe di circa tre parole. Ha la forma di un omino senza testa fornito però di braccine e piedoni. Io grida che la colpa è sua, che la colpa è sua; “sua” di Io, credo.
Foglio numero tre. Due quartine e una terzina raddoppiata al centro. Ha tutta l'aria di voler rappresentare la testa dell'omino di cui sopra. La colpa è sua, la colpa sua; questa volta “sua” di Lei.
Numero quattro. Di quattro terzine. Io non è più vergine, ma non è stato granché, diciamolo, anche i maschi vivono il dramma della prima volta.
Cinque. Sette righe più altre cinque. Io non riesce a capire perché Lei lo ami benché lui (Io) ormai nutra per lei un bel cavolo di niente, anzi, se vogliamo, prova un tantinello di stizza datosi che a lui (Io) non è piaciuto manco per niente, farlo con lei.
Sei. Sette righe sul quadrante superiore e sette su quello inferiore, tutte rigorosamente di una parola. Per Io si profila un'Altra all'orizzonte, una lei, come si dice, con le “palle”.
Sette. Io ha lasciato Lei per l'Altra.
Otto. Guardando il foglio per il suo verso orizzontale l'immagine diventa chiarissima: una balena: una terzina, una quartina, una riga, una doppia quartina, un'altra riga e un'altra doppia quartina a forma di coda. Io cerca la balena, la cerca e non la trova…
Nove. Altro pettine sdentato. Io dichiara all'Altra di avere sofferto, e forse di soffrire ancora, di straziantissimi attacchi di impotenza.
Dieci. E Freud tra di noi, se non parla mai… Io si rivela in tutta la sua interezza: testa, corpicino, piedi opportuni e braccine lunghe lunghe lunghe. Io ha sognato: insieme alla sua mamma passeggiava, Altra, la lei con le “palle”, dentro una cinquecento blu “conversava” con numerosi uomini: Io si appressa al di lei finestrino, ma non riesce a spiccicare verbo: cazzo che ho fretta!, lo rimbrotta Altra che non ha tempo da perdere:
(…) velocemente romba
blu
e colma
di ragazzotti aitanti
pieni di mani (…)
Foglio numero undici, nonché ultimo per fortuna. Rappresenta il vero volto di Io: Pinocchio, quello dal naso lungo lungo lungo. Io, Pinocchio, confessa di sentirsi molto simile, interiormente, a un gran bel pezzo di merda.
Sono stanco. Che ci pensi Gavino Ghilarza a dipanare la trama della mia vita. Io mi rimetto a letto. Devo insegnare grammatica italiana, io, domani, mica licenzuole poetiche.
L'agenda scolastica mi guarda dal tavolino da notte, tutta rossa è illuminata dal sole che precede il tramonto. La sfoglio, è piena di pagina vuote. Telefonare casa. Telefonare casa. Telefonare… Titoli di film visti, con Paola e/o Nando. Spesucce. Rispondere Caterina…
Quando dissi al mio caro professore di letteratura italiana del novecento di avere vinto una cattedra per l'insegnamento delle lettere in un paesello sperduto della Sardegna costiera, lui confessò di invidiarmi sinceramente: «In quella pace, ispirato dalla bellezza di quel mare, dalla ricca storia di quelle mura, la tua splendida tesi su Moravia diverrà un vero libro. Avessi io - il professore -, la fortuna di vivere un anno in un luogo magico come Santalba».
Caro professore, a questa prima splendida pagina vuota, seguiranno altre mille e una splendide pagine bianche.
Mi rigiro nel letto, l'agenda di finta pelle rossa cade per terra. È talmente vuota che il suo rumore è sordo.
15.XII.1985 - domenica, sera
Non dovrei dormire mai di pomeriggio, al risveglio mi sento sempre arrabbiato con me stesso e il mondo intero. E affamato per di più. Con Nando e i suoi amici abbiamo fissato per dopo cena. «Chissà che non ti innamori di una Santalbina, eh Paride? di una di quelle vecchio stampo, che parlano greco in famiglia!»
Non sopporto questa mania tutta paesana di dover sempre e comunque fidanzarci tutti entro i vent'anni.
Frittata di cipolle e doccia. Doccia e frittata di cipolle. Ochei, frittata preparata: doccia: frittata mangiata. Il mio umorismo è cretino. Mai stato capace di raccontare una barzelletta, mai. Da piccolo, forse a otto o nove anni, ebbi una geniale intuizione, era domenica mattina: il vero comico è colui che crede di far ridere e invece non fa ridere per niente ma il suo niente è così patetico che gli altri ridono perché lui crede di saper far ridere e invece non sa di essere penoso. Corsi ancora in pigiama nella camera dei miei: non è vero che chi fa ridere fa ridere perché fa ridere… Mi ascoltarono distrattamente e poi, senza nemmeno un sorriso di approvazione dissero:
- Sì!
Frittata pronta: doccia.
Lo stanzino da bagno è pieno di vapori, lo specchio non è più capace di riflettere. Ho sognato. Era un sogno. Il fon mi asciuga i capelli e ridà luce allo specchio. L'ho quasi ricostruito tutto.
Frittata cena.
Una sala illuminatissima. Un lungo tavolo presidenziale con molta gente dietro. Anch'io. Il moderatore mi invita a rispondere alle domande dei giornalisti e del pubblico. La prima è di Nando. Ma Nando ha il mio volto, cioè, lui sono io, e lui è me, l'intervistato. Io, quello dietro il tavolo e col volto di Nando, spiego come mi sia nata l'idea del libro. Volevo raccontare una lunga storia nell'arco di dieci minuti, il tempo di un caffè. Tutte e cento le pagine sono il risultato del rivolo di ricordi che sommergono il protagonista tra l'attesa, il rimescolio dello zucchero, il sorseggio. Un giornalista che ha il volto di Dario chiede se possiamo considerare il romanzo un inseguirsi di flash back. Mia madre si appropria del microfono per assicurare che fin da bambino ero un appassionato di cinema, mio padre le tira la giacca perché smetta. Sorrido, ho tra le mani l'agenda rossa, faccio per parlare ma ammutolisco. Moravia attraversa la sala, sorride, ha il bastone sotto braccio: si infila i guanti. Tutti, deferentemente, lo salutiamo. «Può sembrare banale,» dico, «ma l'idea mi è venuta sfogliando la mia agenda: sono al bar Da Piero: come sta?: ordino un caffè: sfoglio tra i miei appuntamenti: la mia vita scorre come un fiume: bevuto il caffè: saluto: corro a riabbracciare la mia donna: mi aspetta poco più in là: sulla grande barca ormeggiata nel porto». Ho finito, Andreina mi sorride, ci baciamo per le foto, sento le mani di Paola armeggiare con la cintura e i bottoni della mia patta. Caterina, che conduce la claque, interrompe gli applausi con un gesto imperioso: Moravia sta per lasciare la sala. «Io vado», dice a mo' di saluto. Tutti ci alziamo rispettosamente in piedi, io, che ho sempre il volto di Nando, non ho più i pantaloni, sono eccitato. Anche il moderatore vorrebbe andare via, è stanco, e non ha voglia di rimanere per il rinfresco. «Salute!» gli dico. «Vita!» risponde mostrandomi orgoglioso un enorme pesce argentato. Nel sogno mi commuovo, abbasso lo sguardo, tutto si riduce alla dimensione di un rettangolo rosso su cui sono incise alcune lettere in oro: e/o Paride.
18.XII.1985 - mercoledì, mattino, a scuola
Diciotto settembre, ultimo giorno di scuola del 1985. Ho plagiato il preside perché mi concedesse vacanza dai prossimi venerdì e sabato. «La mia mammina sta male, domani giovedì, che è il mio giorno libero, andrò a trovarla, se si potesse… Grazie, signor preside, grazie». Che attore fantastico sono!
Ho dedicato la mattina ai commiati e i capitoli da studiare, al suono della prossima campana fuggo verso Mureddu, verso i miei boschi freddissimi.
- Ragazzi al lavoro, carta e penna che assegneremo i compiti per le vacanze.
Ubbidiscono tutti, in silenzio.
- È uno scherzo, o il clima natalizio vi ha reso disciplinati?
Nessuno reagisce alla mia ironia, nemmeno Sanna e Piras, i miei fedelissimi.
- Terza C, parlo con voi!
Raffaele Serra non ne può più, sbuffa, mi fa un gestaccio. - Detti e stia zitto! - dice.
- Fuori! - grido.
- Dal preside mi accompagna lei, o chiamo il bidello?
Serra ha pronunciato la frase calmissimo. Storce la bocca e soffia, il ciuffo gli si solleva.
Comincio a sbollire, sento che devo recitare da Spencer Tracy anche se lui ha solo il ciuffo, da Mickey Rooney.
- Che cosa sta succedendo? - chiedo con un filo di voce.
Sara Marrosu scoppia in lacrime, la compagna di banco la abbraccia. Con lo sguardo imploro una spiegazione a Claudio Sanna che siede di fronte a me, al primo banco. Con lieve cenno, Claudio delega il compagno Piras, quello coi baffi quasi da uomo.
- Tonino Carta è stato sospeso! -. Fine del comunicato.
Carta è un ragazzino miope, presuntuosetto, francamente antipatico. - E per così poco… - ammonisco.
Sara Marrosu non accenna a calmarsi. Ho peccato di cinismo.
- Ci voleva! - sbotta uno.
- Così s'impara a sfottere!- aggiunge un altro.
- Se gli bucava le gomme faceva meglio; per me è stato un cretino.
- A chi cretino? A chi? - urla Serra lanciandosi contro il compagno e afferrandolo al collo.
Li sto separando. La mia mano destra impone di sedere al ragazzino assalito e la sinistra stringe forte il polso di Raffaele. Sono stupefatto. Ho scavalcato la cattedra con un balzo. Ho i battiti a mille e il mio alunno è sull'orlo di una crisi di pianto. Allento la presa. Abbiamo quasi la stessa altezza, gli cingo le spalle, insieme usciamo nel corridoio.
Nell'antibagno dei ragazzi c'è un lungo lavabo con una dozzina di rubinetti, l'acqua fredda scorre sui miei polsi. L'alunno sta al mio fianco, chiuso dentro se stesso, incurante dell'acqua che gli schizza sul maglione. Esco, la mia presenza non gli è utile.
Sono rientrato in aula. Non riesco a tornare dietro la cattedra rimango in piedi, accanto alla lavagna. Mendico una spiegazione.
- Tonino Carta - dice Lucia Tavera col suo tono da prima della classe, - vuole bene a Sara, a Marrosu, ma lei non lo vuole. Così gli ha scritto un bigliettino perché la lasci in pace. Professor Catania ha voluto vedere il bigliettino. Dai Quattrocchi, facci vedere cosa leggi. Così ha detto. Quattrocchi, Quattrocchi.
- Non gliene doveva portare!
- Silenzio - dico.
- Allora, Catania - dice Lucia riprendendo il racconto, - per farsi spiritoso, ha letto il biglietto a voce alta. Che Sara non lo voleva, che non gli piaceva la montatura degli occhiali, e che a lei piaceva solo Raffaele Serra. Povero Quattrocchi, ha detto Catania stringendogli il mento con le dita. Allora Carta gli ha spostato la mano con un colpo. Il professore si è alzato e l'ha preso per il collo. Oh Quattrocchi, gli ha detto. Carta l'ha spinto forte e professor Catania si è trovato seduto con la testa sbattuta al muro. Gli è anche uscito sangue. Poi è venuto il preside e l'hanno sospeso. Quella di inglese ha detto che forse lo sospendono per tutto l'anno.
Ha finito, proverò a spiegargli che esistono certe regole, certe consuetudini, certe piccole ingiustizie, che è necessario imparare a sopportare e che a Tonino Carta non succederà proprio niente. Una settimana di sospensione, qualche giorno di vacanza in più.
18.XII.1985 - mercoledì, mattino, alla stazione
Se un mezzogiorno d'inverno un viaggiatore. Nel bar della stazione sanno già tutto del professore testa rotta. Dalla signora dietro il banco mi faccio preparare un panino e una birra da consumare in treno. Ma no signora, ragazzate, non stia a sentire. Ma che terroristi, sono bambini. Buon Natale, è arrivato il treno, buon Natale.
- Paride!
- Paola!
- Cambio della guardia.
- Già, torno a Mureddu, il richiamo della foresta.
Paola mi impedisce di salire sul treno, sta ferma davanti a me, con il suo borsone blu ciondolante all'altezza delle ginocchia. Ho fretta, solo le mie scarpe non hanno ancora lasciato Santalba. Lei continua a sorridere. Tiro la mia sacca sulla spalla, protendo il viso per baciare la mia amica sulla guancia. Lei allontana il viso.
- Te ne vai così? - dice. - Senza parlare nemmeno un po'!
Devo avere uno sguardo da ebete.
- Il treno! - esclamo.
Paola piega il busto verso di me, mi bacia sulle labbra, il suo borsone urta le mie gambe.
- Ciao - dice.
Mureddu Maiore, 31.12.85
Ciao Paperino,
questa notte sarà l'ultimo dell'anno e festeggeremo lontani, tu sei ritornato a Santalba, chiamato dai tuoi doveri di insegnante coscienzioso.
Non stupirti, so bene che non me ne hai fatto cenno. E come avresti potuto d'altra parte?, in quell'unico pomeriggio trascorso insieme davanti a un tè freddo e inasprito hai parlato esclusivamente del neo grecismo di certi tuoi nuovi amici santalbini e delle spoglie mortali di Sant’Agostino, un tempo custodite nella cattedrale di Santalba.
Non dovrei sentirmene risentita, non è vero?, non dovrei usare questo tono; dovrei esserti grata per quei racconti: sono io quella cattolica, io quella che ha pregato ogni giorno durante la novena insieme a tua madre.
Io so tutto di te, attraverso di lei. Dice che ti succede qualcosa, che da tanto non ti vedeva così. Ha paura che tu ti stia mettendo nei pasticci. Ha anche litigato con tuo padre, per provare ad impedirti di tornare a Santalba. In fondo, dice, questo Tonino Carta, se ha spaccato la testa a un professore, una qualche punizione dovrà pure meritarsela. E tu e quel “testardo” di tuo padre a dire che non è giusto, che i giornalisti stanno cercando lo scandalo, che quel professore se l'è voluta. «E quell'Andreina che me lo tiene ore e ore al telefono».
So tutto di te, attraverso tua madre. So tutto di te attraverso i tuoi silenzi, attraverso le tue assenze. Raccontavi di una colonia greco bizantina rifugiatasi a Santalba e mi chiedevo di che avresti parlato se quella notte in macchina non ti avessi respinto. Parlavi di padri della chiesa, di lapidi e di antiche preghiere, ma il mio tè diventava sempre più freddo e tu sempre più attento a non dimenticare l'avventura dei bizantini in Sardegna.
E certo non era la timidezza a farti scegliere un tema così distante da noi due; non sarò bella, ma non è un'allegra commedia americana la nostra, non devo togliermi gli occhiali e né sciogliere i capelli scuotendo graziosamente la testa, perché tu mi veda per la prima volta. Parlavi del mantello di Sant’Agostino bellamente esposto in cattedrale, e guardavi le mie gambe, citavi certe iscrizioni greche del sedicesimo secolo osservando le curve del mio seno. Io esisto Paride. Esisto da sempre. Esisto anche senza di te. Esisto. E non so più aspettare. «Hai visto Andreina?», ti ho chiesto. Solo questo: hai visto Andreina.
Forse hai ragione tu a volertene andare per seguire da vicino “lo scandalo Carta”, chissà che quel giornalista non intervisti anche te. Scusa, ma è che immagino quelle «ore e ore» in cui Andreina ti tiene al telefono. Sei tu a chiamarla, lo so, ne sono certa, sei solo tu a non voler esistere senza di lei.
È tutto così ridicolo, se al posto del naso avessi una patata e mi chiamassi Rostand saprei scrivere versi romantici capaci di conquistare il tuo cuore, anche se non i tuoi occhi. Invece vendo formaggi e per me ho solo i tuoi occhi. Parlavi di Sant’Agostino e studiavi le mie gambe, citavi certe iscrizioni greche e i tuoi occhi mi accarezzavano il seno. Hai visto Andreina? ho chiesto: sono arrivati silenzio e vuoto di sguardi. È tanto più bella di me, Andreina?
Nuoro, senza data
Cara Caterina,
ho appena strappato tutte le tue lettere di dieci anni fa, tutte quelle che mi mandasti a S.
Una dopo l'altra le ho ricopiate al computer secondo il tema, la cronologia, lo stato d'animo.
Avevi ragione, quando sostenevi che non avevo mai parlato di te ma solo delle tue lettere, nel mio romanzo. Non ebbe nessun successo commerciale, quel libro mio, e nemmeno di critica. Una recensione nel supplemento domenicale del Quotidiano di S., anonima, per di più, perché Paola era già la firmataria del prologo contenuto nel volume.
L'editore disse che ne avrebbe fatto una tiratura di mille copie, tanto per sondare l'umore della gente; gli risposi che mille li avremmo venduti in pochi giorni. Tempo un anno, mi chiamarono per dirmi che di quella prima tiratura, ancora ne restavano seicento; cinquanta le avrebbe tenute per l'archivio e le altre le avrebbe vendute a prezzo di cartone, dopo averle mandate al macero. Che ci pensassi un po'. Una copia di quel libro la porto con me da una casa all'altra, mentre l'altra metà di mille ammuffisce nella cantina di casa dei miei.
Vorrei poterlo scrivere ancora, quel romanzo. Ma non perché mi senta uno scrittore, al contrario, perché in quelle pagine non ero mai sincero. Non parlavo di me, ma di un altro che mi sarebbe piaciuto essere. Un esistenzialista alla maniera del Moravia degli anni trenta.
Una volta consegnato il dattiloscritto all'editore, me ne andai a Roma. Due mesi in una pensioncina non troppo lontana dalla casa del signor Alberto Pincherle in arte Moravia. Lo vedevo spesso, ma non ebbi mai il coraggio di salutarlo. Divenni amico di un suo vicino di casa.
Scrissi un mucchio di poesiole, in quel periodo, perfino alcune in sardo. E quei versi, ti giuro, erano come le tue lettere, me ne accorgo adesso.
Il vicino di Moravia disse che avrei dovuto mandare tutto a un premio di poesia organizzato da un circolo culturale trasteverino. Arrivai secondo e mi diedero un milione, una pergamena e una medaglia. I soldi li diedi a un altro editore come contributo per le spese tipografiche del mio primo, e ultimo, volume di versi. Le millecinquecento copie stampate non ammuffiscono in nessuna casa. Ne regalai cinquanta, un'altra decina le avrà l'editore. Le altre le bruciai il giorno in cui si sposò Andreina.
Nuoro, senza data
Cara Caterina,
ho appena strappato tutte le tue lettere, non so perché l'ho fatto.
CINQUE
10. Augusto ha cucinato la sua specialità, la paella valenciana. Nando non smette di lusingarlo. Paola mastica lentamente.
- Come va con la scuola? - le chiedo.
- Niente discorsi seri - interviene Nando. - Augusto, perché non ci racconti di Trento?
- È passato tanto tempo.
- Dai, di quando avete occupato la facoltà e processato quel professore, com'è che si chiamava?
- Onorato Donnini!
- Sì. Il signor Donnini chiarissimo professor Onorato. Quello che durante l'occupazione stava dalla parte degli studenti, anzi delle studentesse.
- Finché Marcello non lo ha costretto in mutande davanti all'assemblea.
- Basta! - dice Paola un po' seccata. - Mille volte che sento questa sciocchezza, del professore in mutande.
- Ma è divertente, no? Il professore settantasettino scoperto nel cesso con la ragazzina - si difende Nando.
Paola non gli risponde, ingoia un altro boccone di riso.
- E poi - insiste Nando, - adesso che frequenta l'università, Marilena ha tutto da imparare, da questi edificanti episodi.
Augusto gli sorride.
- Attenta Marilena, non chiuderti nei cessi coi professori, altrimenti Nando ti trascinerà in assemblea con le mutande in mano - ammonisce Paola guardandomi con occhi da sorella maggiore.
11. Credo piovesse, perché pareva già notte anche se era pomeriggio. Avevo sedici anni. Camminavo al braccio di Paola, sembravamo due vecchie amiche, una madre e sua figlia. Era stata lei a preoccuparsi di tutti i dettagli. Mi guardava comprensiva e protettrice. Sapeva meglio e più di me. Io non avevo mai pensato che fosse così urgente scegliere la pillola. Il mio petto non era ancora quello di una donna.
- Non voglio sapere se tu abbia uno o mille ragazzi, e neppure se sia mai stata con qualcuno, consideralo come una specie di vaccino.
Non avevo mai immaginato che l'amore potesse diventare una malattia. Ma era bello avere una sorella, sentire che lei si preoccupava per me. Non amavo Augusto, allora.
Si gelava nella saletta del ginecologo, le altre donne ci sorridevano e pensavano che fossi io ad accompagnare Paola, ne sono sicura.
12. Sento freddo. Bevo vino rosso. - Studi con qualche amica? - mi chiede Paola.
Nando ride buttando la testa all'indietro. Augusto si tiene il tovagliolo premuto sulla bocca.
- Puoi contare su di me. Ero brava.
- Lo so! - dico.
13. A me non importava niente di quegli orecchini e quella collana. Anzi, li trovavo abbastanza brutti. L'idea di rubare nella bigiotteria più cara di Santalba era eccitante, però. Ci pensavamo da tanto Marta e io.
Avremmo chiesto di provare una grande quantità di orecchini e poi, quando avessimo conquistato la fiducia della padrona saremmo scappate. Curammo tutto fin nei dettagli. Ci vestimmo in maniera insolita e rubammo un assegno dal libretto del padre di Marta. Contavamo sul fatto che quell'antipatica non lo avrebbe accettato da due ragazzine. Non avevamo quindici anni, Marta e io.
Indossammo un'intera vetrina. Finalmente la parure di strass e argento brillava intorno al mio collo e sui miei lobi. Marta mostrò l'assegno. La cifra segnata era sei volte maggiore del costo dei gioielli. La padrona protestò. Voleva una garanzia.
- Papà! - gridò Marta verso un passante. - Che fortuna - recitò, - lo raggiungo e torno coi contanti.
Mi misi sulla porta, ad aspettare. A fingere di ammirarmi riflessa dalla vetrina. - Su! - gridai. - Su! - ripetei verso una Marta immaginaria. - Su! - dissi a me stessa per darmi forza nelle gambe.
Correvo e mi davo della stupida. Correvo disperata sui ciottoli delle stradine della città vecchia e sentivo che era tutto inutile, che mi avrebbero presa. Mi infilai dentro un portone. Salii tutte le scale buie. Aspettai senza più respirare. Fino a notte.
14. - Facciamo un brindisi? - chiede Nando alzando il bicchiere.
- Su Paola, anche tu! - la invita Augusto.
- Alla matricola Marilena e alla paella.
- Finiscila - lo rimprovera Paola.
- Mi correggo, non beviamo per Marilena, ma soltanto per la paella.
Brindiamo. Soltanto Nando dimostra entusiasmo. Augusto lo asseconda. - Passiamo ai dolci? - chiede.
- Ho ancora voglia di questa ghiottoneria - dice Nando indicando la grande padella al centro del tavolo dove ancora è rimasto del riso misto a bocconi di carne e di pesce.
Paola gli mette il suo piatto sotto il muso. Ha mangiato pochissimo, lei.
- 'A 'iccetta - dice Nando con la bocca piena di riso.
- Non stai bene Paola? - le chiede Augusto.
Mia sorella accende una sigaretta.
- La ricetta, Augusto, voglio la ricetta.
15. - Che dici Augusto, me li taglio? - gli chiese Marta stringendosi i capelli in una coda.
- Vediamo - disse osservandole la nuca.
- Ma va scema, stai benissimo così! - esclamai.
- È Augusto che deve decidere - civettò.
- È difficile pensare ai tuoi capelli, muovi così bene i fianchi!
Ricordo che arrossii di rabbia. Marta gli mandò un bacio con la punta delle dita.
- Sono contenta sai? - continuò. - Che sia tu a gestire la discoteca, in questo paese il ballo è la sola cosa intelligente che si riesca a fare. E se fossi in Marilena smetterei subito di studiare. Discoteca e amore tutte le sere. Altro che esame per la maturità.
- Mica scema la tua amica - commentò Augusto.
- Basta, io vado di là a studiare. Non solo prenderò la maturità, ma avrò anche dei buoni voti.
- Così non paghi le tasse all'università.
- Sì Marta, sì!
- Ma a che serve l'università, ormai? Augusto, credi che possa servirmi, l'università?
- Perché non ceni con noi? Ti rivelerò il segreto dei miei spaghetti ai funghi - le rispose Augusto.
- Che dici, Marilena, rimango?
- Vado di là a studiare, chiamatemi solo quando sarà pronto in tavola. A me importa tantissimo l'università.
16. - Scusatemi - dice Paola. - Ma sono stanca, e molto preoccupata, per quanto sta accadendo con la scuola.
- Sapete - la previene Nando, - domani avremo la sua foto sui giornali. Intervista esclusiva: La professoressa smentisce: Tonino Carta è innocente. Diglielo Paola, diglielo com'era carino e gentile il giornalista del Sardo Quotidiano.
- Ma è vero? - chiede Augusto interessato. - Sei stata intervistata e fotografata, anche?
- Finitela, si tratta di una cosa davvero seria, quel ragazzino rischia di perdere l'anno scolastico per una sciocchezza.
- Ma certo, spaccare la testa dei professori adesso lo chiamano “sciocchezza” - commenta Nando sarcastico.
- Ma come è andata, realmente? - chiede Augusto. - A dar retta ai giornali, questo Carta sembrerebbe un teppista di prima forza.
17. - Pazza. Sei una pazza. Non potevi comprarteli quegli orecchini? Se solo lo avessi chiesto, mille te ne avrei comprato, mille!
Paola era furiosa. Camminava nervosamente lungo la stanza.
- Non riesco a crederci, ho una sorella pazza. Sai perché non ti ha denunciata?, sai perché la tua faccia non è sui giornali? Per me, per rispetto del mio nome, Paola Cau!
La mamma stava seduta di fronte a me, mi guardava tristemente. Quando allungò la mano, pensai che fosse per schiaffeggiarmi. Alzai d'istinto il gomito per proteggere il viso. Ma le sue dita si fermarono sul mio mento, per obbligarmi a guardarla negli occhi. Mi buttai tra le sue braccia, perché mi stringesse, come quando ero bambina, al tempo in cui Paola non mi aveva detto del mio padre inesistente.
- È tutta colpa tua, mamma. Non abbracciarla almeno, non sarà con le carezze che le impedirai di rubare.
18. - È tutto così assurdo, pensate che, fatto assolutamente straordinario, il consiglio d'interclasse si è riunito il giorno prima delle vacanze di Natale. E solo perché spinti dagli articoli di tono scandalistico.
Paola parla con calore. Sono interessata al suo discorso, anche Augusto lo è. Ma Nando non nasconde il suo fastidio, si rivolge ad Augusto come se Paola non parlasse.
- Vediamo di ricapitolare. Si fa un soffrittino. A parte rosoli bocconcini di carne di coniglio, di pollo, eccetera. A sì, anche gamberi, scampi, granchi, e calamari, pure. Bene.
Augusto gli sorride ebete, è interessato al racconto che Paola cerca di portare a termine malgrado Nando.
- Quel ragazzino è stato giudicato senza nessuno che lo difendesse. Io ero appena rientrata, Paride dai suoi. Dopo lo scandalo montato dal giornale, c'è chi afferma che i tre mesi di sospensione proposti dall'interclasse, la giunta esecutiva della scuola li porterà a un anno. Ho sentito ieri Paride, è sconvolto da questa possibilità.
- Poi piselli, peperoni e dai a rimestare riso carni verdure e pesce. Il brodo come lo fai?
Paola non riesce più a fingere: - Nando, sei un grandissimo stronzo! - grida alzandosi di scatto, buttando il tovagliolo sul tavolo.
19. Sentivo di aver esagerato con Marta. Sarei entrata in cucina all'improvviso, magari commentando in maniera spiritosa le loro fatiche culinarie. Invece, Augusto e Marta si scambiavano furiosi baci. Si strappavano la pelle mentre l'acqua bolliva nella pentola.
Marta aggrappata ad Augusto, il mento conficcato nelle spalle di lui. Di cui riuscivo a vedere soltanto la schiena e i glutei. Di Marta subivo le braccia e le gambe avvolte intorno al corpo del mio amore.
Aprendo la porta della cucina mi ero trovata di fronte a un mostro provvisto di due teste e quattro braccia; due in forma di artigli, due in forma di gambe nude e attorcigliate. Un mostro dal corpo goffo che emanava dolore.
20. - Vado via. Tu rimani se vuoi - dice Paola inventandosi un tono neutro.
- Paola, Paola… - farfuglia Nando.
Paola ha già indossato il cappotto. Lo aspetta sulla porta.
21. - Marìlu. Piccola. Che vuoi che mi importi della tua amica?
- Lasciami!
- Vieni.
- Non toccarmi!
- Ma che cosa potevo fare?, mi è saltata addosso come impazzita?
- …
- Cazzo! e poi, se devo dirla tutta, è solo colpa tua. Sai bene di che parlo. Dopo tutte quelle stronzate che le hai raccontato, quella stupida ha voluto assaggiare il tuo “super amante”.
- Zitto, zitto!
- Ti rifiuti di ascoltare. Ma è proprio così, ha cominciato col chiedermi da quanto conosco il Tao, a strusciarsi. A scherzare sulle nostre prodezze amatorie. Sì, delle nostre, le tue e le mie, Marilena.
- …
- Un Bacio.
22. Nando prende al volo il soprabito, Paola è già sulle scale. La insegue. Mi pare che fuori piova. Non è ancora notte fonda. Mia sorella è andata via senza salutare.
23. - Me lo prometti Augusto, me lo prometti?
- …
- Dimenticherai tutte le Marte?
- Tutte, per sempre, tutte.
- Io sola, io sola!
- Tu sola, per sempre, tu sola.
- Aspetta. No. Aspetta, ho sospeso la pillola.
- …
- Mi perdoni amore? Non vogliamo figli tu e io.
- …
- Che cosa fai? Augusto, che cosa fai?
- Il tuo ombelico!
- Lo sperma? Non baciarmi.
- Perché?
- Sì, sì!
- Le tue labbra.
Nuoro, senza data
Cara Caterina,
prima d'imbattermi nelle tue lettere, avevo quasi dimenticato di essermi sentito scrittore, in un'epoca della mia vita. Un romanzo e una silloge poetica tirati via in sei mesi e poi il bianco. Penso che uno scrittore vero non dovrebbe parlare mai di se stesso, perché può correre il rischio di perdere il passato. Ed è quanto è accaduto a me.
Ti avrò detto mille volte che non mi piace il futuro e, di conseguenza, il presente mi dà nausee. Non esisto, io, senza la memoria.
Mi guarì da Andreina il volume di poesie, e il romanzo ha cancellato da me la gente di S., ma anche te e Moravia. Adesso lo leggo come qualsiasi altro insegnante. E tu hai smesso di scrivermi da oltre dieci anni.
Nuoro, senza data
Cara Caterina,
prima di distruggere le tue vecchie lettere, come sai le ho archiviate elettronicamente, per temi, cronologie, eccetera. La parola che ritorna con maggior frequenza è Carta.
Ho dovuto pensarci a lungo, prima di ricordare chi fosse. Tonino Carta. Un ragazzino normale che casualmente finì in un gioco tra adulti per lui incomprensibile. Dopo quei fatti, rimanemmo in contatto epistolare, fino a che, dopo tanti cambi di casa e di paese, lui perse il mio indirizzo e io smisi di scrivergli.
Anni dopo, quando lui era già un giovane uomo barbuto, lo incontrai a una fermata d'autobus, a Sassari. Mi si avvicinò per chiedermi se io fossi il professor Pintus. Gli dissi di sì. Sono Tonino Carta. Come stai, gli chiesi; molto bene, adesso non vivo più in paese. Nemmeno io. Non mi venne in mente di offrili un caffè.
Nuoro, senza data
Cara Caterina,
sono giorni che studio le tue lettere, mi paiono il mio solo legame con il passato. Adesso che vivo in un capoluogo, a meno di un'ora da casa dei genitori, ho soprattutto futuro, presente e futuro. Conosco molta gente a Nuoro, colleghi, in particolare, ma niente amici. Nessun passato da condividere. Ogni sabato mattina mi arrampico sull'Ortobene, ci trovo molte famiglie. Una volta mi piacerebbe incontrare te, per caso, con il tuo bambino. Ci saluteremmo, ciao!, ciao!, e senza nemmeno parlare avremmo gli anni dell'infanzia da condividere. E molto altro ancora. Molto altro.
Questo è il quarto computer che cambio. È molto divertente, perché ognuno è diverso dall'altro, ma con solo un clic, ognuno archivia la memoria del precedente. Adesso che ci penso, non mi sarebbe dispiaciuto conservare una copia delle mie poesie; le avrei infilate nel computer, ci sarei tornato su mille e una volta. Una sera, mio padre chiamò preoccupato, le copertine del tuo romanzo si sono incollate l'una all'altra, che cosa possiamo fare, non ce n'è più una copia come si deve? Butta via tutto, gli risposi, quasi sollevato.
7.I.1986 - martedì, mattino
Fa freddo, devo alzarmi per andare a scuola. È troppo presto, l'acqua è gelata.
Fuori di casa il paesaggio è irreale. Questa notte è caduta la neve. In Sardegna non cade mai la neve sul livello del mare. Il giardino è sommerso di bianco, le foglie dei limoni hanno perduto il loro verde. I gradini sono ricoperti di ghiaccio.
Ho freddo. Santalba è irriconoscibile.
Da Piero mi faccio servire un caffelatte. Il bar è affollatissimo. Si parla solo di neve. Chiuderanno le scuole. L'ha detto la radio. Esco.
Le auto stritolano la neve, la sporcano, la infangano. Davanti alla scuola pochi ragazzi, anche se sta per suonare la campana. Mi si avvicinano, vogliono sapere per quanto tempo la scuola rimarrà chiusa. Non lo so.
In sala professori il preside ci informa che la scuola riaprirà clima permettendo. Ho finito per oggi, ma ho bisogno di parlare con lui, voglio sapere di Carta.
Il preside si aggiusta gli occhiali, mostra i suoi vecchi denti ingialliti.
- Non tema - dice, - il nostro provvedimento sarà un monito per le generazioni future. La scuola non è la strada.
Provo a dirgli che non capisco, che quel ragazzino non ha mai fatto male a una mosca, che è diligente, che la sua è stata la reazione di un innamorato.
- Qui si parla di aggressione, i referti parlano di sospetto trauma cranico. Caro Pintus.
Accenno alle ripetute provocazioni di Catania.
- Non perdiamoci in chiacchiere, professore, Dario Catania è un ottimo insegnante, un uomo che è stato a un passo dalla laurea in ingegneria.
Sono le nove del mattino. La neve non rientra nel mio progetto. Le parole del preside riverberano dentro la mia testa. Cammino, fingo con me stesso di avere voglia di un dolce. La pasticceria è quasi un bugigattolo.
La porta tintinna. Dietro la vetrinetta dei dolci non mi attende nessuno. Dico due volte buongiorno. Da dietro una tenda verde compare una donna con camice e cuffietta bianca, la saluto. Le chiedo se lo strudel sia fresco.
È una donna piccola, coi fianchi larghissimi. Avvolge il mio pacchetto con gesti rapidi. Sento che vorrebbe parlare, capisce che le voglio parlare. - Tonino!, Tonino!, vieni corri! - grida mentre annoda il nastro giallo.
Tonino arriva di corsa. Si asciuga le mani in un telo. Indossa un grembiule bianco. La mia presenza lo sorprende. - Buongiorno professore - dice.
- Ciao! Come stai?
- Lavoro.
Mi rivolgo alla donna, la madre del mio alunno:
- Ma sa che non è bene che suo figlio si affatichi tanto?
- Professore mio - esordisce con tono pietoso, - ci provi lei a convincerlo che deve ritornare a scuola, glielo dica lei che per lavorare c'è sempre tempo.
- È stata tua la magnifica idea di venire a lavorare? Di abbandonare la scuola per un provvedimento da niente?
- Hai visto? - dice la madre tranquillizzante, - te l'avevo detto io che non era nulla.
Tonino rimane impassibile.
- Dì qualcosa! - sbotto.
- Li ha letti i giornali. Lo sa che cosa dice di me la gente.
- Calunnie, calunnie - dice la donna.
- Sciocchezze, i giornalisti scrivono quello che gli pare. Chi ti conosce sa che tu sei diverso.
- Non ci torno a farmi prendere in giro dai professori e dai compagni. Meglio pasticcere. Tanto solo questo posso fare in questo schifo di paese.
- Ma lo sente, lo sente?
Non riesco a rispondergli. Vorrei dirgli di tenere duro, Di resistere. Di cercare di scoprire che Santalba non è il peggiore paese della terra. Chiedo quant'è. - Settemilaedue - risponde la madre del mio alunno.
20.I.1985 - giovedì, pomeriggio
Fanno Ginger e Fred questa sera. Lo specchio della camera dell'armadio riflette i miei piedi calzati di verde-nero in primo piano e la copertina color cuoio del Don Chisciotte in luogo del mio viso. Sono sul letto, sono le cinque, prenderò il tè. Coi biscotti. Antonio Ghilarza è stato un fulmine. «L'ho letta con precedenza su tutto, mio caro Pintus…».
Non riesco a non pensare a un racconto di Moravia ogni volta che sto per intingere un biscotto nel tè: “Il coccodrillo”. Una donna ha bisogno di sapere se sia elegante o meno immergere i biscotti nel tè. Per scoprirlo visita una nobildonna. Ma quella non intingerà mai. In compenso sfoggerà un magnifico coccodrillino vivo sulle spalle. Quelli vecchi e grandi li passa alla servitù.
Fanno Ginger e Fred, ci andrò coi miei amici con Paola, con Nando. Verranno anche Augusto e Marilena, probabilmente. «Amico Pintus, le assicuro che ho letto e riletto ogni suo verso, ma sono poi versi?»
Sono sicuro che incontrerò quello stronzo di Dario Catania al cinema, è riuscito a fargli dare tre mesi a quel ragazzino. Un anno di scuola, un anno di vita, perduti.
È carina Marilena, proporzionata. «…ho deciso invece di accettare quella sua precedente proposta di collaborazioni santalbesi (o santalbine?), metto a sua disposizione sette pagine della rivista, più qualche intelligente foto di cui lei stesso potrà incaricarsi, per un servizio sulla poesia e la tradizione neogreca di quest'isola nell'isola. Dal mito al duemila, che gliene pare?»
Piove, è già quasi buio. I coccodrilli sono come figli.
«(…) quando vedrai che in qualche battaglia mi hanno spaccato in due (come a volte succede), non avrai altro da fare che raccogliere la parte del corpo che sarà caduta in terra, e con molta rapidità, prima che il sangue si raffreddi, sovrapporrai l'altra metà rimasta sulla sella».
Pagina 66, Don Chisciotte, a Sancho, nell'edizione de Agostini. Calvino quanto impiegò per riattaccare le due metà del suo visconte?, cento pagine?
SEI
Nuoro, senza data
Cara Caterina,
perché dimentichiamo, amica mia?
Dentro il computer infilo ogni cosa ordinando tutto per bene, dopo aver pensato un nome di otto lettere per ogni file. Poi i nomi li dimentico e non so più che cosa ci fosse dietro.
Allora sono costretto ad aprire file che non vorrei e ricordare anche ciò che non voglio. Moravia scriveva con la stilografica, da ultimo, non ne aveva voluto sapere di scrittura elettronica. Mi sarebbe piaciuto conoscerlo personalmente. Per poco non gli mandai una copia del romanzo.
Non so capire se col computer si migliori la scrittura, quello che è certo è che la mano è diventata più veloce dei pensieri.
Perché dimentichiamo, Caterina?
Nuoro, senza data
Cara Caterina,
ci sono giorni in cui mi è impossibile ogni scelta, scrivere e smettere di scrivere, quasi io stesso fossi dentro al computer. Il sedere incollato alla seggiola, mi ritrovo a picchiettare liste di parole che non significano niente, schermate intere che poi cancello in un istante. Come le macchie di pioggia e di vento che sporcano i vetri e le dita, sono le mie parole. Un gioco elettronico che mi utilizza.
9.II.1986 - domenica, notte
Il vento accelera la cremazione del fantoccio. È un enorme omone di cartapesta. Mesi per costruirlo e adesso il giallo e il rosso del suo costume sono avvolti dalle fiamme. Tra qualche attimo sarà soltanto cenere. Ma la gente continuerà a ballare, a invocare la morte di Jordi. Il tiranno che cacciò l'estate e impose l'inverno.
I Santalba's Pop attaccano col loro repertorio americano, dobbiamo ballare. Il cantante bestemmia contro Jordi Mucchietto-di-braci. La donna-caramella mi prende per mano: è per la giostra intorno alla carta e il legno carbonizzati: è così che ci si diverte.
Sono Charlot e stringo le mani di Caramella e di Ape. Balliamo in tondo. Non posso più chiudere gli occhi, le luci dal palco mi irritano, le ombre della notte riflesse dalle acque del porto mi angosciano. A Santalba tutto si svolge sul mare. La vita è soltanto un rito propiziatorio necessario per procurare l'attracco eterno di chi ci porterà lontano.
Ballare. Con un solo partner. Il cerchio si è rotto. Ape balla con Fiore, Caramella con Lingua. Aspetto la fioraia cieca, dovrei cercarla, lei non può vedermi.
Cappuccetto Rosso mi prende per mano. Le sue palme sono ruvide. Chiede se mi diverto. Vuole sapere come sto. Sono diventato stupido. Cappuccetto ride, sostiene che non so chi sia. Provo a sollevarle la maschera. Me lo impedisce.
Dagli altoparlanti una voce impiegatizia esprime tutto il nostro doveroso riconoscimento verso il sindaco, gli assessori, il parroco, la zia, mia madre. Non balliamo più, ascoltiamo, Cappuccetto mi tiene sempre per mano. Perché ho scelto Charlot? Perché ho scelto Charlot? Vuole saperlo. Augusto è Groucho Marx, Marilena il poliziotto. È lei che viene ad arrestarci. Ma Gambadilegno mi impone un bicchiere bianco ed elastico tra le mani, lo riempie di vino rosso, che cade sul mio frac, la mia bocca, il collo, lo stomaco.
Ho voglia di urinare. Di mingere, Cappuccetto voglio mingere. Sono ubriaco e voglio mingere. Sono il lupo-charlot-cacciatore signorina Cappuccetto, mi accompagna a mingere dalla nonnina? Alla fine del molo, lontano lontano, dove vanno i drogati e gli innamorati. Grazie Cappuccetto. Non ha visto un poliziotto? tutto nero, un elmetto di cartone, i fregi e i bottoni dorati, in mano un manganello?
Davanti a me c'è il mare aperto. Sono su uno scoglio, uno tra le migliaia di massi allineati per arginare le onde. Ho le scarpe e le calze bagnate. Risalire. Cappuccetto. Cappuccetto Rosso! Il lupo ti chiama. Perché non viene per aiutarmi? Sto male, potrei cadere in acqua e morire. Non lasciatemi solo. Sono caduto. Scivolato su una roccia. Ho male al braccio destro. I polsi! Sono fradicio. Non lasciatemi solo. Mammamia! Non devo vomitare, è una cosa che fa schifo.
Non ho più la testa. Sono seduto sotto il molo, sui massi più alti. Mi sento lurido, avvelenato, povero.
Piove. Dappertutto, sul mare, sul palco, sulle maschere. Confusa al rumore delle onde non mi arriva più nessuna musica, la pioggia cade su tutti, anche su Andreina.
Ce la faccio. Cammino diritto. Maschere che ballano sotto la pioggia, senza musica, senza Jordi. Gambadilegno balla da solo, mi abbraccia, ballo con lui.
Dietro il porto c'è una piccola piazza e un porticato, le altre maschere mi aspettano lì. Gambadilegno ama la pioggia.
Sotto il portico la folla respinge la mia voglia di integrazione. Urto corpi sconosciuti, mi inoltro tra risa, graffi, stoffe leggere. Il diavolo mi tende una mano, mi stringe a sé, vuole sapere come mi sento, accarezza dolcemente i miei capelli. Dov'è la mia bombetta? Il diavolo sostiene che sono il cadavere di me stesso. È gentile, ha la voce di Paola.
Non sono ubriaco le dico, ero ubriaco ma non sono più ubriaco, capisco tutto-tutto-tutto-tutto-tutto. So anche che lei non è il diavolo ma la mia migliore amica, l'unica amica di tutta la mia vita. Ti ho mai parlato di Andreina? Non quella di Moravia, quella mia?
Quasi non piove più. Tutti in discoteca. Le maschere scappano. Sono rimaste quelle bacione. Ape e Fiore, Stanlio e Ollio, Topolino e Minnie, Groucho Marx e il poliziotto. Anch'io un bacio. Bacio Belzebù. Mantiene le labbra serrate, il naso in alto, che scappa prima a destra e poi a sinistra. Mi rifiuta, non vuole la mia anima.
- Puzzi, sei ubriaco.
Siamo rimasti soli, anche il poliziotto coi fregi e i bottoni dorati è andato via. Provo a chiederle scusa. Paola ti chiedo scusa.
9.II.1986 - notte fonda
La discoteca è affollatissima. Sto bene adesso. Paola mi è stata preziosa, non sono più Charlot, sono Pintus, il professorino, il solo diverso in questa folla di maschere. La musica disco martoria i timpani.
- Dov'è Charlot? - È Cappuccetto Rosso di ritorno dal nulla. Stringe le mie mani con le sue dita ruvide, mi conduce al centro della sala, nella ressa dei ballerini.
Potrei nuovamente stare male, ho paura, mi muovo rigido, chiudo gli occhi. Il disc-jockey parla sulla musica: «Trentatretrentintinientraronoatrentotuttietrentatretrotterellando».
Unoduetre e quattro, unoduetre e quattro, unoduetre e quattro. Cappuccetto mi sorride sempre. - Balli bene - dice. Le sono grato. Una suora che mostra le tette mi accarezza. E un'altra coi baffi e un enorme sigaro mi chiede di Paola. - Non è con te? - rispondo.
- Era con te! Stavi male - mi grida Nando nelle orecchie.
Poi il mio amico medico scompare, fagocitato dal dio serpente mille-corpi. Anch'io scompaio assorbito da quel mostro. Cappuccetto mi sta sempre dietro, le sue mani arrampicate sulle mie spalle.
Percorriamo le piste da ballo della discoteca lungo tutto il loro disegno, un otto diviso da due colonne specchio, un otto orizzontale uguale infinito. Non sono più ubriaco, ballo benissimo. Groucho Marx brinda alla mia salute dietro il banco dei liquori, Marilena poliziotto senza-casco mi sorride, si frammette tra le mie mani e le spalle-serpente.
Credo sia ora di alzarsi per andare a scuola. Cappuccetto Rosso balla stancamente. Corto Maltese le sta accanto. È tardissimo, non siamo più numerosi. Pochi a ballare, pochi distesi a dormire o baciare, pochi a chiacchierare appesi al bar. Groucho Augusto Marx, Nando senza più la cornetta da superiora, due camerieri, io. Credo che parliamo di una cosa qualunque che serve solo a parlare. Devo aspettare Paola, ho lasciato a lei le mie chiavi di casa.
Un pilota della prima guerra mondiale e un motociclista selvaggio mi chiamano professore e vogliono che offra loro da bere. Chiedo che cosa facciano in questo luogo di perdizione. Ridono, sono ubriachi.
- A bere sia, professò! - strilla Raffaele Serra.
- E a ballare - aggiunge Carta. - Uïschi coca e roch'enro'.
Dico che dovrebbero essere a scuola. Nando e Augusto ridono di me dei miei alunni.
- Scuola kaput, nix - parlano e ridono, non coordinano voce e movimenti.
A Serra ricordo che è già ripetente. Augusto gli allunga un bicchiere colmo di un intruglio verdastro.
- Tutti bastardi sono i professori - afferma Serra. Augusto ride sonoramente. - Tutti meno lei, professò! - si corregge.
Tonino Carta regge il bicchiere con tutte due le mani, parla senza alzare lo sguardo. - Anche la professoressa Paola Cau è brava.
Augusto ride fragorosamente, si accascia al bancone, con un leggero pugno colpisce la spalla di Nando che sorride a denti stretti. Sopraggiunge Marilena, ci guarda un po' stupita. - Perché ridete? - chiede.
Augusto le cinge le spalle affettuoso, lei lo ricambia.
- E tua madre che ne pensa? Chissà come sarà contenta quando ti vede riempire i bignè? - dico a Tonino.
- E chi va più a lavorare? ió Se’! Uïschi e coca e roch'enro'!
Si allontanano danzando guancia a guancia.
Non ho più voglia di aspettare Paola, né di svelare Cappuccetto, ho voglia di uscire, di camminare, di dormire.
La strada è un pantano. Anche la mia vita lo è. Penso che mi toccherà dormire sulle scale di casa, col rischio che il cane riccio nero durante il sonno morda le mie orecchie. Ma non è così, le finestre della mia cucina sono illuminate, il cane dorme nella sua cuccia. Salgo in fretta le scale, la porta è aperta.
Non c'è nessuno, sul tavolo un biglietto: «Ciao, Paola»; sotto, le mie chiavi.
Il letto è stato frettolosamente rifatto. Mi infilo sotto le coperte senza nemmeno spogliarmi. Alzo le ginocchia fino a toccarmi il petto. Le mie lenzuola odorano di corpi nudi.
12.II.1986 - mercoledì, mattino
Paola è arrivata puntuale. Avvolta nel suo cappotto marrone fa il suo ingresso Da Piero. Si sfila i guanti. Non so più bene perché ho voluto vederla, tra breve batterà la una, ci servono un martini e olive verdi.
- Ti trovo in gran forma - le dico.
- Anche tu!
Mente.
- L'idea di un reportage sul neogrecismo di Santalba è piaciuto a Gavino Ghilarza - dico senza una ragione.
Mentre beve un leggero sorso fa un cenno d'approvazione con la testa.
- Però ha respinto le mie poesie, le ha lette e rilette e non gli sono piaciute. Ne sarà contento Augusto.
- Davvero?
- Sì, mi ha fatto sapere di essere disponibile a fornirmi bibliografie e materiali inediti per l'articolo.
Parlo a vanvera. Il martini è pessimo, le olive sono acide.
- Che hai? - mi chiede stringendo tra le sue le mie mani.
- Ho bisogno di sentirmi utile, di sentirmi vivo.
Non può rispondermi, sono io a stringerle le mani, adesso.
- Dobbiamo fare qualcosa, Paola, non possiamo abbandonarli in questo modo.
Non capisce.
- Raffaele Serra sono giorni che si assenta da scuola, Tonino Carta non vuole più studiare.
Si scioglie dalla mia stretta, ravviva i capelli, accende una sigaretta.
- È nostro dovere aiutarli - dico guardandola dal basso, coi gomiti sulle ginocchia.
Accavalla le gambe, espira. - Hai ragione - dice.
Bevo il martini d'un fiato. - Per Serra è facile - sbotto. - Lui si sente in colpa per essere stata la causa involontaria dell'incidente. Ma se Tonino Carta riprendesse a studiare, lui recupererebbe la stima di sé.
Lo sguardo di Paola mi invita a proseguire. Mi ascolta.
- Se tu e io seguiamo Carta privatamente, lui non avrà perso tre mesi di scuola. Io ero bravissimo in geometria.
- E se non avesse più intenzione di riprendere con la scuola?
- Ho pensato anche a questo. Lo iscriviamo come privatista in un'altra città. Ho molti amici a Mureddu.
- Ochei!
- Ochei.
Mi sento meglio. Le prendo la mano destra, la stringo tra le mie, l'accarezzo, la bacio, la faccio scivolare sul mio volto.
Ho salutato Paola da pochi minuti. Il vento mi obbliga a camminare rasente i muri. Riprovo mentalmente i passi per un discorso convincente da proporre in pasticceria.
È ingiusto quanto è accaduto: la burocrazia non può incidere negativamente nel futuro di un ragazzo: dobbiamo lottare: non crederò mai che studiare realmente non ti piaccia: le mie poesie sono orrende: Paola non potrà mai essere davvero fedele a Nando: nemmeno io ne ero capace: signora, suo figlio è un ragazzo intelligentissimo, non deve permettere che perda questa opportunità: due giorni fa sono uscito con Marilena: lo so che non l'amo: a Santalba c'è il Mantello di Sant’Agostino: in nome del libero arbitrio signora: sa che Marilena forse aspetta una bambina?
Zoppico, mi duole il ginocchio. «Buon giorno» dirò, «mi dia una dozzina di paste». E scapperò via. Come Michele di Moravia quando sparò su Leo con un arma scarica.
- È Sant’Agostino che l'ha mandata, Sant’Agostino - strilla la donna uscendo dal banco e aggrappandosi al mio braccio. - Un miracolo!
Sono ammutolito. La donna mi trattiene, mi accarezza. - Tore, Tore - grida a gran voce guardando verso la tenda dietro il bancone.
Compare un ometto anche lui vestito di bianco.
- Mio marito! - dice la donna tirandomi verso il retrobottega. Non mi dà il tempo di stringere la mano all'omino bianco.
Entriamo in un profondissimo salone. Nella parete sul fondo intravedo le bocche del forno, tre lunghissimi tavoli ingombri di teglie sono l'unico arredamento della sala. Lontano, vicino ai sacchi di farina una ragazza lavora alla macchina impastatrice. Mi ha visto, sorride.
- Che cosa facciamo? - chiede ansiosa la donna.
Provo a spiegarle il mio piano, l'accordo con Paola per salvare suo figlio. Si fa il segno della croce, congiunge le mani. Poi mi afferra all'avambraccio sinistro, lo stringe, sta per comunicarmi qualcosa di grave. - La droga - dice a voce bassissima. - La droga - ripete segnandosi nuovamente.
- Andrà tutto bene, vedrà, non tema signora. È un bravo ragazzo suo figlio.
Vorrei andare via, fissare un appuntamento con Tonino e poi scappare. Ma lei mi trattiene. Chiama la ragazza lontana, vuole che prepari per me un pacchetto con i dolci migliori. Vuole che io sappia che lei ha pregato tanto. Che ha invocato cento volte il santo Agostino.
È molto tardi dico. Li saluto, stringo le loro mani. Quella della ragazza che mi porge il pacchetto ha la palma ruvida.
15.II.1986 - sabato, notte
Mancano pochi minuti perché riprenda la proiezione di L'onore dei Prizzi. Marilena, Paola, Nando e io chiacchieriamo nell'atrio del cinema. Conan il barbaro ci guarda minaccioso.
Sono entusiasta, in classe si è creato un clima formidabile, non si tratta più di un insieme casuale di ragazzi, ma di un gruppo compatto tutto teso nello sforzo di contribuire all'azzeramento di un'ingiustizia.
- Capite - dico ai miei amici, - è bastato che suggerissi il da farsi, perché ognuno di loro si offrisse liberamente; moralmente Tonino Carta è ogni giorno insieme a noi, in classe.
- Come fidi moschettieri - suggerisce Nando spiritosamente.
- Non puoi capire - gli dico, un poco mortificato, - tu non lavori nel mondo della scuola.
- Marilena, tu e io siamo di un'altra razza, non capiamo.
- Non volevo dire questo, Nando. Ma è che sento di essere vicino alla realizzazione di quel progetto educativo che finora ho trovato soltanto in qualche manuale. In questi due giorni ho assistito all'uscita dall'utopia di mille teoremi pedagogici.
Cerco conforto nello sguardo di Paola, ma non trovo entusiasmo nei suoi occhi. E io ho bisogno di entusiasmo.
- Ma guardali - dice Nando, - una bella coppia, Paola Montessori, e Paride Tolstoj.
Marilena sorride, non c'è cattiveria in lei.
- Paola! - dico.
- Non mi sento una santa. Faccio solo il mio dovere, io.
- E io non sono un ricco maestro di campagna che accumula esperienze per i suoi romanzi a venire - dico d'un fiato. - Sono un onesto operatore culturale al servizio della comunità e di un gruppo di ragazzi meravigliosi ed entusiasti.
Sto mentendo, sto mentendo.
La maschera ci fa cenno che il film sta per cominciare. Nando e Paola ci precedono. Marilena e io li seguiamo.
- Bravo! - sussurra stringendomi il braccio sinistro.
Più tardi ne parlerà con Augusto.
24. L'auto procede lentamente. La luce dei fari rompe il buio sullo banchina. Paola non smette di chiacchierare.
Lo vedo. Mi aspetta sotto la tettoia di plastica. Paride sta in piedi, dentro i margini del chiosco accostato all'antica muraglia coloniale. Piove. Il bar è chiuso.
Mia sorella non ha mai smesso di parlare. Mi ha detto di storie terribili. Di donne che non sono più state capaci di ritrovarsi dopo l'aborto. Di una sua amica che trascorse un intero anno in lacrime, aveva vent'anni, ed era stato brutale, senza nessuno con cui poterne parlare. Di me che devo mettere i piedi per terra: se proprio devo farlo, che vada in ospedale. Che non dia retta alle romanzate di Augusto: si tratta della mia vita.
Ma i suoi nuovi argomenti non riesco più ad ascoltarli, li capto; l'auto ha già superato il bar provvisorio.
- Scendo qui - le dico aprendo lo sportello per obbligarla a frenare.
Facciamo tutte due un leggero balzo in avanti. Urto il capo sul vetro. - Ciao! - dico coi piedi già fuori dell'abitacolo.
- Marilena! - mi chiama, - Marilena.
- Non è niente - le dico massaggiandomi la testa.
Lente gocce d'acqua piovana bagnano le mie gambe.
- No - dice per farmi intendere che vuole parlare d'altro. - No, non è nulla.
25. Corro verso la tettoia. Paride indossa un trench di gabardine marrone. Sorride. Lo bacio sulla guancia. È il nostro primo bacio. Arrossisce.
- Ciao, che giorno pazzo! - dice.
- Sì, sì - dico avviandomi verso le sedie di metallo e plastica intrecciata accatastate sotto il chiosco a ridosso della muraglia.
Ne afferro una rossa e poi una blu. Le sistemo una accanto all'altra. Gli faccio cenno di accomodarsi.
- Un cappuccino please! - ordina in perfetto stile turista.
- E per lei? - chiedo alla sedia vuota.
- Honey? - chiede premuroso verso il nulla.
- Un giorno di sole! - dico riempiendo lo spazio vuoto.
Paride è diventato serissimo, ho come l'impressione che stia per scoppiare in lacrime. Singhiozza. Ma non piange. Ride.
- Che hai? - gli chiedo stringedogli le mani, - non lo vuoi più il cappuccino?
Non riesce più a trattenere le lacrime. Ride.
26. - Guarda che mi ha regalato il Pariduccio di Paolina.
- Vedere - aveva detto Augusto afferrando al volo la rivista. - Conosco. La triste storia di Moravia Alberto ambizioso e sbagliato. Stronzate che solo una rivistaccia come La Miniera Del Serpente potrebbe pubblicare.
- Davvero è così brutto?
- Peggio! E non capisco come Paola possa stimare uno scemo simile.
- Non mi sembra poi tanto stupido.
- Attenta Marilena. Ti sfregio se scopro che ti piace.
- Ahi!
- Ma ti piace?
- Ma se è un rospo.
27. Paride si asciuga le lacrime. Vorrei dirgli che i fogli del mio diario sono solo uno scherzo. Una stupida idea di Augusto. Che non mi sono mai iniettata nessuna droga, che non ho mai realmente pensato di abortire. Che mi sento una casalinga, e che non mi importerebbe di vivere a Santalba o Mureddu Maiore.
- Marilena - Paride mi chiama, vuole tutta la mia attenzione. Si schiarisce la gola. Cerca il tono più giusto.
- Non dovrei dirlo, è banale. Ma sento di conoscerti da sempre.
Dovrei rispondergli adesso. I suoi occhi sono quelli di un cucciolo.
Questo posto. La pioggia, il buio. Ho voglia di fumare. Siamo troppo soli.
- Mi fai accendere? - gli chiedo.
Protegge la fiamma dell'accendino con l'incavo della mano sinistra, perché il vento e il freddo non la spengano. Accende una sigaretta anche per sé.
- Sarà una delle ultime, questa. Presto smetterò di fumare.
- Brava.
- Mia figlia voglio che nasca perfetta.
- …!
- Sarà la bambina più bella di questo stupido paese.
- Hai già deciso?
Inspiro forte.
- Augusto che cosa ne pensa?
È smesso di piovere. Dal tetto di plastica cadono gocce d'acqua sul selciato bizantino. Sono in piedi. Sporgo una mano fuori dal coperto. - Non piove più - dico.
Dalla tettoia, una goccia muore sul dorso della mia mano destra. Le dita mi si aprono meccanicamente, il mozzicone finisce per terra.
- Dovremmo andare - dico.
Per qualche istante la cicca è un insetto illuminato rovesciato sulla schiena.
Paride non risponde. Aspetto. Nessun segnale. Volto il capo di novanta gradi verso sinistra. Distinguo il mucchio di sedie addossate sul muro, la rossa e la blu vuote e isolate. Paride è scomparso al mio sguardo.
28. - Ciò che tu dici mi risulta incredibile e insieme evidente. Di Santalba si è sempre parlato come di un luogo senza né spazio e né tempo, come di un mondo greco-bizantino sfuggito ai manuali di storia. Invece Santalba è identica a qualsiasi altra piccola città provinciale. Con droga, disoccupazione, corruzione e traffico come problemi reali. È su questi temi che la gente perde il sonno e non certo per l'insegnamento di un greco antico o moderno per i ragazzini delle scuole medie.
Mangiavamo già il dolce quando Paride fece queste considerazioni. Avevo bevuto moltissimo e parlato troppo. Divento chiacchierona quando bevo, e dico bugie su bugie che sembrano verità, divento una grande attrice quando bevo. E Augusto era il mio regista.
Senza guardarmi Paride continuò dicendo che quell'idea gli era arrivata improvvisa, che in nessun modo voleva obbligarmi ad accettare. Ma la nostra intervista avrebbe potuto trasformarsi in un utile servizio alla città, un contributo alla comprensione di Santalba.
Sono una grande attrice quando bevo molto, e avevo bevuto molto.
- Sarà la trama per il nostro romanzo - dissi riconoscendo Augusto parlare attraverso di me.
29. Il rumore lontano viene dal mare. Paride è sul margine frontale della terrazza provvisoria. In piedi, accostato ad uno dei pilastri. Se avessi subito voltato il capo verso destra lo avrei ritrovato ancora accanto a me.
Nuvole scure cariche di pioggia si frappongono alle stelle.
- Guarda! - esclama Paride.
Con la mano destra indica l'orizzonte. Un lampo color fuoco si spegne sul mare. Poi un altro. Giganteschi rami di corallo rivoltati.
- C'è una tempesta, laggiù - dice.
30. Un filo di vino bianco fuggì lungo le mie labbra e il collo. Devo avere una faccia spaventosa quando bevo molto, e me ne accorgo sempre dopo, quando è già troppo tardi.
- Non ti senti bene, Marilena?
Dissimulai. Finsi. Il tovagliolo alla bocca, stretto con le due mani. Ma non sono sicura, forse non è andata in questo modo.
Una voce femminile gridò il mio nome. Paride spaventatissimo in volto. Qualcuno mi sostenne per farmi arrivare fino alla toilette. Dietro la porta contrassegnata dalla silhouette di una damina bella époque.
Trascorsero ore, minuti, e quella voce femminile mi parlava, le sue mani mi sostenevano la fronte, perché non mi facessi male. perché potessi liberarmi. - Marìlu, Marìlu…
- Marilena! - chiamò da fuori Paride. - Posso fare qualcosa?
- Grazie - dissi a quelle mani che mi aiutavano.
Fuggii, evitando di voltarmi, di incontrare lo sguardo di quella donna, di quella signora bionda troppo gentile.
Per strada la brezza notturna strinse il mio viso. Davanti a me si ergeva la più imponente delle fortificazioni bizantine costruita a protezione del mare dei santalbini. Dietro: le onde e la voglia di quella polvere umida e salata che nei giorni di maestrale supera i parapetti e colpisce il volto dei viandanti.
Dal ristorante ero scappata velocissima, per non dovermi scontrare con lo sguardo di nessuna di quelle facce di culo. - Marilena - mi chiamavano, ma potevano essere il vento, le onde, o le bocche bastarde dei mangiatori.
- Marilena!
Mi voltai. Paride ritornava verso la vetrata luccicante; sull'uscio, una signora bionda gli porgeva un cappotto rosso. Il mio.
31. Il rumore di un'auto che corre sulla banchina bagnata rende stupido il nostro silenzio. La luce dei fari si riflette sui vetri degli occhiali di Paride. Li toglie. I suoi occhi sono chiusi.
- Non mi importa nulla di ciò che pensa Augusto - dice.
Non gli conosco questo tono di voce. È aggressivo.
- Di Augusto Piras sociologo-amico-di-Alberoni non mi importa proprio niente.
Non mi guarda più. Si dirige verso le sedie. Si accomoda su quella rossa. Accende una sigaretta. La fiammella illumina un volto da ragazzo spaventato. Espira due rapide boccate. Mi sento piantata, lasciata al margine, all'altezza del palo di sinistra, di destra per chi ci guarda da lì dove continuano a cadere lampi di corallo rovesciato.
- A me - prosegue, - interessa conoscere la tua vita, il tuo cuore, non è per Santalba, non è per il tuo sangue omerico…
Si interrompe. È stretto nelle spalle. Le mani tra le ginocchia. Lo sguardo rivolto verso di me. - Io voglio già bene a tua figlia - dice.
32. Non volli tornare a casa. Paride mi diede il braccio. Attraversammo la piazza che separa la fila di negozi e ristoranti dalle fortificazioni e dal mare, e prendemmo la strada del lungo passeggio marino.
Camminammo per molti minuti, prima di tornare a rivolgerci la parola.
- Mi sento molto in colpa. Ti ho lasciata bere troppo. È stata molto gentile quella tua amica.
- La odio!
Alla mia risposta Paride si fermò di botto e io un passo davanti a lui. Esigeva una spiegazione. Gli proposi di continuare fino a un bar costruito sulle rocce, una palafitta in una piccola insenatura poco oltre. Per bere un caffè forte, anche se da molto poco era scoccata l'una di notte.
- Mi affascina l'idea di vivere tanto vicini al mare. Lo so che per te è la cosa più naturale di questo mondo, ma per me che vengo da un paesino di montagna, il mare è una sorpresa continua.
Il bar era ancora abbastanza affollato. E Paride era ridivenuto affabile e parlatore. Nella vetrina-frigo scorsi degli hamburger, gli dissi che ne avevo un desiderio terribile.
- Non capisco! - protestò.
- Ti prego, un panino con hamburger, patate fritte e ketchup.
- Ma è assurdo, sei appena stata male.
- Ti prego. È un desiderio.
- Un desiderio infantile.
- Appunto, ne aspetto uno.
- Di che?
- Di infante.
Non poté nascondere il suo imbarazzo, mi fissò per qualche istante, poi riuscì a richiamare l'attenzione del cameriere, gli riferì il mio desiderio, e per sé chiese un altro caffè corretto all'anice.
- È una bambina, lo sento.
- Da quanto lo sai.
- Una settimana.
Arrivarono il panino e il caffè. - Che delizia - dissi dando piccoli morsi all'hamburger.
Paride mi sorrideva teneramente. La carne e le patate mi sembravano orribili, dissi che noi donne incinta siamo tutte pazze.
La chitarra elettrica e la batteria che aspettavano in mostra al lato della vetrina dei gelati trovarono due pessimi padroni. Dopo un chiassoso assolo il batterista annunciò il titolo della canzone: “Sirtaki per un amico malato”. Il chitarrista cantò il lamento di un Costantino affranto per la perdita di qualcosa. Sull'assolo venni presa per mano da un grassone coi baffi, ballai con lui tenendo le braccia alzate e osservando i suoi piedi per imitarne le mosse.
33. Paride aspetta seduto. Aspetta che gli risponda. Mi piacerebbe provare a dirgli che è uno scherzo, che non ho cambiato idea, che domani o dopo abortirò, che non avrò nessuna figlia.
- Io non posso piacerti - gli dico, - sono stupida, ignorante, sono brutta.
Lui negherà, dirà che sbaglio, che sono stupenda. Silenzio. Abbandona la sedia. Va verso le altre accatastate. Si ferma, il vento non arriva fin lì. Slaccia il soprabito, da una tasca esterna della giacca prende un mazzo di fogli bianchi battuti a macchina. Prova a leggerli. Si fa luce con l'accendino.
- Augusto non farà più supplenze. Non gli importa di fare l'insegnante.
La fiammella si spegne, Paride cambia foglio. La fiammella si riaccende.
- Augusto si è accordato col padrone della discoteca.
Buio. Cambio. Luce.
- Il romanzo di Augusto prende corpo. La discoteca si rivela ogni giorno di più una fonte di trame possibili.
Buio. Sono accanto a lui. Luce. I fogli sono nelle mie mani, accartocciati, per terra.
Ci abbracciamo. - Non ho il diritto di essere geloso - dice.
Non è molto più alto di me.
34. - Marìlu, quando lo vedi Pariduccio santo? Quando gli consegni la prima parte di “Il diario di Marilena”?
- Domani, questa sera cena con non ho capito bene quale esperto di Sant’Agostino, o poeta neobyroniano, prigioniero in Grecia nella seconda guerra mondiale, oppure tutte due le cose insieme.
- Magnifico, entro mezzogiorno di domani avrà il tuo personalissimo diario. Ho quasi finito di passarlo a macchina.
- Scappo, madama Elena Costantini me le sfracella se non sono puntuale, e devo ancora vedere le analisi della mia preziosa pipì.
- Aspetta, non vuoi sentire qualche passo della tua vita?
35. - Augusto è tutta la mia vita, è tutto ciò che possiedo.
Le sue braccia non mi stringono più con forza. Il suo corpo è di nuovo rilassato. Assente. - Parla - gli dico. - Parlami per favore.
Dice che non può. Ma sono io che non posso, sono io a non potere sopportare questo silenzio. Sollevo il viso per fissarlo negli occhi, oltre i vetri dei suoi occhiali dorati. Le nostre labbra si sfiorano.
- No, no, no - dico.
Paride mi abbraccia fortissimo. Mi soffoca. Il suo mento penetra nella mia spalla destra. Ma è un istante, perché è già lontano, fuori dal mio abbraccio.
- È l'aria di mare - commenta sardonico. - Dove ho sentito che l'eccesso di iodio può far diventare pazzi? A sì, a casa di Elena Costantini, la psuedo grecista. La tua padrona.
- È vero? - chiedo stupidamente.
Non risponde. Ride. Forte. Cattivo. Dal mucchio di sedie ne prende una, la accosta alla sua. Adesso può sedersi allungando le gambe come gli americani. Anch'io vado a sedermi. Avvicino di più la mia sedia alla sua. Ma lui si alza, è nervoso, cerca qualcosa. Lo guardo illuminare il pavimento. È buffo, ha un sedere enorme e le gambe corte. Ha trovato. Sono i fogli del mio diario scritto da Augusto. Li piega, li mette in tasca.
- Ieri la signora Elena ha parlato di te - dico. - Ti ha descritto come una specie di genio. Tanto intelligente e sensibile da sposare in toto la causa del neogrecismo, tu forestiero. Se fosse in me, ha detto, non ti lascerebbe scappare, è convinta che tu sia anche ricco.
È nuovamente seduto accanto a me. - Sei ricco? - gli domando.
In una mano tiene stretti gli occhiali, nell'altra la sigaretta. Gliela prendo, ho voglia di fumare come i fidanzatini, una boccata per uno. - Sei ricco? - ripeto.
- Moltissimo, possiedo un'intera banca di sogni.
Non ha parlato col tono di chi ha voglia di scherzare, gli accarezzo il viso. Allontana la mia mano. - Che hai? - gli chiedo.
Accende un'altra sigaretta, mi rifiuta.
- Vuoi fare all'amore con me? Magari qui, in piedi, col culo contro i resti di questa muraglia bizantina?
- Perché no? - risponde anche lui cattivo. - Potresti scriverci su un paragrafetto da inserire nel diario di Marilena dedicato ad Augusto Piras sociologo di quartiere romanziere fallito.
36. Il grassone e io finimmo la nostra danza, gli avventori applaudirono. Anche Paride. Intuii che il mio compagno di danze volesse sedere al nostro tavolo, lo prevenni. Chiesi a Paride di pagare e uscii.
Lo aspettai oltre la porta a vetri, sul lungo corridoio sospeso sul mare.
Di fronte al bar si eleva una roccia enorme, alta e ampia, quasi un'isola. Una barriera naturale che rende lacustri le acque tra la roccia e la riva. La luna giocava con la superficie del mare blandamente increspato.
- Non è meglio, questo? - gli dissi indicando il mare.
Paride sorrise. Facemmo pochi passi fino ad arrivare a nasconderci alle luci del bar. I gomiti sulla balaustra di legno.
- È qui che ho imparato a nuotare - dissi.
- Davvero?
- Fino a pochi anni fa non c'era questa costruzione.
- Peccato, mi sarebbe piaciuto immaginarti bambina che arriva fin quassù a prendere il gelato.
- Sarebbe stato terribile. È uno sconcio tutto questo cemento sugli scogli.
Non aveva voglia di accettare la mia provocazione, avevamo già parlato troppo della città greca d'Italia, e dei suoi miseri problemi. Delle sette pagine che La Miniera Del Serpente avrebbe riservato per il suo servizio su Santalba e sulla mia vita sceneggiata da Augusto. Voleva parlare con me, Paride, con Marilena Cau di diciannove anni.
- Era uno scherzo, vero? Quella storia dell'hamburger?
Aveva parlato con la smorfia della bocca già atteggiata a prevenire il riso. Guardai la grande roccia. Cercai il punto in cui diedi il mio primo bacio. Avevo dodici anni.
- Non ci pensare - risposi, - tempo una settimana e non sarò più incinta.
Silenzio.
- Santalba è magnifica! - dissi. - Costruita su una stretta penisola, ti permette di stare sempre in mezzo al mare pur trovandoti in città.
- Vuoi dire che non porterai avanti la gravidanza?
37. - Cazzo se hai tirato a far tardi con Pariduccio, eh! Marìlu.
- Geloso?
- Di chi, di Pariduccio, con gli occhialucci, che scrive sulla rivistuccia?
- No, di me!
- E come potrei. Tu sei solo mia. Mia. Vieni. L'hai innamorato? Eh?, è già pazzo di te? Descrivimelo quando ha saputo che abortiremo.
- E se non fossi incinta?
- Ma se è tanto che non ti arrivano? E poi, con tutto il casino che ho fatto per convincere Nando a farlo qui, in casa. Quello stronzo. Lo faccio per Paola, ha detto. Bel coglione.
- E se non lo fossi davvero?
- Smettila. Vieni. Un bacio.
- Aspetta. E se non volessi più abortire?
- È dolcissima la tua pelle. Il tuo pancino tenero.
- Aspetta, aspetta.
- Bacio, bacio, bacio…
- Non sto bene. Sono stata male in ristorante. La nausea.
- Sei incinta! E faremo un bellissimo aborto clandestino. L'articolo di Pariduccio farà epoca. “Santalba: dalle spoglie mortali di Sant’Agostino all'aborto clandestino”. Ho fatto la rima, hai sentito, sono un poeta.
- Lasciami.
- Non posso. Senti com'è duro.
- L'ho vista.
- Chi?
- Lei, Lucia, la tua “ex”.
- Avete parlato?
- Sì.
- Di me?
38. Sotto la tettoia di plastica hanno trovato rifugio altre persone. Tre ragazzi. È ripreso a piovigginare. Paride non sembra disturbato dal loro arrivo, ne segue con attenzione i discorsi, si esprimono in santalbino.
Uno dei tre, quello dai capelli più lunghi, si avvicina. Ha una sigaretta tra le mani. Chiede del fuoco. Paride rimane seduto, con le gambe sempre distese, gli passa l'accendino.
- Non sei di qui? - gli chiede il ragazzo.
- Di Mureddu Maiore.
- La sagra delle castagne, bello - commenta.
- Puoi continuare a parlare greco se vuoi - gli dice Paride.
- Lo capisci? - gli chiede.
- Un po' l'ho studiato a scuola.
- Anche tu? - mi chiede.
- No, sono più santalbina di te, io.
- Ti ho già vista, infatti - dice soffiando fuori quanto più fumo gli è possibile.
Paride gli sorride, quello lo coglie come un gesto d'intesa. Si mette a suo agio. Si appollaia sulla spalliera della sedia arancione.
- Ne volete fumo? - ci chiede. - È buono veramente, garantito!
- No! - rispondo.
Ma quello aspetta che sia Paride a decidere.
- Quanto? - chiede.
- Quindici.
Paride cerca il portamonete che tiene nella tasca interna della giacca. Il tipo fischia, fa un cenno agli amici. Si avvicinano rapidamente. Il riccioluto allunga un piccolo involucro di carta argentata. Paride gli porge tre biglietti da diecimila. Il riccioluto fa comparire un altro involucro argentato.
Se ne vanno, ci salutano con gesti vagamente militari. - Ciao - borbotta Paride.
Nuoro, senza data
Cara Caterina,
sono quasi pentito di averle strappate, le tue lettere. Dentro al computer non sono più uguali. Quando apro il file in cui le conservo, non mi limito a leggerle; spesso mi prende la voglia di cambiarle, una virgola, un sinonimo, un'intera riga.
Potrà sembrarti strano, ma, quando ti modifico la voce, lo faccio per rimanere fedele al tuo spirito. Come se tu potessi essere più tu con il mio contributo ortografico. Magari si tratterà di una deformazione professionale. Correggo talmente tanti compiti, ogni giorno. Ma non credere che voglia dire che tu scriva male, al contrario, è che mi sembra che in questo modo la tua scrittura si avvicini di più alla tua voce. Mi diverte, molto di più che scrivere veramente.
Due anni fa, per questo vizio acquisito, pubblicai un altro libro, il più mio di tutti e tre, anche se è il solo in cui il mio nome non è in copertina. Vi ho raccolto testi di miei alunni. Li avevo infilati nel computer e, come per le tue lettere, tagliando, cucendo, rovesciando, ne è venuto fuori un volume di piccoli racconti per ragazzi, tutti bellissimi. E lo dico serenamente, perché io non ne sono l'autore. La scuola ne preparò un'edizione non venale e, anche se quei due o tre editori che lo hanno visto hanno storto il naso, lo considero un libro di rande successo. Morale, almeno.
Nuoro, senza data
Cara Caterina,
non temere, non le pubblicherò le tue lettere, anche se ormai non sono più tanto tue.
Nuoro, senza data
Cara Caterina,
mi sarebbe piaciuto avere un registratore, quando vivevo a S., avrei registrato le voci dei miei amici di allora, soprattutto le conversazioni con Tonino Carta. Era un ragazzino semplice, con poca disposizione per gli studi, però intuitivo e generoso, a modo suo.
Mi hanno aiutato a crescere i discorsi con lui. Anche se allora mi sembrava di stare a perdere tempo.
Non saprei più che cosa dirgli, se tornassi a incontrarlo, ma anche quando vivevo a S. non avevo mai niente da dirgli.
Non dovremmo mai guardarci indietro troppo attentamente, se non siamo disposti a perdere la faccia.
Scrivo molto, non scrivo nessun libro, scrivo per il computer, due, tre e a volte cinque ore a notte. Scrivo racconti che non sono racconti. Appunti, note, frammenti di vite che non sono mie.
SETTE
Nuoro, senza data
Cara Caterina,
ho appena cancellato ogni tua lettera dal computer. A volte mi prende un'ubriacatura che mi obbliga a spingere male sulla tastiera. Clash. Lo schermo si annerisce ed ogni parola scompare. Non so decidere, sarà un segno positivo, oppure no? Ovviamente ne avevo fatto una copia, ma solo della prima stesura, per cui ciò che ho perduto sono tutte le mie successive sovrapposizioni, non le tue parole.
Sto pensando a quando mia madre mi diceva che tu aspettavi un bambino da uno sconosciuto senza mostrare la minima vergogna. Ti mandai un biglietto: «Sono con te, fallo!». Mi piaceva l'idea di una Caterina apparentemente grigia che improvvisamente s'illumina.
Fallo! E tu lo hai fatto, sapendo di non poter contare su di me.
Ho letto che per avere bisogna prima dare, come dire che è necessario essere generosi con la vita, per avere vita. La mia non è mai esistita, senza futuro, senza più passato ed un presente perduto nei circuiti di un computer di marca americana.
Scrivo, scrivo, scrivo e nessuno mi legge, nessuno a parte me stesso. La stampante sono mesi che è rotta. Mi avevano detto di chiamarli dopo una settimana.
Non sono sicuro di voler sapere altre cose di te, Caterina. Dopo l'episodio di S., è stato come se qualcosa si fosse rotto per sempre, tra noi. E dopo la nascita di tuo figlio non è stato più possibile recuperare. Ho ancora un orsetto di pezza che comprai per donarglielo. Ci pensi, darglielo ora, che già va alle medie?
Se fossi onesto, dovrei smettere di fare l'insegnante, dovrei fare come Augusto Piras, inventarmi qualcosa da investigare e mendicare alle istituzioni culturali borse di studio da fame.
Ti ho detto che scrivo frammenti di narrazioni che poi perdo in file dai nomi ogni volta più assurdi; un istante fa, ho ritrovato un racconto concluso, vi si narra di un uomo che cade all'interno di una rete. Come idea è molto banale, nel mio racconto, però, l'uomo scopre di non essere un uomo ma un computer che non riesce ad accettare di essere soltanto una macchina.
È così che mi sento, un computer disattivato.
39. - E se nascesse un bambino?
- Impossibile, sarà immancabilmente femmina! - rido, in una maniera ridicola, infilando stupide “i” scoppiettanti che non riesco a soffocare.
- Ma come puoi esserne così sicura? - insiste serissimo Paride intento nell'osservazione delle linee irregolari dello spino.
Altri scoppi di “i”. - Non lo sai, signor giornalista mureddino, noi donne di Santalba siamo tutte veggenti.
- Interessante - commenta serio, - potrei scriverci sopra un bell'articolo.
- Un altro? - nuove “i” scoppiettanti.
- Titolo, Il segreto delle donne di Santalba.
Tira una lunga boccata. Trattiene il respiro. Mi passa lo spino. Starnutisco altre “i” sotto forma di riso. Inspiro, vado in apnea.
I lampioni sull'altro lato della strada lasciano al buio il nostro rifugio. Fa freddo, tiro su i bordi del mio cappotto rosso, ci fa da coperta, il trench di Paride, da tappeto. Stiamo accovacciati contro la ruvida parete di pietra.
Dolcemente Paride mi rimbocca la “coperta”, lo fa con molta sicurezza, con l'automaticità che deriva dalla consuetudine, quasi dormisse al mio fianco da anni.
Non ha più gli occhiali dorati, il suo sguardo è spento, ma non ha bisogno di vedermi per capire dove sono.
- Potremo chiamarla Magdalena. Come questa chiesa diroccata.
Il suo tono serio scatena le mie “i”.
- È un bel nome - insiste.
Nel palmo della mano sinistra regge una minuscola zolletta scura. Con l'accendino la illumina, la scalda, la sbriciola nel tabacco di Lucky distrutta. Poi la rolla in una cartina immacolata che lecca sul bordo più lungo.
- Magdalena figlia di Marilena, ci si potrebbe scrivere una canzone.
- Sono brutti i cognomi sardi, suona male Magdalena Cau.
- Non ti piacerebbe, Magdalena Pintus?
- …
- Inventerei le favole per lei - cambia tono di voce. - Una notte buia e tempestosa, il cavaliere marrone bussa nel castello della principessina di rosso vestita. Principessa, principessa vengo a rubarvi il segreto…
Una cascata di “i” quasi mi soffoca. Il rosso è il mio colore, il marrone è il suo e il segreto non esiste.
- Mio bello e affascinante cavaliere… - riprende imitando una voce femminile.
Rido. - Bello e affascinante: tu? - lo interrompo in un marasma di “i”.
- Mio bello e affascinante cavaliere, soltanto la fata Magdalena conosce il segreto. La principessa di rosso vestita, ormai innamoratissima del bellissimo cavaliere, lo prende per mano e lo guida tra i meandri di una fortezza bizantina.
Si interrompe, rimette gli occhiali, mi guarda. - Non so più andare avanti - mi dice.
- Il guardiano della fortezza - proseguo mentre le sue mani prendono a giocare coi miei capelli, - un terribile mago, gli dice: sono tre le prove da superare.
- Non mi fai paura mago del malaugurio - minaccia Paride buffamente agitando il pugno.
- La prima sarà la prova dell'acqua, poi verrà quella dell'aria e in ultimo il fuoco.
- E il cielo, con grande fragore, si rovescia sulla terra - continua lui. - Ma il cavaliere e la principessa sono furbissimi. Per il magico potere del mantello, invocano che tutta l'acqua ritorni nel cielo.
- E la terra si ruppe con grande fragore - recito con voce grave.
- Per il magico potere del mantello… per il magico… potere del mantello. Non mi viene niente - dichiara mortificato.
- Anche oggi facci avere lo spinello - suggerisco.
- E fumarono e fumarono e fumarono fino a consumare tutto il fuoco dei vulcani - si interrompe pensieroso. - Ma credi che potremmo parlare di spinelli, con una bambina?
- Non lo so! - gli rispondo. E questo gioco non è più divertente, e le sue mani sono sui miei capelli, sulle mie spalle. Le sue labbra sotto l'orecchio, sulla guancia, sugli occhi.
- Marilena, Marilena - sento che dice. E le sue labbra sono sulle mie, e le mie mani stringono i suoi capelli sulla nuca.
Il mio cappotto rosso è scivolato via, le mani di Paride sono sul mio seno, sulle mie gambe, sul mio volto dappertutto.
- Lasciami, lasciami - grido.
Mi guarda sorpreso, tenero, pronto ad accettare ogni mia reazione. Non voglio più che le sue braccia mi stringano, che le sue labbra mi bacino, ho paura. Mi guarda dolcemente. Perché mi tranquillizzi, perché capisca che é sincero quando dice che vuole vivere con me e la figlia non nata di Augusto.
Mi separo da lui, mi arriccio su me stessa, il capo tra le ginocchia, le mani strette alle caviglie, le spalle al muro. Deve essere un inverno freddo questo, ho le gambe percorse da brividi.
Paride mi si fa più vicino, mi abbraccia, mi copre col cappotto, mi scalda. Piango, perdo “i” e singhiozzi.
- Marilena, Marilena - sussurra con la sua migliore voce consolatoria. Ma non smetto di piangere, non smetto di sentire le sue carezze, il suo abbraccio.
Non sono io che piango. Non sono mie queste lacrime, ma di Paola che piangeva di rabbia per quella bambina che mia madre mise al mondo senza più un marito. Anch'io la odio, quell'orrenda Marilena.
- Lasciami! - strillo.
Lo respingo con forza. Non capisce. Ha un'aria spaventata. Mi lascia sola, non mi abbraccia più.
Premo la fronte sulle ginocchia. Credo che lui borbotti qualcosa, il mio nome forse. Di nuovo le sue mani. Sui capelli, sulle spalle. Ho male agli occhi. Sollevo il viso bruscamente, i suoi occhiali di metallo mi feriscono lo zigomo sotto l'occhio destro. Brucia.
- Sangue - dico tastando tra l'indice e il pollice della mano sinistra una sostanza vischiosa.
Anche lui si è fatto male, si stringe forte il setto nasale tra due dita. Gli occhiali gli si arrampicano sulla fronte.
- Paride? - dico.
- Non è nulla - dice. Poi, premuroso guarda la mia ferita. - Solo un graffietto, sei fortunata.
Si fruga nelle tasche. Sono tantissime le sue tasche. Finalmente tra le sue mani compare una piccola striscia rettangolare color arancio, ne estrae una cartina bianca per volta.
- Sono per il fumo - dico.
Sorride. Chiudo gli occhi. La leggera pressione delle sue dita dà sollievo al mio zigomo. - Ho solo fazzoletti sporchi - dice.
- È così assurdo tutto questo. Mi sento un intruso. Davvero! Ho l'impressione di conoscerti da sempre, ma è falso. Non so niente di te, niente. Ti chiami Marilena, odi Santalba, il greco, il culto di Sant’Agostino. Da quasi due anni vivi con un laureato in sociologia che ti usa come cavia per i suoi esperimenti.
Le spalle al muro, le ginocchia all'altezza del petto, il mio cappotto tirato sul mento, rigidi, vicinissimi, distanti. Lo ascolto parlare.
- Vorrei che tu non avessi passato, ma solo futuro. Vorrei che tu scegliessi me per tuo figlio. Per tua figlia, per Magdalena.
Lo ha scelto lui il nome, in onore di questo rifugio per drogati. «La chiesa della Magdalena, fondata presumibilmente verso la fine del III secolo, per ringraziare il Signore per il buon approdo concesso alla colonia bizantina, rimase consacrata al culto fino a tutto il XII secolo. Ma la vocazione commerciale di Santalba, le guerre e i proditori attacchi dei pirati saraceni, obbligarono i Santalbini a ricostruirla molto più lontana dal mare. L'attuale Cattedrale di Sant’Agostino, infatti, altro non è che la ricostruzione della primordiale chiesa di Santa Magdalena al Mare».
- Penso che quello dell'intervista per La Miniera Del Serpente non sia stato altro che un trucco per avvicinarti. Un inganno per arrivare a conoscerti.
«Oggi, dispiace constatare il totale stato di abbandono dell'antico tempio: esternamente si presenta come una vecchia e povera casa diroccata con solo un quarto di tetto ancora non crollato, anche se, i resti, o meglio le macerie, dell'alta scalinata, a un occhio esperto, lasciano intravedere ben altro che un vecchio rudere». Dove ho letto queste cose?
- E poi che ne sai tu di me? Della mia vita? C'è sempre Augusto al centro dei nostri discorsi. Hai ragione, non devo usare questo tono, non devo essere geloso di te, non devo pretendere di cambiare il corso della tua vita.
Sono dentro il libro di Augusto quelle frasi, nel capitolo dedicato a droga e culto del mare.
- Marilena!
Alza la testa, sembra diventare molto più alto di me. Mi fissa intensamente, ma è come se non fossi io chi vede.
- Io sono innamorato - dice.
C'è troppo silenzio dentro questa camera diroccata, tutto sembra così irreale. Un uomo che quasi non conosco mi ha appena chiesto di amarlo, di sceglierlo per non abortire una figlia che non riuscirei a desiderare. Ma io, Marilena?, non gli importa niente di me?, della mia vita?, di quella bambina cresciuta orfana e bastarda? Approfitta Marilena, non fartelo sfuggire il professorino.
La mia vita è una farsa. Una stupida messinscena impostami sempre da pessimi registi. Detesto il buio, queste strozze siringhe gettate intorno a me con noncuranza, il rumore dei passi dei topi confuso con quello dei fantasmi dei sacerdoti-guerrieri bizantini morti in battaglia.
Detesto il silenzio:
- Da piccola non potevo giocare con chiunque. Alcune bambine nemmeno mi rivolgevano la parola. All'asilo la maestra doveva obbligarle perché giocassero anche con me. Piangevano per non darmi la mano. Quando mi spiegarono della mia nascita avevo quasi sei anni.
«- Un pomeriggio, al rientro da scuola, posi a mia madre una precisa domanda: perché io e Paola non abbiamo lo stesso padre? Mia madre scoppiò in un pianto a dirotto. Fu Paola a spiegarmi tutto. Suo padre, il marito della mamma, era molto malato, morì molto prima che nascessi. Non tanto perché non dovessi prendere legalmente il suo cognome però. Ma nemmeno troppo poco perché i santalbini non cominciassero a insinuare che quel poveraccio non fosse il mio vero padre.
Non mi è importato mai di sapere chi fece realmente l'amore con mia madre. Chi diede qualche bacio a una povera donna che più nessuno abbracciava da anni.
Paride mi stringe dolcemente, mi bacia sulla guancia, accarezza la mia mano, se la porta alle labbra.
- Non voglio un altra Marilena… - ma le parole mi si spezzano in gola, le lacrime mi bagnano il viso, non so perché piango, ma non me ne vergogno.
Rumori. La scoperta di un'altra presenza ci paralizza. Un'ombra si materializza tra le macerie e il buio della vecchia chiesa.
- Cazzo, cazzo, cazzo! - grida. Ha la voce di un ragazzo spaventato.
Poi dei passi, qualcuno che corre disperato. Un corpo giovane che indossa maglione e pantaloni ci passa accanto senza vederci. La luna fa luce sul suo volto di bambino.
- È morto - ripete a se stesso, - è morto.
Scompare, i suoi passi fuori della chiesa bizantina ci arrivano sempre più ovattati.
Mi sollevo, col corpo urto la parete di pietra, è difficile procedere al buio e pieni di timore.
Paride è dietro di me, cerca di fare luce attraverso la povera fiamma del suo accendino. - Non hai paura? - mi chiede.
Poi lancia un urlo. Anch'io vengo assalita dalla paura, tremo.
- Ho urtato contro qualcosa di morbido - dice. - Un paio di gambe, credo.
Ci sarebbe bisogno di molta più luce. Frugo nelle tasche dei jeans. In quella posteriore trovo sei fogli di carta dattiloscritti. Li ho ripiegati prima di uscire. Concludono il mio diario scritto da Augusto. Vi si racconta di un aborto clandestino subito da una Marilena. Serviranno a far luce.
Dopo averne preso la forma scivolando nel cavo della mia mano, quei fogli diverranno torce.
C'è un ragazzo ai nostri piedi. Ci inginocchiamo per osservarlo meglio. Indossa pantaloni scuri e camicia chiara. La mano sinistra gli si muove meccanicamente sul petto. Respira ancora, è vivo.
Una dopo l'altra le mie torce illuminano il suo viso. È un ragazzo, non dimostra più di sedici anni.
- Aiutiamolo - dice Paride passandogli un braccio sotto la schiena e cercando di farsi abbracciare da lui. Lo aiuto. Lo sosteniamo. È magro.
Il mio diario è finito, ma non importa, pochi passi e arriviamo all'imboccatura della chiesa.
- Mamma, mamma - farfuglia.
- Come stai? Riesci a camminare? - gli chiede Paride.
- Ma non capisci che sta morendo - grido. - Dobbiamo portarlo in ospedale!
Paride mi guarda mortificato, non ha la macchina, lui, e nemmeno conosce così bene Santalba per sapere dove sia il bar più vicino. Alle undici di notte, d'inverno, è tutto chiuso nella città vecchia.
- Rimani qui con lui - dico, - chiamo un'ambulanza da casa di mia madre.
Non c'è più tempo per fermarsi a pensare, devo correre. La mia vecchia casa non dista più di cinquecento metri in linea d'aria. Corro giù lungo l'alto dislivello di macerie che ricoprono la scalinata di Santa Magdalena al Mare.
5.III.1986 - mercoledì, pomeriggio
Tonino è appena andato via. Paola mangia un pasticcino, seduta al tavolo della mia cucina. Sfoglia distrattamente La Cosa, l'ultimo libro di Moravia che ho cominciato a leggere. Ho terminato di filtrare il tè.
- Credo che la sola cosa che guadagnerò da questa storia sarà una grossa indigestione. Se ogni volta continuerà a regalarci dolci, ingrasseremo a vista d'occhio - dice.
- E tu non mangiarne. Vuoi latte o limone? - le chiedo.
- Latte, grazie. Mangio meccanicamente. Per nervosismo. Quel ragazzo mi indispone. Non è simpatico.
Metto sul tavolo la teiera e le tazzine. Paola ha già attaccato un pasticcino alla frutta.
- Ma non possiamo scegliere i nostri allievi in base alla simpatia - dico. - Se si insegnasse solo ai simpatici credo che la terra straboccherebbe di ignoranti.
- Ma dai, non farla tanto tragica. Ho detto soltanto che non mi è simpatico, mica che voglio tirarmi indietro.
Tra breve tramonterà, gli ultimi raggi del sole investono il volto di Paola, mentre mi parla tiene l'occhio destro socchiuso, per difenderlo dalla luce. È bella anche con un solo occhio aperto.
- Forse non ispira troppa simpatia, ma è un ragazzo che ha subìto l'intolleranza della stampa e della gente. In troppi hanno voluto decidere per lui - dico girando lentamente il cucchiaino.
- Sarà, ma a me non piace. È incapace di accettare i suoi limiti. Ciò che lui non capisce non esiste, dove la sua intuizione non arriva finisce il mondo - si interrompe per bere il suo te.
- Non è un po' duro il tuo giudizio? - le chiedo. - In fondo è soltanto un ragazzino.
- Appunto, un ragazzino stupido e presuntuoso che crede di avere capito tutto della vita perché senza volerlo ha rotto la testa di un professore cretino.
È nervosa, non sono giudizi sereni i suoi. Da settimane parliamo solo di Tonino Carta e della scuola, io e lei. E sono mesi che rimando le domande sul suo rapporto con Nando, il bacio improvviso di quella notte, l'odore del suo corpo abbracciato a quello di un altro uomo rimasto nel mio letto. Vorrei riuscire a desiderarla tanto da obbligarmi ad assalirla e amarla su questo tavolo da cucina, rovesciati tra libri e tazzine. Ma posso soltanto aspettare che sia di nuovo lei a chiamarmi.
- A te è simpatico invece, ti fa sentire importante, coraggioso.
Paola è tagliente, ma ha ragione, con quale diritto sono entrato nella vita di quel ragazzo?, in quella di Marilena?, nella sua?
24.III.1986 - Lunedì, pomeriggio
- Non era poi così difficile il problema. È bastato un pochino di concentrazione e ci siamo riusciti. Non esistono problemi senza soluzione se conosciamo quelle poche regole che ci viene chiesto di applicare. Sono delle scatole smontate i problemi, se segui i percorsi indicati dalle pieghe li richiudi in pochi attimi.
Tonino sta seduto di fronte a me, mi ascolta con interesse.
- Anche con l'italiano è lo stesso - continuo. - Quando credi di scrivere un testo che appartiene a te solo, un testo che nessun altro ha mai scritto, non sei tu a scrivere ma le regole che altri hanno inventato e conoscono meglio di te. Noi ci limitiamo a lavorare seguendo le pieghe: dati del problema-titolo del testo; svolgimento-soluzioni intermedie; conclusioni-risultato. La regola è la stessa, a noi è concesso di intervenire soltanto sullo stile, sull'esteriorità della scatola.
- Ma se io cominciassi dalla fine?
- Si comincia sempre dalla fine, in tutte le cose, ogni nostro atto è sempre il tentativo di realizzazione di un desiderio. Un'idea, un progetto, uno scherzo, un regalo, una persona. Qualsiasi nostro desiderio ci obbliga a cominciare dalla fine. Tu disegni un cerchio, cominci dal punto A e concludi nel punto A.
- Che senso ha scrivere, allora? Tutto si sa già da prima?
- È il piacere del testo. Sì, il piacere della lettura, della scrittura, della creazione, del gioco. È la vita. La letteratura, come i sogni, fa parte delle nostre necessità primarie, dobbiamo soltanto imparare ad accettarlo per non correre il rischio di procedere in maniera confusa e casuale. Ci sono molte differenze tra chi è diventato forte e robusto ma in maniera asimmetrica a causa degli automatismi del suo lavoro, e chi dopo anni di palestra ha trasformato il suo corpo in una magnifica armonia. Insomma, chi legge soltanto di sport non capisce Proust, chi ama Proust si diletta anche di cronache sportive.
- Che cosa vuol dire? Che se non vado in palestra divento stupido?
- Ma no, è difficile da spiegare, ma ciò che cerco di dirti è che ogni uomo è sempre quello che è: se stesso. Ed è per rispetto a sé che ognuno di noi ha il dovere di scoprirsi, accettarsi, e diventare un altro.
Sono confuso, inseguo immagini che non riesco a focalizzare, rifletto a voce alta. Non è didatticamente utile procedere a strattoni, Tonino non è una proiezione della mia fantasia, lui è assolutamente incolpevole di tutti i miei guai.
- Vedi - proseguo, - nel corso dei millenni gli animali hanno modificato se stessi per integrarsi nella natura, l'uomo invece ha modificato la natura. Ma ogni uomo è “un altro” e non tutti gli uomini sono capaci di modificare la natura, alcuni, i più, possono agire soltanto sul loro corpo, sui propri processi mentali. Se la mia professione mi obbliga a rimestare con un bastone farina e latte stando seduto, mi si irrobustiscono le braccia ma non le gambe. E riconoscere alla perfezione ogni lettera dell'alfabeto latino non significa sapere leggere. Insomma, alcuni di noi esistono soltanto in funzione di un gruppo, altri sono autosufficienti a se stessi. I primi sono un ingranaggio della macchina sociale, gli altri sono essi stessi una macchina sociale autonoma, capace di modificare, oltre che l'ambiente naturale, anche quello sociale, e per ciò stesso gli altri uomini.
Non mi riesce di immaginare un'esistenza autonoma di lui, di Tonino, del suo compagno Serra, delle mani ruvide di Cappuccetto. E io? Potrei esistere da solo, io? Che senza Andreina non sono più capace nemmeno di riflettere?
- Insomma, da quello che ho capito - dice Tonino con un pizzico di cattiveria nella voce, - prima di nascere avrei dovuto scegliermi i genitori più ricchi e più belli di Santalba, così non nascevo con le gambe corte e il culo grosso, e non mi obbligavano a lavorare in pasticceria.
- Ma cosa dici? - gli rispondo seccato. - Lo hai studiato il catechismo? Non ti ha insegnato il prete a ribellarti contro il padre e la madre? Nessuno può scegliersi i genitori naturali, ed è per questo che Cristo si è fatto uomo, per obbligarti al rifiuto delle leggi imposte dalla natura e dagli uomini, per obbligarti alla ricerca di un te stesso altro da te: di quel te stesso che ha bisogno di un padre nel quale identificarsi: il Maestro evangelico. Cristo, il figlio del Signore fattosi Maestro, colui che ha portato agli uomini la spada.
Non dovrei fare questo mestiere, un insegnante non deve mai perdere la calma, deve sempre sapere in anticipo quanto e come offrirà. Non può seguire i percorsi isterici della causalità. Ero un pessimo studente con una memoria scarsissima, sono diventato un insegnante confusionario e irrispettoso. Tonino ribellati, prendi me come Maestro. Ma quale spada saprei offrirti, io?
- Scusami, sono un esagerato. Passiamo ad altro, ti va?
Sorride, non sembra poi tanto dispiaciuto per la mia sparata cristologica. Si aggiusta gli occhiali, recupera un libro nascosto da qualche quaderno. Me lo mostra, lo agita buffamente minaccioso stringendolo nella mano destra. Alberto Moravia, Agostino.
- Parlo?
Gli faccio cenno di sì.
- Agostino è un ragazzino ricco in vacanza al mare insieme alla madre vedova. Alla madre piace un giovanotto, così manda Agostino a giocare da solo. Incontra Berto, un ragazzino povero, Berto gli fa conoscere tutti i suoi amici, poveri anche loro. A Agostino lo prendono in giro, perché è debole e troppo figlio di papà, e poi perché la madre se ne va con un giovanotto. A!, poi c'è un bagnino che ha dodici dita, e che è un po', mi! - si stringe intenzionalmente il lobo dell'orecchio sinistro. - Finisce che lui vorrebbe andare a troie, ma siccome è troppo piccolo non lo lasciano entrare - sorride, è convinto di avere già concluso.
Lo rimprovero: - E tu credi di poter ridurre uno dei capolavori della narrativa contemporanea a queste quattro stronzate? E il conflitto Edipico?, Marx e Freud?, li lasci fuori della porta?
- Ma cosa ne so?, non l'ho scritto io il libro!
- Ma scusa, non sei riuscito a cogliere il conflitto interiore di questo ragazzino che scopre che anche sua madre è una vera donna?
- E chi non se ne accorgerebbe? Con una stangona come quella…
- Che cosa vuoi dire?, che se la madre di Agostino fosse stata racchia lui non se ne sarebbe sentito attratto?
- Chi le guarda le racchie? Io ancora non ho capito come abbia fatto mio padre a sposarsi la mamma - fa una pausa, poi prosegue. - Veramente non capisco nemmeno come mamma sia finita con uno come lui.
- Ma perché, se tua madre fosse una donna molto bella e i tuoi compagni ti chiedessero di spiarla quando si spoglia, tu lo faresti?
- Che cosa vuol dire?, se mia madre fosse stata bella avrebbe sicuramente sposato un uomo ricco, e io non sarei mai stato sospeso.
- Per te, allora, il complesso di Edipo esiste solo per i belli ed i ricchi?
Ha solo quattordici anni lui, nessun esame di psicologia alle spalle, nessun film hithcochianamente psicanalitico nella memoria, e forse la ragione è dalla sua: il bambino Freud era convinto che suo padre fosse suo fratello maggiore: giovane, bello, ricco, coetaneo della bella madre del piccolo Sigmund.
- E poi - mi fa notare, - un'altra cosa che non mi è piaciuta è quella storia del bagnino e del negro.
- Il tabù dell'omosessualità!
- Ma che tabù d'Egitto. Se a uno gli piacciono gli uomini, che bisogno c'è di fargli dodici dita?, e se un ragazzino va con un uomo, che bisogno c'è di farlo negro? Io conosco un sacco di amici che per cinquemila lire si fanno toccare da qualche grande, e non sono né negri né con sei dita.
- Si tratta di una metafora, un'invenzione letteraria che ha permesso a Moravia di affrontare il tema dell'emarginazione senza scadere nel banale, nella cronaca.
Ridacchia. Non mi crede.
- Non sei d'accordo su niente, non hai colto nessuna poesia; nemmeno quando ad Agostino vengono chiuse le porte del postribolo e, impotente, viene costretto a rimandare la scoperta del sesso?
- E gli occhi e le mani, che cosa li aveva, per bellezza?
- Che cosa vuoi dire?
- Che ricco com'era poteva svaligiare un'edicola e sistemarsi per tutta la vita.
- Spiegati!
- Dai che ha capito!
- Non capisco, sii esplicito.
- Che cosa vuole?, che le faccia l'elenco di tutte le riviste pornografiche che esistono al mondo? Agostino poteva comprarne due o tre, scambiarle con quelle di Berto, con quelle degli altri, e poi… - le dita della sua mano destra sono chiuse intorno a un immaginario bastone, il pugno va velocemente su e giù. - Capito? - mi chiede.
- Moravia - dico, - costretto com'era nelle camere degli ospedali, da ragazzo non aveva certo occasione per masturbarsi insieme ai coetanei. E poi, quando scrisse Agostino, c'era ancora la guerra, un uomo normale o un ragazzo ariano, la censura non avrebbe mai permesso che venissero rappresentati come omosessuali. E soprattutto, c'erano i casini, allora, mica le riviste pornografiche come adesso.
Non credo che Tonino riesca a capirmi.
- C'è una parte che mi è piaciuta molto - dice, - quando Agostino si finge aiuto bagnino e porta quel padre e figlio ricchi a fare un giro sul pattino.
Il mio atteggiamento gli chiede di continuare.
- Non so, forse è perché è una cosa che ho fatto anch'io tante volte con i turisti. A loro non importa di sapere la verità, più bugie gli racconti e meglio è, come se tu facessi parte della cartolina.
- Allora Augusto un po' ti assomiglia?
- Augusto?
- Scusa, Agostino.
- Per niente, io non sono così fesso, non mi lascerei mai chiamare Pisa e so benissimo come sono fatte le donne.
Credo che abbia ragione Paola, Tonino Carta è antipatico. - Ma se mandavi i bigliettini d'amore a quella rachitica di Sara! - gli dico indispettito.
Non mi risponde, sono uno stupido, non devo vendicarmi su di lui. - Scusa, scherzavo.
- Non sono offeso, Sara non mi piace più, però, l'amore non c'entra niente con la bellezza. Sara mi piaceva per tante altre cose. E poi - prosegue dopo una breve riflessione, - un uomo deve avere la sua donna.
- Certo - dico, - un uomo deve avere la sua donna!
Penso ad Andreina, ai suoi piedi nudi sul cruscotto della mia auto, dopo l'amore nei pomeriggi d'estate. Al suo corpo sudato disteso accanto al mio.
- Ti andrebbe un te? - chiedo al mio alunno.
- Meglio un bicchiere di birra.
Svuota il bicchiere d'un solo fiato, ma non è una sfida, è la conferma che anche lui è un uomo. Anche a Mureddu bisogna bere così, si misura in litri di birra la mascolinità in Sardegna.
- Mi'! adesso che ci penso - dice, - Agostino è quello che è perché è ricco e istruito, mentre gli amici di Berto sono poveri e ignoranti. Cioè, lui, Agostino, può modificare se stesso pur rimanendo se stesso, mentre gli altri rimangono quello che sono.
- E dove sta la differenza?
- Mi'! Agostino si finge povero per guidare la barca, ma lui sembra povero, in realtà non è né povero né ignorante, è quello che è: Agostino. Tortima invece, quando si mette l'abito della domenica per andare a troie, non sembra un altro, è rimasto se stesso: un poveraccio. Insomma, Agostino pensa, riflette, ragiona, gli altri no, esistono e basta.
- Però! Salute!
- Vita! - risponde. I nostri bicchieri si toccano.
Mureddu Maiore, 24.3.86
Ciao Paperino,
non mi stupisce quanto ti sta accadendo, la realtà è spesso differente dal film che abbiamo sperato. Davvero pensavi che i tuoi alunni avrebbero continuato tutti a rimanere solidali al tuo pupillo?, che avrebbero contribuito alla sua reintegrazione sociale? Suvvia Paperino, hai già dimenticato i nostri anni di scuola? Hai dimenticato te stesso? Rifletti un attimo solo: credi sia giusto che la tua amica Caterina debba sapere di te attraverso i racconti di tua madre?
Ma non importa, forse è giusto così, forse ha ragione chi sostiene che raccogliamo sempre i frutti dell'unico albero che abbiamo curato. Per te sarò sempre Caterina Formaggina, quella brava nelle versioni di Cicerone, e tu rimarrai Paperino, il compagnetto buffo che non sapeva niente di latino e di donne.
Ma non importa, davvero, non importa. Anch'io, come tua madre, sono orgogliosa di te e ti aiuterò volentieri. Ti prego, però, telefona anche a me qualche sera. Scusa, non chiamarmi se non te ne viene la voglia.
Mi viene da sorridere, sì, ti immagino mentre ascolti il preside che cerca di convincerti a tornare sui tuoi passi, che ti propone il recupero dell'alunno Carta attraverso la sua onorata scuola. Avresti dovuto sentirla tua madre. Nel suo racconto eri alto due metri e con voce possente gridavi a un ometto giallognolo e timoroso tutto il tuo disprezzo. Invece sei tu quello piccolo, «ma vede signor preside», avrai balbettato, confessa: deciso, ma balbuziente.
Non deve essere facile lavorare in quella scuola per te. Solo contro tutti, come in un film western. Ma tu non sei solo, non è vero? Hai te stesso a cui pensare.
Sono cattiva?
La tiro per le lunghe, scusa, ma forse saprai già da tua madre. Parlerò presto col vecchio Sergio, col mio concognato vicepreside ed exsessantottino. Mandami intanto i certificati necessari, provvederò io stessa a iscrivere il tuo giovane martire nella scuola di Mureddu Maiore perché sostenga privatamente gli esami per la licenza media.
Che buffo Paperino, eccomi ancora ai tuoi ordini, come al liceo, tu chiami e io arrivo, io Bradamante e tu Rinaldo; non temere, non faccio confusioni con Ruggero.
P.S.: È ancora così bello lo Strudel?
Mandami una cartolina con il sole che vi tramonta dietro. Ti prego. Da piccola trascorsi un intero mese estivo a Santalba. A seconda degli stati d'animo, Capo Santalba, lo Strudel, mi sembrava una balena, oppure la bella addormentata sul mare.
Lo Strudel
Commedia in due atti e un epilogo
Personaggi
Antonio Garofaniello, 50 anni, grecista
Costantino Dicostanzo, 50 anni, barista
Pier Andrea Marcellini, 40 anni, inviato della Rai
Gigliola Giovannangeli, 30 anni, bionda ossigenata, inviato di una rete privata
Marta, 20 anni, operatore
Giorgio Notardigiacomo, sindaco di Santalba
Augusto Piras, 20 anni, studente, ragazzo di Lucia
Nando Nieddu, 20 anni, studente, ragazzo di Paola
Paola Cau, 20 anni, studentessa, ragazza di Nando
Lucia Pieromalli, 20 anni, studentessa, ragazza di Augusto
A Santalba, piccola cittadina sul mare del nord-niente della Sardegna. Durante i giorni di une prossime olimpiadi di Atene.
Atto secondo
La scena è la stessa, ma siamo di notte; le luci sono quelle di un bar all'aperto poco prima della chiusura in una notte stellata. L'ex voto è calato fino a metà del gabbiotto. Costantino accatasta le sedie e i tavolini e osserva lo schermo. Augusto e Gigliola stanno seduti a chiacchierare e bere. Marta visiona le cassette della giornata a grande velocità. Volti e paesaggi marini si accavallano illeggibili.
Augusto: Capisci adesso? Garofaniello, dopo lo scandalo internazionale sollevato a causa del suo arresto…
Gigliola: Senti, io sono un reporter, non uno storico, e di questa storia capisco solo che è un gran casino che mi farà perdere un mucchio di tempo.
Augusto: Ma no, ragiona, potresti trarne un servizio interessante, ascolta.
Gigliola: Se soltanto questa maledetta roccia crollasse. Sarebbe lo scoop del secolo.
Augusto: Già, magari con una dozzina di turisti intrappolati dentro le grotte del Tritone.
Gigliola: Sarebbe stupendo. Uno scoop tremendo. Con tutti i giornalisti del mondo che si affannano a intorno alle olimpiadi di Atene: io, sola, a tenere il pubblico col fiato sospeso. Come nel film di Gene Wilder, Asso nella manica.
Augusto: Billy Wilder.
Gigliola: Già; e io, come giornalista televisivo, sono molto meglio di Burt Lancaster.
Augusto: Kirk Douglas.
Gigliola (Seccata): Ma che vuoi? (A Marta:) Hai finito?
Augusto: Senti, questa della roccia di Capo Santalba che frana e non frana, è tutta una stupida manovra politica. Ogni volta che nel gruppo di maggioranza c'è maretta, o peggio, quando hanno intenzione di spartirsi chissà quale torta, se ne vengono fuori con la palla che Lo Strudel crollerà da un momento all'altro, e che dobbiamo stare attenti. Sai quante volte avrebbe dovuto crollare da quando sono nato io?
Gigliola: Quante?
Augusto: Troppe, una ogni tre mesi all'incirca.
Gigliola: Ma è vero. Ho visto le foto. Ogni anno la roccia di capo Santalba si sfalda e scivola per sempre dentro il mare. Ho visto le foto ti dico, e se tu le compari l'una con l'altra lo sfaldamento della parete di roccia è chiarissimo. E secondo i geologi può crollare da un momento all'altro.
Augusto: Ma certo. Da un giorno all'altro, da un anno all'altro, da un secolo all'altro.
Gigliola: Non crollerà?
Augusto: Non crollerà!
Gigliola: Sei proprio sicuro che non crolla?
Augusto: Sicurissimo.
Gigliola: E Alexis? Che ci fa qui una celebrità come lui se non è per registrare un avvenimento di portata secolare?
Augusto: Appunto. Perché non mi lasci dire tutto dal principio?
Gigliola: Ma sì, ho capito. Santalba era una colonia greca, per questo i Santalbini parlano ancora oggi il greco antico. E tu, tu lo parli ancora, il greco?
Augusto: Un po' l'ho studiato a scuola. Ma non ha molto a che vedere con ciò che ancora parla qualche pescatore.
Gigliola: Vediamo. Poi, negli anni Sessanta, durante la rivolta di Cipro…
Augusto: No pochi anni prima, dei Colonnelli…
Gigliola: Che sono in Grecia…
Augusto: Sì. Negli anni che precedettero la dittatura dei Colonnelli, i comunisti Greci e Ciprioti chiedevano l'indipendenza e l'autodeterminazione anche per Cipro. E Santalba, vecchio insediamento bizantino, e perciò culturalmente greco e cipriota, avrebbe potuto funzionare da cassa di risonanza internazionale.
Gigliola: Ma non funzionò.
Augusto: Però cambiò la vita di Alexis Papatanhassious, che qui conobbe…
Gigliola: Quello stronzo di Antonio Garofaniello, che non vuole dirmi dove quel figlio di puttana di Alexis si sia nascosto.
Costantino comincia a prestare interesse ai discorsi di Gigliola e Augusto.
Augusto: Parli di Papatanhassious con un tale astio!, come se lo conoscessi, quasi.
Gigliola: Cazzo!, quel figlio di una buona donna, certo che lo conosco. Mi aveva promesso una intervista in esclusiva: il succo del suo prossimo romanzo…
Augusto: E invece, non ti ha concesso l'esclusiva?
Gigliola (Ammiccante): No, anche se la mia se l'è presa ugualmente.
Augusto (Anche lui ammiccante): In esclusiva?
Gigliola (Riferendosi a Costantino): Ma che vuole questo?
Augusto gli fa cenno di allontanarsi. Costantino gli mostra il polso con l'orologio. Augusto insiste. Costantino scompare per ricomparire dietro il gabbiotto, da dove continua a seguire i loro discorsi.
Augusto (Ammiccante): Allora, quell'esclusiva?
Gigliola (Ammiccante): Ma che curioso.
Augusto: Allora?
Gigliola: Sono contraria alle esclusive, per una questione di principio.
Augusto: Anch'io. Anche se, devo dire che non mi dispiacerebbe davvero approfondire questo particolare aspetto della faccenda.
Gigliola (Sul faceto): Sentiamo, qual è questa grande intuizione che avresti avuto sul greco?
Augusto (Sottovoce): Credo che Alexis Papatanhassious abbia un figlio segreto qui a Santalba.
Gigliola: Cazzo! Voglio sapere tutto.
Augusto: Al tempo. Anch'io, come te, sono contrario alle esclusive.
Gigliola: Stronzo!
Augusto: Sempre che il prezzo pagato non giustifichi… i mezzi.
Gigliola: Bastardo!
Augusto: Ho capito, non t'interessa.
Gigliola: Ti andrebbe una compartecipazione?
Augusto: Se ne può parlare. Da te?
Gigliola: Meglio in campo neutro. (A Marta:) Marta, tu che fai? Devi visionare ancora per molto?
Marta: Hmm.
Gigliola: Non stare a preoccuparti se torno tardi in albergo, va bene?
Gigliola e Augusto escono tenendosi per mano. Costantino abbassa definitivamente l'ex voto ed esce dal gabbiotto. Accatasta anche l'ultimo tavolino e rimane accanto a Marta ad osservare le immagini che continuano a passare prive di senso. Entrano Paola e Marcellini. L'uomo la tiene a braccetto, tra le mani stringe un mazzo di fogli dattiloscritti arrotolati a tubo. Parlano, prima camminando e poi andando ad appoggiarsi alla barca rovesciata.
Marcellini: E così stai portando avanti uno studio sulla letteratura santalbina, alla ricerca delle tracce di grecità che ancora conserva. È davvero molto interessante. Davvero interessante. Ed hai già recuperato sufficienti testimonianze per giustificare la tesi di un legame ancora forte.
Paola: Oh, sicuro, ho tantissimo materiale; per il prossimo settembre spero di riuscire ad avere una borsa di studio che mi consenta di soggiornare qualche mese in Grecia, per portare a termine il lavoro di ricerca.
Marcellini: Pensi di contattare anche Papatanhassious?
Paola: Sono già in contatto epistolare con lui.
Marcellini: Oh, bene.
Paola: È una persona molto gentile!
Marcellini: Davvero?
Paola: Sì, con me e con Irene è stato adorabile.
Marcellini: Lo conosci personalmente.
Paola: Lo scorso aprile, al congresso Letterature, Lingue ed Etnie a Cagliari, ha voluto conoscerci ad ogni costo, solo perché siamo di Santalba.
Marcellini: Ed è davvero così carino come appare in televisione e sui rotocalchi?
Paola (Sarcastica): A chi piace!
Marcellini: Senti, perché non mi aiuti a contattarlo Papatanhassious potrebbe esserci di grande aiuto.
Paola (Sarcastica): Ho il suo numero e indirizzo di Atene, ma non credo che possano servirti.
Marcellini: No! Credo proprio di no. (A Costantino:) Ehi, oste, non si potrebbe bere qualcosa?
Costantino: Siamo chiusi.
Marcellini: Dai oste, ti pagherò lo straordinario.
Costantino: È chiuso.
Marcellini: Nemmeno un gelato confezionato, puoi servirci? (A Paola:) Ti andrebbe un ghiacciolo alla fragola?
Paola: Hm, hm.
Costantino: No!
Paola: Dai, Costantino!
Costantino scompare dietro il gabbiotto.
Costantino: C'è solo limone!
Marcellini (A Paola): Ti va il limone?
Paola: Hm, hm.
Marcellini: Vada per il limone.
Dopo qualche attimo di trambusto Costantino ricompare reggendo i due gelati. Marcellini estrae dal portafogli un biglietto di grosso taglio. Costantino lo guarda e ci pensa su un attimo, poi gli passa i gelati senza prendere i soldi e torna accanto a Marta.
Marcellini: Grazie!
Sbucciano i gelati lentamente, ma non ci sono più né cestini e né posacenere. Alla fine Marcellini si mette le bucce nella tasca della giacca. Parlano e succhiano.
Marcellini: E così tu non ne sapevi niente.
Paola: No!
Marcellini: Sai, è che esistono due differenti scuole di pensiero sulla presenza di Alexis Papatanhassious a Santalba.
Paola (Sarcastica): Scuole di pensiero!
Marcellini (Fingendo di non aver sentito): La prima sostiene che il Papatanhassious abbia saputo da fonte sicura che Lo Strudel stia su punto di sprofondare definitivamente. La seconda, che abbia qui un'amante.
Paola: Chi?
Marcellini: Non lo so, pensavo che tu potessi essermi d'aiuto.
Paola: Per quello che ne so io, sono almeno dieci anni che Alexis non mette più piede a Santalba.
Marcellini: Ammettiamolo pure, ma Alexis Papatanhassious è un figura centrale della storia e della letteratura contemporanea Greca, e inoltre, come tu stessa dicevi qualche minuto fa, l'opera di Papatanhassious è pervasa di Santalbità, molti dei luoghi del suo immaginario, per non dire dei suoi personaggi, sono presi di sana pianta dalla realtà Santalbina.
Paola (Sarcastica): E allora?
Marcellini: Non credo che tu sia il primo studente, o studentessa, che lo contatta per portare avanti uno studio sulla vostra letteratura dialettale.
Paola (A se stessa): Irene!?
Marcellini: Prego?
Paola: Nulla. Solo che non ci credo. Sono sicura che, le tue scuole di pensiero, siano del tutto campate in aria.
Marcellini: Può darsi.
Paola: Guarda, sono certa che non è vero niente. Mi avrebbe avvertita, se fosse venuto da queste parti.
Marcellini: Certo, certo.
Paola: E poi Antonio lo saprebbe, si conoscono da anni.
Marcellini: Ti riferisci al Garofaniello? Sai, non mi ha fatto una troppo buona impressione, non sono riuscito a capire se sia davvero pazzo, oppure tutte quelle cose che dice di essere. Poeta, pittore, eroe dei due mondi. E quella lesione alla spina dorsale che non smette mai di mostrare. Ma ti pare che uno possa spogliarsi per strada per farti vedere com'è ridotto il suo fondo schiena?
Paola: Non parlare così!
Marcellini: Scusami, non volevo, lo conosci da molto?
Paola: Era molto amico di mio padre.
Marcellini: Era?
Paola: È morto da quasi dieci anni, pochi mesi prima che nascesse mia sorella. Era molto malato.
Marcellini: Non sapevo. Mi dispiace tanto. Davvero. La vita.
Paola: Gli volevo molto bene.
Silenzio.
Marcellini: Quindi è tutto vero? La lesione alla colonna vertebrale gli è veramente stata provocata dall'assalto di un gruppo di teppisti greci mentre si trovava incatenato ai cancelli dell'aeroporto?
Paola: Sì, anche se le autorità greche e italiane hanno negato tutto fino a quando un turista della Pennsylvania non ha venduto le foto del pestaggio a un'agenzia giornalistica internazionale.
Marcellini: Un vero dritto.
Paola (Su di tono): Un bastardo! Antonio Garofaniello e Alexis Papathanassious subirono il carcere e la tortura per più di due settimane. Il tempo necessario a quel… dritto di concludere la sua crociera intorno al mondo.
Marcellini: Ma è straordinario, è una storia che meriterebbe tutti interi i tre minuti di un servizio delle venti e trenta.
Paola (Sarcastica): Che bello.
Marcellini: È già da un po' che mi chiedo se questo tuo facile sarcasmo non sia fuori luogo. Non ti ho chiesto niente, io. Sei tu che vuoi che legga questo dattiloscritto. (Dà una botta con la mano sul mazzo di fogli:) Perché, come mi hai detto, dentro ci troverò la vera Santalba. Tu mi sei simpatica e non ho nessun secondo fine nascosto. Sei una ragazza intelligente, simpatica, … graziosa. E, non mi pare di meritare queste tue punzecchiatine…
Paola: Vuoi fare l'amore?
Marcellini: Sì?
Si guardano, tutte due succhiano ancora il gelato al limone. Paola mette il suo gelato fra le labbra di Marcellini. Lui lo succhia con voluttà. Ma si odono delle voci. Marcellini reagisce. Il gelato gli finisce sulla camicia e sui pantaloni. Cerca di pulirsi come può.
Marcellini: E che cazz… Dai, andiamo via, arriva qualcuno. (Ammiccante:) Andiamo da me?
Escono Paola e Marcellini. Entra Garofaniello, ubriaco, insieme a lui ci sono Nando e Lucia. Lucia è molto impressionata.
Garofaniello: Voglio sistemare questa maledetta antenna una volta per tutte. (Allunga le mani come per saltare sul tetto:) Reggimi, su, reggimi.
Nando: Ma lascia stare, che t'importa? È tardi, dovresti andare a letto, e anche noi. Diglielo anche tu, Lucia.
Lucia: Certo. Dovremmo andare tutti a letto a quest'ora.
Costantino: Shhh! La signora sta lavorando. (A Marta:) Signora o signorina.?
Marta: Hm
Lucia (A Costantino): Hai visto Augusto per caso?
Garofaniello: Voglio vedere il salto con l'asta, voglio assistere in diretta al nuovo record del mondo. (Prosegue nel suo inutile tentativo di arrivare sul tetto con un solo balzo).
Costantino: Quando?
Lucia: Poco fa.
Nando e Lucia si avvicinano allo schermo. Quasi si trattasse di un fuoco notturno acceso in un bivacco. Intanto, perché più nessuno gli bada, Garofaniello riesce pian piano a recuperare una sedia e a portarla sul limite che gli permetta il salto verso il tetto.
Costantino: Non so, mi pare.
Lucia: Era solo?
Nando: Era con Paola, per caso?
Costantino: Con chi?
Lucia: Con Paola…
Costantino: Ma che cosa ne so? Ho altro a cui pensare io, che alle vostre corna. E poi ve l'ho già detto, disturbate la signorina che lavora. Non è vero Marta?
Marta: Hm.
Nando: Erano insieme?!
Costantino: Ma chi?
Lucia: Paola e Augusto.
Costantino: Ma che ne so, io. Con tutto quello che ho da fare. Non so nemmeno se erano loro, ho detto così per dire.
Nando (A denti stretti): Erano insieme, Paola e Augusto insieme.
Lucia (Rammaricata): Non posso crederci, la credevo la mia migliora amica.
Costantino: Ma la volete capire che qui la gente lavora? E poi non ho visto niente e nessuno. Quei due non li ho visti proprio…, e comunque, se fossero stati insieme me ne ricorderei.
Nando: Non erano insieme?
Costantino: Non erano insieme.
Lucia: Giura!
A questo punto Garofaniello ha già sistemato la sedia, ha preso le misure e ha spiccato il salto. Ma era troppo stanco per riuscire ad arrampicarsi: rimane appeso penzoloni, perché agitando nervosamente i piedi ha rovesciato la sedia.
Costantino: Non erano insieme.
Nando: Con chi, allora?
Costantino: Con chi, con chi, e che ne so, mica conosco tutti in questa città.
Lucia (Che finalmente si è accorta dell'azione di Garofaniello): Ah, cade, si ucciderà!
Nando: Antonio, che fai?
Costantino: Sant'Agostino mio.
Marta, rapidissima, estrae la cassetta dal video registratore, la inserisce nella telecamera, accende un potente riflettore innestato a baionetta e riprende la scena riempiendo di luce il gruppo intorno a Garofaniello. Nello schermo ritorna la nebbia. Ma, dopo qualche istante, il dondolio di Garofaniello agisce sull'antenna e sullo schermo compaiono e scompaiono le immagini alternate di atleti che fanno salto con l'asta e lancio del giavellotto.
Garofaniello: Ce l'ho fatta, si vede, finalmente. Guarda, prende la rincorsa. Peccato. Guarda, guarda che lancio.
Nando (Tenendolo per le gambe): Lasciati andare, ti tengo io, lasciati. Lucia, aiutami, ti prego.
Lucia (È come paralizzata): Non posso.
Nando: Non fare la stupida, metti la sedia qua sotto, presto, mi sta cadendo.
Lucia: Non posso, non ci riesco.
Nando: Ma che ti prende, sei diventata matta? Costantino, Costantino!
Costantino: Ma guarda questo cretino che cosa mi combina.
Garofaniello: Hai visto, brutto asino, hai visto come era semplice.
Costantino: Se non fosse che mi spaventeresti i clienti, ti terrei appeso lì per sempre, almeno fino a quando non finiscono queste olimpiadi d'Egitto.
Garofaniello: D'Atene, ignorante, sono le olimpiadi di Atene. Le nostre olimpiadi, le olimpiadi della Grecità.
Costantino: Sì, e di tuo nonno.
Gli mette la sedia sotto i piedi, ma Garofaniello non lascia la presa, e nemmeno Nando lo molla del tutto.
Garofaniello: Certo! Se i nostri avi potessero vedere, certamente ne gioirebbero: dopo anni di oppressione, l'Impero Bizantino rinasce simbolicamente con le olimpiadi. Tutto il mondo rende omaggio alla grecità, alla nostra cultura.
Costantino: Sì, buona notte.
Nando: Ma allora, mi aiutate o no. Non ce la faccio a reggerlo.
Costantino: E lascialo fare, gli piace così tanto fare d'antenna, gli piacciono così tanto queste sue olimpiadi!
Nando: Ma non ce la può fare a resistere, cadendo potrebbe farsi male.
Costantino (Accorgendosi dello stato di paralisi di Lucia): Che cos'hai Lucia? Stai tremando. Non ti senti bene?
Lucia: Non è niente. Adesso mi passa.
Nando: Lucia, non stai bene? (Nando abbandona Garofaniello che, ormai solo, molla la presa e cade a sedere sulla sedia. Sullo schermo ritorna la nebbia).
Garofaniello: Aaaaah!
Nando: Lucia… (L'abbraccia).
Lucia (È scossa da tremiti): Non voglio perderlo, e sento che si sta allontanando da me.
Nando: Come fai a dirlo, Augusto ti vuole bene.
Lucia: Non conto nulla per lui, prima di me vengono tutti i suoi interessi.
Nando: Ma non è cattivo.
Garofaniello: Lo dicevo io, che senza di me non funziona un bel niente. (Lentamente si rimette nella posizione precedente. Con lui appeso alla tettoia ritornerà l'immagine sullo schermo).
Lucia: Se almeno fosse stato con Paola.
Nando: Certo!
Lucia: Non sarebbe stato troppo grave… Paola va con tutti.
Nando (Allarmato): Che dici?
Lucia: Scusa, non volevo.
Nando (Scioglie l'abbraccio. Allarmato): Che cosa?
Lucia: Ma sì, lo sanno tutti, e pensavo che anche tu.
Nando: Io che?
Lucia: Sì, che anche tu fossi d'accordo.
Nando la scuote.
Paola: Ai, mi fai male, lasciami, lasciami, ti prego, mi fai male.
Nando (Dandole le spalle): Stupida.
Lucia (Dandogli le spalle, ma voltando il collo per guardarlo): Cattivo!
Nando: Stronza.
Lucia: Stronzo tu!
Nando: Vattene.
Lucia: No!
Costantino: Finitela ragazzi, e maledetto io quando vi ho detto di averli visti. Su datevi una calmata.
Garofaniello ricade sulla sedia. Nebbia nello schermo.
Garofaniello: Aaaaaah!
Costantino: Ma guarda quel matto.
Garofaniello (A Marta): Vattene, mi dai fastidio. Vai via.
Costantino (A Marta. Sorridente): Prego, signorina, filmi, filmi pure.
Marta spegne tutto. Sistema tutti i suoi attrezzi in un borsone.
Marta: Gi…io…la…
Costantino: La signora giornalista.
Marta: Hm.
Costantino: Dov'è andata?
Marta: Hm…
Costantino: Ma non so, da quella parte, verso il mare, era insieme ad Augusto.
Lucia: Ah, lo sapevi, maledetto traditore.
Marta: Hm.
Si allontana salutando con dei leggeri inchini della testa. Soltanto Costantino la saluta, anche lui inchinando ripetutamente la testa. Lucia la insegue.
Lucia: Aspetta, aspetta, scimmiona, aspetta, vengo con te.
Marta e Lucia escono. Garofaniello rimane seduto a contemplare la nebbia sullo schermo. Nando, che non riesce più a stare fermo, ha uno scatto e si aggrappa alla tettoia. Lo schermo riprende a proiettare immagini sportive. Ma Nando mollerà la presa molto presto. Dopo di che, nebbia.
Nando: È vero, funziona.
Garofaniello: Stai fermo così, sì, così va meglio, perfetto. No… perché hai mollato?
Nando: Perché non mi importa un fico secco delle olimpiadi. Domani potremmo morire tutti quanti sepolti da un'enorme massa d'acqua, e adesso dovrei preoccuparmi di sapere chi è il più bravo fra questi idioti in canottiera e mutande.
Garofaniello: Se ti riferisci al crollo del Capo Santalba, puoi stare certo che non crollerà mai. C'è sempre stato e sempre ci sarà.
Nando: Come tutte le cose eterne che sono ormai scomparse da anni.
Costantino: Non devi parlare così, Lo Strudel non può svanire nel nulla, insieme a lui se ne andrebbe tutta Santalba.
Nando: Ma non capite? Non ci si può è più nascondere ficcando la testa nella sabbia. Li avete sentiti gli studi dei geologi, le avete viste le foto di cinquant'anni fa e quelle di oggi, lo Strudel sta scivolando sul fondo del mare, e l'ultimo tonfo potrebbe farlo da un momento all'altro.
Garofaniello: Balle, tutte balle. La parete di roccia crollata trent'anni fa ha delle spiegazioni molto precise, anche se nessuno vuole rivelarle. I tedeschi avevano scavato un rifugio per sommergibili a testata nucleare, e quando persero la guerra fecero saltare tutto, compresa una parte dello Strudel.
Nando: Già, e allora perché il crollo non è avvenuto nel '44, invece che nel '63.
Garofaniello: Perché? Perché? Volete le spiegazioni facili, voi giovani d'oggi, tutto e subito.
Nando: Come spieghi quei vent'anni di attesa prima del crollo?
Costantino: C'è poco da spiegare, il rifugio si è auto distrutto esattamente quando doveva distruggersi. I tedeschi si erano dati un tempo di tolleranza, se entro quel periodo avessero verificato l'impossibilità di riprendere le vecchie posizioni, tutto sarebbe saltato in aria. E così è stato.
Nando: Dopo vent'anni? Ma non fatemi ridere.
Garofaniello: Oste, porta una bottiglia di quello buono. Il ragazzo è troppo agitato.
Costantino: Nemmeno per sogno. Ho chiuso.
Garofaniello si alza e va verso il retro del gabbiotto. Scompare. Si odono dei rumori di bottiglie che sbattono. Costantino, che a gesti lo manda a quel paese, ne approfitta per sistemare l'ultimo tavolino e le ultime sedie. Garofaniello ricompare con una bottiglia tra le mani. Non vede più sedie disponibili. Costantino si è messo con le spalle allo schermo, a guardia di quanto possiede. Garofaniello fa cenno a Nando di seguirlo. I due si accovacciano accanto alla barca. Alla luce della luna. Garofaniello gli passa la bottiglia. Nando beve un piccolo sorso. Quando è il suo turno Garofaniello fa una lunga bevuta.
Garofaniello (Raccontando animatamente e con molta gestualità): Ne abbiamo fatto di cose insieme, io e Papathanassious. Una volta, a Cipro, quasi non ci ammazzavano; le pallottole ci arrivavano da tutte le parti. E qui, a Santalba, dopo ogni visita di Alexis, venivano i carabinieri ad interrogarmi. Volevano sapere tutto, dove fossimo andati, di che cosa avevamo parlato. E io: ce l'avete il mandato? No? E allora fuori! Un'altra volta ci pedinarono. Ci spiavano continuamente, non potevamo fare un passo che subito avevamo qualcuno in cappello ed occhiali neri alle nostre spalle. E sai come li abbiamo scoperti? Lo sai? Coi bambini! Sì. I ragazzini del mio quartiere si erano insospettiti ai loro movimenti e avevano cominciato a seguirli. Si facevano pagare per andarsene. Ma sempre dopo averci informato dell'arrivo degli spioni.
Nando: Vi conoscete da tanto?
Garofaniello: Ufficialmente, nel '66, Alexis era stato mandato per organizzare i “Giochi poetici dei bizantini senza Stato”; Santalba, in quegli anni, sembrava una terra ideale. Al centro del Mediterraneo e perciò, secondo una falsa opinione, tanto lontana dalla grecità. E poi, non si erano mai realizzati i giochi in Sardegna.
Nando: E invece?
Garofaniello: Ma questa era soltanto la facciata, i “Giochi bizantini” servivano per coprire le azioni del movimento indipendentista greco-cipriota.
Nando: Che era un movimento di destra, finanziato dai colonnelli.
Garofaniello: Ma che dici? I colonnelli cercarono di infiltrarsi, e per qualche tempo sembrava stessero per riuscirci. Ma si scoprirono subito. E l'arresto di Alexis ne fu la prova più schiacciante.
Nando: Anche tu fosti arrestato insieme a lui?
Garofaniello: Nel '72 mi trovavo ad Atene per incontrare gli organizzatori dei giochi poetici dei bizantini che, l'estate seguente, si sarebbero dovuti organizzare in Sicilia. Venimmo fermati per strada; a me non poterono far niente perché avevo un passaporto italiano, ma Alexis, come cittadino cipriota, venne subito arrestato.
Nando: Non ti arrestarono subito, allora.
Garofaniello: Mi finsi rassegnato. (Si alza in piedi e mima la scena che descrive a parola:) Ma invece di salire sull'aereo, strappai le manette al poliziotto, me le strinsi ai polsi passandole intorno a un'inferriata e ingoiai la chiave.
Nando: Non è possibile!
Garofaniello mima con maggiore enfasi lo stesso racconto.
Garofaniello: Due notti mi fecero passare legato a quel cancello. E all'alba del secondo giorno… una banda di mascalzoni lasciati passare dalla polizia greca, mi picchiarono, mi picchiarono, mi picchiarono… (Manda fendenti dall'alto verso il basso con un invisibile bastone:) Dovettero fingere di arrestarmi per potermi curare senza destare troppi sospetti.
Nando: Fu allora, dopo tutto quel casino internazionale, che Papathanassious venne a vivere qui a Santalba, a casa tua.
Garofaniello: Due anni, ci stette. (Si rimette a sedere e bere accanto a Nando).
Nando: Eravate molto amici?
Garofaniello: Hm.
Nando: Ma perché avete rotto.
Garofaniello: Hm.
Nando: Una storia di donne, confessa? Alexis ci sapeva fare più di te.
Garofaniello: Basta.
Nando: Ehi, non ti scaldare troppo, è proprio vero che vale più un pelo di…
Garofaniello: Stai zitto, stupido
Nando: Ho capito, ho capito.
Costantino (Declama e canta): Separakalà perimènete mia, elàte mazhì mu. Dhen-gatalavèno. Dhe thèlona sas enochlìsso. Polì evyenikò ek mèrus sas. Milàte italika, anghlikà, ghallika? Kiniphòtopos, kiniyetikì, periochì, proponitìs, rèfari, apovoli, termatofìlakas, podhosferistìs. Podhosferistìs.
Garofaniello si alza e comincia a danzare. Obbliga anche Nando ad alzarsi. Danzano insieme.
Costantino (Canta):Podhosferistìs. Milàte italika. Podhosferistìs. Milàte anghlikà. Podhosferistìs. Milàte hallika. Milàte podhosferistìs. Ghallika milàte, proponitìs rèfari. Kiniphòtopos, kiniyetikì, periochì, proponitìs, rèfari, apovoli, termatofìlakas, podhosferistìs…
Si spengono tutte le luci tranne che lo schermo pieno di nebbia. Gli attori scompaiono mentre delle ombre ricompongono il palcoscenico come nella scena iniziale.
Luce. Costantino sta dietro il gabbiotto a sistemare bottiglie e bicchieri. Gigliola fa colazione in piedi, accanto al bancone. Marta, poggiata alla barca, controlla le sue apparecchiature e le pulisce. Dalla parte opposta entrano Paola, Marcellini e Augusto, il quale tiene nervosamente tra le mani i fogli del suo dattiloscritto. Camminano molto lentamente, seguendo il passo di Marcellini, che, per sottolineare quanto va sentenziando, fa pochi passi e poi si ferma.
Marcellini (Abbracciando Paola): Capisci quello che voglio dire? L'idea in sé non è male, devo dire, non è proprio male. Anche questa scrittura così piatta, quasi tirata via, è molto efficace. Credo che potrebbe piacere molto. Ma, capisci, chi lo vorrebbe un libro di Augusto Piras? Quale editore? Non sei nessuno, non hai amici che contano. Io, oltre che darti qualche consiglio, di più non posso. È un peccato, veramente un peccato.
Augusto: Certo, però…
Marcellini: Capisci, il mercato editoriale è quello che è, e questo tuo librino, certo, ha qualche pregio, anzi, mi è piaciuto proprio, ma non si può dire che sia un vero capolavoro, ti dirò di più, ha tutti i difetti dell'opera prima, e non che questo sia in sé un difetto, io detesto le opere prime che sembrano capolavori, no, l'opera prima deve essere riconoscibile, deve possedere le stigmate, e questo tuo lavoro, è proprio un'opera prima. Ma tu, lo conosci personalmente Alexis?
Augusto: Quasi.
Marcellini: Perché se si potesse dimostrare che quanto tu racconti è davvero accaduto, se, dietro questo fantomatico Nico Vangelis che tu descrivi, davvero si nascondesse Papathanassious, e dietro questo luogo immaginario che tu hai voluto chiamare Laliera si nascondesse Santalba, allora tutto cambierebbe.
Augusto: Non capisco.
Marcellini: Diverrebbe un fatto di cronaca, appetibile a molti. Perché il nome di Papathanassious fa gola a tutti, guarda, già ne vedrei tratto un film, davvero.
Augusto: Un film.
Marcellini: In questo caso però, il tuo manoscritto va bruciato e riscritto di sana pianta, non se ne deve salvare una virgola. Troppo opera prima, troppo romanzo. No, no, nel caso che tu volessi battere la strada dello scandalo, del successo immediato, questa qui non è proprio la forma adatta. Ci vuole un giornalista, una bella penna formato tabloid.
Augusto: Un giornalista.
Marcellini: Vedi, così come l'hai impostato tu, è pieno di retorica, di luoghi letterari battuti da tutti i romanzieri della domenica, banale, in una parola.
Augusto: Banale.
Marcellini: Il protagonista che trova il doppio in un suo coetaneo: troppo visto. La protagonista che non riesce a farsi amare come vorrebbe: dozzinale. L'antagonista femmina, amata sinceramente da lui, se ne va perché incinta: e di chi? Dell'eroe, o del suo alter ego? Troppo scontato: la soluzione che sfugge insieme al grembo materno vanamente cercato. Siamo al Freud da bancarella. Non va, non va.
Augusto: Non va.
Marcellini: Appunto, proprio perché è tutto vero è che non funziona. Il romanzo deve ricreare la vita, e non imitarla. Il romanzo è arte.
Augusto: Arte.
Marcellini: Buongiorno Gigliola. Dormito bene? Marta!
Marta: Hm.
Augusto GIGLIOLA: Non dargli retta Augu', so' tutte fesserie.
Marcellini: E poi, questi sono tempi duri per chi scrive, l'originalità è una chimera. Diventa sempre più impossibile inventare storie nuove che qualcun altro non abbia già pubblicato.
Augusto: Una chimera.
Marcellini: Mi sei simpatico, e te lo voglio dire. Pochi mesi fa, ho bruciato un romanzo al quale ho lavorato per anni. E tutto perché Toti Manniruzzu, il vostro ultimo grande romanziere, ha utilizzato la mia stessa soluzione centrale in Il morso della lucertola. Esattamente identica a quella scritta da me. Soltanto che lui l'ha pubblicato sei mesi prima. E pensa che io, il vostro Manniruzzu, nemmeno so che faccia abbia. Capisci, dopo anni che lavoro di lima e scalpello a disegnare questa figura femminile che arriva improvvisa a scuotere la vita del mio protagonista, in Il morso della lucertola, Toti Manniruzzu l'ha già descritta assolutamente uguale, identica, perfino nel taglio e nel colore dei capelli, cazzo!
Augusto: Cazzo.
Marcellini: E allora, tu? Tu come puoi pensare di sfondare con un racconto zeppo di topoi privi della minima originalità, dove l'unico pregio verrebbe da questa tua scrittura finto rozza, e da una punteggiatura casuale? Già finto rozza, ma chi glielo dice al lettore che non è vero che non conosci la sintassi?
Gigliola: Non dargli retta Augu', c'è un solo modo per sfondare qui da noi, già te l'ho detto: o Roma, o Milano. Be’, io vado a Marcelli', ci sta la conferenza stampa. Andiamo a Ma'. (Si avvicina ad Augusto, lo bacia su una guancia:) Già te l'ho detto, il mio numero ce l'hai, quando vuoi venire, un piatto di minestra, da me lo trovi sempre. Ciao! (Stringe la mano a Paola:) Ciao Costanti'!
Marcellini: Vi raggiungo tra un minuto. Che matta!
Mentre Gigliola e Marta stanno per uscire sopraggiunge Nando che si scontra con loro.
Gigliola: A 'mpunito!
Nando non risponde e, infuriato, si lancia contro Marcellini.
Marcellini: Che cosa vuole fare? Aiuto. Fermatelo. È pazzo. Fermatelo. Aiuto.
Gigliola: Riprendi tutto a Ma', altro che sprofondo dello Strudel è questo. Alla Rai ce lo pagheranno a peso d'oro. Per non trasmetterlo.
Marcellini: Gigliola, ti prego, non farmi questo. (Nando gli dà un pugno in un occhio:) Ah! (Un altro sul naso:) Ah!
Marcellini si porta le mani al volto. Augusto riesce a bloccare Nando e stringerlo alle spalle. Il plico col suo dattiloscritto scivola per terra. Paola dà le spalle a tutto, non vuole vedere. Costantino non sembra troppo dispiaciuto di quanto è accaduto.
Nando: Stronzo, stronzo, stronzo. (Cercando di divincolarsi:) Lasciami, lasciami. Stronzi tutti.
Gigliola: Mi sa che lo spettacolo è già finito, 'namo a Ma'!
Marcellini: Aspetta.
Escono Gigliola, Marta e Marcellini. Nando, rabbuiato, si mette lontano da tutti. Augusto va a consolare Paola. La abbraccia. Dopo qualche istante di silenzio entra Garofaniello seguito a da Lucia a qualche passo di distanza. Lucia è ubriaca.
Garofaniello: Che succede? (Vede il plico caduto ad Augusto. Lo raccoglie. Ne legge il frontespizio:) Augusto Piras, Cronache santalbine, romanzo. Caspita. Anche tu scrivi, adesso. Complimenti.
Augusto quasi glielo strappa di mano.
Lucia (Con voce tentennante): Ciao, Augusto. No mi dai un bacio.
Tutti guardano con sorpresa prima Lucia e poi Garofaniello.
Garofaniello: Stava male, poverina. L'ho incontrata che piangeva. E non è bello vedere piangere una ragazza alle undici di mattina. Così le ho dato un poco della mia medicina.
Paola: Incosciente. (Va ad abbracciare Lucia).
Lucia: Lasciami stare, solo Augusto mi può toccare. Augusto!?
Garofaniello: Be’, che si fa? Vogliamo stare qui imbambolati, mentre da Tele-Santalba-Libera trasmettono la diretta della conferenza stampa del nostro sindaco? Dai Nando, reggimi che vado su a sistemare questa stupida antenna una volta per tutte.
Lucia: Vado io, voglio andare io, sono brava a tirarle su. (Ridacchia:) Che cosa ho detto.!?
Nando: No, lascia, vado io.
Costantino: Aspettate, prendo la scala.
Intanto che Costantino scompare, Lucia sale sulla sedia e, con l'aiuto di Garofaniello e Nando si arrampica sul tetto.
Lucia (Camminando a carponi): Mamma mia. Mamma mia. (Arriva all'antenna, l'immagine sullo schermo comincia a focalizzarsi:) Augusto, come va? Si vede bene?
Paola: Perfetto.
Compare Costantino con la scala.
Costantino: Avete già fatto? (Poggia la scala alla tettoia).
L'immagine sullo schermo è quella di un gruppo di giornalisti in attesa davanti a una porta alla cui guardia stanno due uscieri. In prima fila si riconosce Gigliola con il suo microfono già puntato. Marcellini è nel mucchio, indossa un paio di vistosi occhiali da sole ed ha il naso molto arrossato. Marta è nascosta dalla sua stessa telecamera.
Garofaniello: Ma non ha il volume questo coso?
Costantino: Adesso lo sistemo.
I giornalisti sullo schermo scalpitano, sta arrivando qualcuno. Tra mormorii e scalpitii si affaccia alla porta il sindaco. Rumori di telecamere e registratori in azione.
Sindaco: Con la più assoluta tranquillità, a nome della giunta comunale, dell'intero consiglio, c'è stato un solo voto contrario e due astenuti, posso affermare, ripeto, in tutta tranquillità: non è vero niente, assolutamente niente… I, presunti, geologi che avrebbero sostenuto l'imminente crollo di Capo Santalba, il nostro magnifico e imponente Strudel, sono, come ho detto: presunti… Sì, un trucco di un qualche vostro collega che non sapeva come riempire i vuoti nei telegiornali estivi. Come si sa, non succede mai niente, in tempi di Olimpiadi.
Marcellini: Come spiega la presenza in città di Alexis Papathanassious?
Sindaco: Fatti suoi. Se questo signore che lei dice si è fatto un'amichetta…
La trasmissione si interrompe perché Lucia ha perso l'equilibrio ed è rimasta appesa alla tettoia.
Lucia: Aiuto. Aiuto.
Paola e Nando corrono ad avvicinarle la scala e l'aiutano a scendere. Augusto si precipita a salire sul tetto per risistemare l'antenna.
Augusto (A Lucia): Stupida. (Sale sul tetto, afferra l'antenna:) È tornata l'immagine?
Sullo schermo i giornalisti sono in fermento. Il sindaco è messo di tre quarti e sta per imboccare la porta.
Sindaco: Quello che avevo da dire, già l'ho detto. Non è vero niente. Potete stare tranquilli e, se volete, rimanete pure a godervi le vacanze a Santalba, Lo Strudel non cadrà mai.
Sullo schermo passano le immagini del sindaco che se ne va e dei giornalisti che inutilmente cercano di raggiungerlo.
Costantino (Soddisfatto): L'ho sempre detto io, Lo Strudel non ci abbandonerà mai.
Garofaniello (Affermativo): Mai!
Nando: Mai.
Paola (Sarcastica): Mai!
Lucia: Mai?
Sipario
OTTO
Mureddu Maiore, 28.3.86
Ciao Paperino,
mezzanotte è suonata da un pezzo e sono appena rientrata. Non immaginavo che Sergio bevesse tanto. Sono andata a trovarlo subito dopo cena, per parlargli di quella nostra faccenda. In due ore ha stappato due bottiglie di vino. Una nuova marca, «per farci il palato», diceva.
A sua moglie, dopo aver lottato con Giannetto perché rinunciasse al film di indiani, è toccato mettersi a letto insieme al bambino e il televisore portatile. È rientrata in soggiorno un'ora dopo, a film terminato, lei assonnata e sconfitta e il bambino di otto anni sveglissimo e pronto a ricominciare.
Sono spaventata Paperino, non è così che immaginavo una felice vita di coppia. Anna è il miglior avvocato di Mureddu e dintorni, Sergio era il nostro mito, l'intellettuale capace di cambiare il mondo lottando dall'interno.
Mentre Anna lottava col piccolo, Sergio inseguiva le pubblicità col telecomando e beveva. Alla mia salute, alla tua, a quella di Tonino Carta.
Paride, ti ricordi quando Sergio compariva nelle nostre assemblee d'istituto? I suoi discorsi infiammavano i nostri ideali, lo avremmo seguito dovunque. Non crede più a niente. Si è definito un ex di ogni cosa. «Esistono solo gli affetti familiari per me», così si è espresso, «la famiglia, nel senso di mio figlio; il lavoro, nel senso del salario; una poltrona, un telecomando e un bicchiere mai pieno e mai vuoto».
Ho protestato, ho insinuato che stesse giocando, che la sua fosse una posa per scandalizzarmi. Ha riso, siamo troppo giovani, ha detto, i suoi alunni sono nati tutti otto anni dopo il sessantotto. «Diciotto anni fa. Non sarà troppo diverso da me il tuo amico Paride, diciotto anni dopo il settantasette».
Ti prego Paride, giurami che non diverrai mai come lui.
40. Pioviggina. È notte. Corro. Calpesto i ciottoli che pavimentano i vicoli della città vecchia.
Pioviggina. Corro. Non sento male al ginocchio.
Pioviggina. Corro. Il sangue macchia i miei jeans e i ciottoli che pavimentano i vicoli della città vecchia. Non sento male al ginocchio.
Pioviggina. Salgo affannosamente i gradini di ardesia. Ho caldo. Le vene delle tempie riempiono la testa.
Dietro la porta la voce di mia madre chiede chi è.
- Sono io, mamma - rispondo.
La porta si apre e mia madre emette un grido soffocato. - Ahi! figlia mia! Ahi! figlia mia! -. Mi abbraccia, mi fa entrare.
- Paola! - chiama, - Paola!
Mi abbraccia forte, mi accompagna fino al divano. Paola appare in camicia da notte. Non è necessario che io parli. Paola esce per poi rientrare con in mano alcol e cotone.
41. - Non piangere, non brucia, non piangere!
Io sapevo che Paola mi odiava. L'alcol bruciava solo perché era lei a metterlo. Mia madre mi teneva stretta la mano perché non fuggissi. Mi ero fatta male con la bicicletta, giocando per strada coi ragazzini. Avevo sette anni e i capelli cortissimi, come quelli dei ragazzi.
- Chi è stato? - chiese la mamma.
- Nessuno, sono caduta da sola.
- Come no!, mentre litigavi coi ragazzacci di strada - commentò Paola.
Allora non conoscevo altre difese oltre al pianto.
42. - Come è stato? - chiede la mamma.
- Lasciala in pace - interviene Paola allargando lo strappo dei pantaloni sul ginocchio. Mia sorella è inginocchiata davanti a me. Trovo che la camicia di pizzo le stia molto bene, la rende più attraente. Le lascia scoperte le spalle e le braccia. Massaggia la mia gamba con energia. Il gesto impone aritmici fremiti al suo seno.
- Non senti freddo? - le chiedo.
- Tu piuttosto, com'è che vai sotto la pioggia senza coprirti?
- Sarebbe troppo lungo da spiegare, e non c'è tempo da perdere, devo chiamare in ospedale perché mandino un'ambulanza alla chiesa della Magdalena al Mare.
Paola prende un altro batuffolo di cotone bagnato d'alcol, ma non lo sfrega sui miei graffi, aspetta che le spieghi. Hanno la stessa espressione lei e mia madre, nemmeno respirano per quanto sono spaventate.
- Sì, abbiamo trovato un ragazzo che sta malissimo, certamente un tossico. È necessario telefonare immediatamente.
La mamma si aggrappa al mio braccio. - Stai tranquilla le dico, non si tratta di nessuno che noi conosciamo.
- Perché non chiami Nando 'e! Paola? Io ho bisogno di andare in bagno, di lavarmi.
Mia sorella mi passa il cotone impregnato d'alcol perché continui da sola. La vedo alzarsi, andare verso il telefono. Mia madre mi studia. Ho voglia di darle un bacio. E lo faccio, rapidamente, poi corro verso il bagno.
43. Ho una faccia spaventosa. Gli occhi gonfi per il troppo pianto. Un graffio sullo zigomo sinistro. I jeans sporchi di fango e strappati sulle ginocchia. I collant smagliati. Mi sento sporca.
Sto seduta sul bidè, mezza nuda, il raggio d'acqua arriva al centro di me sempre più forte, sempre più caldo.
Paola bussa alla porta.
44. - Apri Marilena, è più di un'ora che stai chiusa lì dentro.
Ma io non aprivo. Rimanevo seduta a cavallo del bidè, giocavo con l'acqua e col mio sesso. Non potevo aprire a mia madre, non potevo rivelarle il mio gioco segreto. Sapevo di peccare, ma non riuscivo a impedirmi quel gioco.
Erano molti mesi che lo avevo scoperto. Era accaduto per caso, mentre mi lavavo. Ma io non sapevo che cosa fosse. Non sapevo che quei piccoli brividi andassero messi in relazione col corpo di un uomo. Non lo sapevo ancora. Lo scoprii dalle parole di una compagna che si confidava con le altre. Diceva di bagnarsi tutta a pensare al suo ragazzo, che la affascinava vedere come il suo pene diventava grande.
Fingevo di capire, ma i soli corpi di uomo nudo che avessi mai visto erano quelli dei bronzi di Riace. Presi a immaginare che le due statue mi si avvicinassero, che il loro piccolo pene, arrivato all'altezza del mio viso, si ingrandisse; e quanto più mi toccavo tanto più si facevano vicini, e potevo sfiorarli con le guance. E più stringevo gli occhi e più divenivano enormi. Pur rimanendo rilassati, ingigantivano; i loro corpi sfumavano lentamente lasciando spazio esclusivo ai due genitali di bronzo.
Provavo desiderio e paura. Mia Madre chiamava più forte, e la paura e il desiderio crescevano insieme.
45. - Entra pure Paola, ho lasciato aperto.
- Stai meglio? - mi chiede.
Ho chiuso l'acqua. Se non fossi così nuda il bidè potrebbe sembrare un normale sedile.
- Ero soltanto affaticata per la corsa - dico, - e un po' spaventata anche, non mi capita tutti i giorni di imbattermi in un moribondo. Hai chiamato?
- Sì.
Gli occhi e il corpo di Paola vogliono sapere della mia gamba, non sanguino più sul ginocchio.
- Non è nulla - le dico, - sono inciampata saltando giù dalla chiesa.
- Sei una pazza.
Emetto una fila di “i” soffocate, ma non per l'effetto del fumo, ma perché tutto è così buffo. Sto sul bidè a gambe larghe a conversare con una signora in camicia da notte di pizzo trasparente, chissà che non diventi una moda il cesso-salotto.
- Che cosa facevi in quell'immondezzaio? - chiede imbronciata porgendomi un asciugamani.
Fingo un rimprovero. - Paola, come puoi chiamare la prima chiesa bizantina di Santalba un immondezzaio.
- Finiscila, vado a cercarti un vestito.
La mamma mi guarda sulla porta. Sono quasi decente, l’asciugamano copre ogni mia nudità, e le creme di Paola hanno già mascherato i segni sul mio viso.
Paola mi fa indossare un camicione di lana blu a losanghe indaco e nere. Un vestito che le conosco da anni. Mi sta grande, debbo rimboccarlo due volte sui polsi e stringerlo alla vita con una cintura.
È tardi, debbo tornare da Paride. Fa freddo fuori. Ho lasciato lì il mio cappotto. Ho fretta, prendo uno dei soprabiti dell'attaccapanni all'ingresso. È enorme, ci navigo dentro.
Mia madre non si è ancora rincuorata, non sa più cosa pensare della sua figlia un pochino puttana: - Marilena, non puoi uscire così - dice con un filo di voce.
- Perché no? - dico facendo una piroetta, - non sono un pagliaccio in fondo?
- Dai qua - dice Paola aiutandomi a levare il cappotto e offrendomene un altro. - Andiamo, ti accompagno. Ciao mamma, non stare in pensiero - dice richiudendosi la porta dietro alle spalle.
46. Pioviggina. Camminiamo con passo svelto sotto lo stesso parapioggia. Indosso un cappotto bianco. Quello di Paola è marrone.
Pioviggina. Paola indossa stivali di plastica gialla e sotto il cappotto la camicia da notte.
Pioviggina. Ho freddo, gli schizzi della pioggia e dei passi sull'acciottolato bagnano le mie gambe nude.
Pioviggina. Ma nessuno fa caso a noi. Perché è venerdì, e nelle notti di inverno a Santalba due donne possono andare in discoteca, anche da sole, anche se fra non molto rintoccherà mezzanotte, anche se io detesto il silenzio.
- Che cosa pensi di fare? - mi chiede Paola nello stesso istante in cui io le chiedo perché non mi avesse mai parlato prima del suo aborto a vent'anni, perché era lei la ragazza di cui mi ha parlato.
- Eri tu, non è vero?
- Sì, non avevi nemmeno dieci anni tu, non potevo parlarne con nessuno, ero sola.
- Nemmeno con Nando?
- Perché avrei dovuto?
La mia mano si stringe forte intorno al suo braccio, il parapioggia diventa più piccolo.
- Ma tu hai Augusto - dice, - lui lo vuole un figlio, anche se è così stupido da chiederti di abortire in casa. Lo conosco da anni, Marilena, siamo cresciuti insieme. Lui aspetta soltanto che sia tu a imporgli il bambino.
Non è dell'uomo che vive con me che sta parlando, ne sono sicura.
- Che cosa pensi di fare Marilena?
- Niente. Non ci capisco più nulla. Non so più cosa voglio. Tutti voi fate piani sulla mia vita, tutti, Augusto, tu, Paride, ma io? Non so più chi sono io?
- Paride?
- Sì Paride, il tuo amico giornalista, mi ha chiesto di andarmene a vivere con lui, a Mureddu Maiore.
- Quello stupido. Non ascoltarlo Marilena, Paride è un idiota pieno di sensi di colpa, gli piaci perché aspetti un bambino, perché se tu col pancione camminassi con lui per Mureddu, lui si vendicherebbe di Andreina.
- Chi è Andreina?
Un orribile sibilo rompe la notte. Una catena di “i” che inseguono il tortuoso percorso delle stradine di Santalba vecchia.
47. La facciata della chiesa ci nasconde il mare, e nel buio una figura coperta da un mantello rosso ci attende tra le macerie bizantine. Ci viene incontro: - Che facciamo? - chiede.
Io so che tutto questo è già accaduto, sto vivendo dentro il ricordo di un istante. Al risveglio ritroverò il corpo di Augusto accanto al mio.
Paola preme due volte le sue dita strette ad anello intorno al mio braccio, vuole che capisca che le devo una spiegazione. Non le avevo accennato del cavaliere rosso marrone dagli occhiali dorati.
- Ciao Paola!
- Ciao Paride!
Si salutano. Si baciano sulle guance. Quasi non fosse notte, quasi non piovesse, quasi non fosse tutto così straordinario, quasi che un ragazzo non stesse agonizzando al buio della chiesa della Magdalena.
- Che facciamo? - ripete guardandomi.
Non capisco, non voglio essere io a decidere.
Il sibilo della sirena si fa vicinissimo. Tra un istante sarà su di noi.
- Andiamo via! - dice Paride spingendoci lungo il leggero pendio. Obbligandoci a percorrere in fretta la stretta galleria tra le case che ci riporterà sul porto, sull'altro lato delle fortificazioni.
Nuovamente ci ritroviamo sotto la tettoia di plastica. Nella terrazza che diventa bar solamente nei giorni di sole. Ci sediamo sulle sedie dai sedili e dalle spalliere di plastica intrecciata, su quelle tre che io e Paride abbiamo scordato di riaddossare alle altre. Paola non vuole sedersi, i suoi occhi ci interrogano, vuole sapere che accade.
- È scappato -, sussurra Paride che tiene il mio cappotto rosso sulle ginocchia. - Si è ripreso ed è scappato.
Paola si allontana, si infila nella viuzza che riporta alla chiesa, scompare.
- Paola, che cosa fai qui?
- Sono stata io a chiamarti.
Le voci di Nando e di Paola ci arrivano ovattate.
- Dov'è? - chiede la voce sconosciuta di altro uomo.
- Dov'è? - ripete Nando.
- È scappato, si è ripreso ed è scappato. O che ne so?, quando sono tornata dopo averti chiamato non c'era già più.
- Guardi dotto', queste sono macchie di sangue. Andiamo a vedere lì dentro?
- Che cosa facevi, tu, qui? - il tono di Nando non è quello di un medico. - Come mai sei qui? - è quello di un uomo geloso.
- Lasciami, sono stata al cinema, e al rientro ho inciampato in un ragazzo che stava male e ti ho chiamato.
- Al cinema 'e! Al cinema con il tuo Pariduccio.
- Lasciami, lasciami. Ci sono andata da sola al cinema. Da sola.
- Niente dotto', non c'è nessuno lì dentro, solo topi e siringhe. Certi topi… Scusi signorina.
- Vieni, ti portiamo a casa!
- No! Ci torno da sola a casa.
48. Il sibilo della sirena si fa sempre più lontano e irreale. Resta solo il nostro silenzio e i rumori della pioggia e del mare che si infrange sul molo e sulle barche.
- Perdonami Paola, ma non sapevo, non ho pensato. Ma quel ragazzo era scappato, ho creduto che fosse meglio non fermarsi a dare spiegazioni.
- Non importa - gli risponde Paola, levandogli il mio cappotto dal grembo e passandomelo dopo averlo ripiegato.
- È stato sorprendente - prosegue lui, - un istante prima sembrava stesse per morire, e un secondo dopo, non appena ha capito che sarebbero giunti i soccorsi, si è buttato, letteralmente buttato, dall'alto dell’imboccatura della chiesa ed è scomparso chissà dove.
Tutto è così assurdo. Siamo tre persone che quasi non si conoscono, tre individui che in una fredda notte di fine inverno abbiamo inciampato in noi stessi. Tre personaggi in cerca d'amore.
- Rincasiamo! - dice Paola, alzandosi con decisione.
- Ti accompagniamo - decide Paride.
50. Cadono rade gocce di pioggia. Camminiamo amici, riparati sotto lo stesso parapioggia. L'acqua piovana si intreccia in mille rivoli tra i levigati ciottoli delle stradine di Santalba vecchia.
Cadono rade gocce di pioggia. I piccoli lampioni agganciati alle antiche case illuminano le crepe nei muri.
Cadono rade gocce di pioggia. E sono certa che loro due mi osservano di soppiatto. Detesto il silenzio. Detesto che gli altri mi guardino. Da bambina, al cinema, non sopportavo gli occhi della gente durante gli intervalli. E sono nuda sotto la gonna.
Saliamo i gradini bui di casa di mia madre. Paride protesta finto imbarazzo, non vorrebbe disturbare nostra madre a quest'ora di notte. Cerca la mia mano.
Sediamo tutti e quattro nel salotto dietro l'ingresso. Paride e me sul divano. Paola e la mamma sulle due poltrone laterali.
51. - Chi è mio padre?
- Marilena, figlia…
- Chi mamma, chi?
- L'ho dimenticato, non voglio ricordare.
- Che cosa vuoi dimenticare?, di avere una figlia bastarda?
- Figlia…
- Non voglio lacrime mamma! Voglio che tu mi dica il nome di mio padre.
- Perché? Perché adesso? Non sei più una bambina.
- Perché non ha voluto essere mio padre? Perché mamma?
- …
- Perché? Perché?
- Non poteva, figlia mia, non poteva.
- Chi? Chi non poteva?
- Lui non sa di essere tuo padre. Non ho mai permesso che sapesse.
- Perché?
- Che cosa importa adesso?
52. La mamma ci guarda piena di interrogativi. Paola sembra sentirsi perfettamente a suo agio. Ha indossato una vestaglia sopra la camicia da notte e recita il suo ruolo di padrona di casa. Ha appena chiesto a Paride se non voglia bere qualcosa. E lui riflette con aria pensierosa, non vuole chiedere una cosa qualunque. «Un vino, perché no, non ci sarebbe un vermentino di Santalba?»
Sul vassoio Paola trasporta una bottiglia e due bicchieri, lei e la mamma non berranno. Paride si è già raccontato. Ha descritto Mureddu Maiore, la loro sagra delle castagne, il disagio dei suoi primi mesi a Santalba per il clima e i costumi così diversi. Fortuna che ha conosciuto noi, Paola e Marilena. Anche me sì, per un articolo sul neogrecismo: Santalba, dal mito al duemila. Uscirà tra qualche mese su La Miniera Del Serpente. Marilena gli è stata molto utile. Sì mamma, gli sono stata molto utile.
53. - Non hai nessun diritto di trattare in questo modo la mamma. Che ne sai tu della vita? O pensi di essere già grande perché usi i tampax?
Paola mi parlava duramente. Non ero capace di tenerle testa. Paola mi aveva sempre parlato per dirmi che cosa dovessi o non dovessi fare, mai perché provassi ad accettarla, perché imparassi ad amarla. Paola non aveva bisogno del mio amore. Non aveva mai avuto bisogno di chiedermelo. Glielo avevo dato da sempre.
- Credi sia stato facile per la mamma accettarti? Credi che non soffra a doverti nascondere il nome dell'uomo che l'ha ingannata? Che ne sai tu della sua vita?
Non volevo piangere, volevo soltanto che mi dicessero il nome di chi avevo avuto come padre.
- Non piangere adesso!
Ci abbracciammo. - Non valgono nulla gli uomini - disse. - Non vale mai la pena di perdersi per un uomo.
Sedute sul mio letto Paola accarezzava i miei capelli. Affondai il viso nel suo grembo.
- Non ti serve un padre. Che ti importa di sapere chi è stato a regalare un abbraccio a nostra madre?
Paola finse di ridere. - Ti immagini - disse, - magari adesso è diventato un ubriacone, o peggio, un ragioniere calvo e panciuto. Uno che ci avrebbe riempito la casa di tanti fratellini obesi e viziati.
I miei singhiozzi mutarono in riso.
- Che paura! Ci pensi, tu, la mamma, io, a passeggio col ragioniere grasso e calvo che grida a gran voce contro i suoi piccoli e disgustosi figliolini.
54. Paride beve adagio il suo vino bianco e sorride. Osserva una foto incorniciata tra piatti d'argento e di porcellana sul secondo ripiano della credenza di legno scuro e cristallo. Fissa la foto, poi me, poi la mamma.
- È Marilena la ragazza nella foto? - chiede alla mamma.
Anche lei la osserva per qualche attimo, e quando si volta arrossisce, quasi non avesse cinquantadue anni e troppi capelli grigi.
- Sono io - dice, - a vent'anni.
- È incredibile - commenta Paride. - Due gocce d'acqua.
- A Marilena non piace che glielo dicano. Ma somiglia tantissimo alla mamma - lo informa Paola.
- Perché? - chiede sorpreso. - Siete così graziose.
È strano, mi secca che Paride continui a fissare i seni di mia sorella. Sono così spudoratamente grandi. E lei non fa nulla per nasconderli, non tiene graziosamente stretta la vestaglia con una mano sulla scollatura. Le macchie scure dei suoi capezzoli fissano intensamente gli occhi di lui.
55. - Dottor Paride, questa è Marilena, la tata del mio Alessandrino.
- La sorellina di Paola? Ci conosciamo già.
Affermò tenendomi stretta la mano.
Ero appena rientrata dal parco e la signora Elena Costantini, poetessa di epici versi degni di Omero ci presentò con sussiego.
- Scusate - dissi, - vado di là con Sandrino.
Poi, però, uscimmo insieme. Disse che si era inventato un impegno con Paola e con me per riuscire a scappare al tormento della poetessa: nessuno la capisce, nessuno la ama, mentre in Grecia, in Grecia sì.
Era buffo, ogni due frasi aggiustava gli occhiali. Ma non gli dissi di sapere tutto di lui, e nemmeno di averlo già incontrato una mattina al porto mentre goffamente tentava di tirare una spigola sulla banchina.
Chiese di accompagnarmi, mi parlò del suo progetto. Passeggiammo lungo il porto per ore. Non avevo sentito parlare mai di Mureddu Maiore. E gli parlai di Santalba, recitai tutti i luoghi di Augusto. Calibrai correttamente i toni. Neogrecismo, d'accordo; quale politica linguistica, senz'altro; ma la disoccupazione; la droga; i giovani.
- E se ti intervistassi? - chiese. - Non scherzo. Davvero! Conosci La vita interiore? Il romanzo di Alberto Moravia?
- No!
- Non importa. Ma ti prego, accetta. Attraverso un'intervista riusciremmo a far arrivare ai lettori della “Miniera” il vero volto di Santalba senza rischiare di cadere nel patetico.
56. - Non è certo una bella immagine quella che noi santalbini le stiamo offrendo - commenta la mamma, dopo essere stata messa al corrente sull'episodio del tossicomane.
- Così non potrà dire che a Santalba ci si annoia - osserva Paola.
- Già, non riesco più a trovarlo il tempo per annoiarmi - afferma serio.
- Santalba - continua, - è una miniera di tesori, la sua storia antichissima, il suo presente pieno di contraddizioni, la grande tradizione poetica, la sua architettura greco-bizantina, il culto di Sant’Agostino. E voi: i miei amici.
Arrossisce, sa di essere stato ruffiano. Anche la mamma arrossisce. Anche Paola. I suoi capezzoli sembrano durissimi.
- Non hai freddo? - dico. - Perché non abbottoni la vestaglia?
Paola mi guarda come se non capisse. Solo Paride non mi guarda, finge grande interesse per il vino bianco che sorseggia.
Paola si distende sulla poltrona, accavalla le gambe, porta la mano destra al petto, come una vera signora, come senz'altro è lei.
- Facciamo così tanta confusione con la nostra storia - dice Paola. - Immagina che “greco”, ancora oggi, è sinonimo di “orco”. Ai bambini diciamo ancora: mangia se non vuoi che ti prenda “il greco”. È assurdo, se pensi che fino all'altro ieri era soltanto quella greca, la lingua conosciuta dai santalbini.
Paride si dimostra molto interessato, chiede a mia madre se anche lei, da bambine, ci spaventasse con la minaccia dell'orco greco.
- È vero - gli risponde in un sorriso.
- Pensa - racconta Paola, - che da bambina, ogni volta che sentivo parlare dell'arrivo di delegazioni di greci, la notte avevo gli incubi. Sognavo di “greci” terribili che venivano a rapirci, me e il babbo.
- Eri ancora piccola. Non eri nata tu, allora.
La mamma divide i suoi sguardi tra Paola e me.
- Parlava in santalbino tuo padre? - le chiedo.
Accenna a un sì con il capo.
- È molto carino questo fatto - dice Paride guardandola, - mi permetterai di raccontare il tuo sogno nel mio articolo?
Paola cinguetta un «ma no, ma no» d'approvazione, ma a me non importa più niente di loro. Gli occhi di mia madre mi chiamano, è da tanto che provano a parlarmi.
57. - Che cattiveria! Come può esistere gente tanto malvagia?
- Non pensarci Marìlu, viviamo a Santalba dopotutto.
- Non posso accettarlo. Che cosa importa alla gente se tu e io ci amiamo?
- Non esistono difese contro l'invidia delle donne ipocrite e bigotte.
- È troppo. Ciò che stanno facendo è pura cattiveria. La vita in casa è diventata un inferno. La mamma non fa altro che piangere. Ad ogni squillo di telefono l'assale il terrore.
- È il progresso, fino a qualche anno fa avrebbero utilizzato soltanto lettere anonime.
- Per favore Augusto, non scherzare su questo. Tu non sai che cosa significhi sollevare la cornetta e sentirti dire che tua figlia è una puttana…
- Che ti importa Marìlu.
- … Che tua figlia è una rovina famiglie!
- Non piangere, dai!
- Le gridano che avrebbe dovuto ascoltare i consigli di mio padre. Che avrebbe dovuto buttarmi nella spazzatura finché era in tempo.
- Come farei io senza di te? Io che sono tuo padre, tuo amico, tuo amante, tuo figlio, tuo tutto?
58. - Sentite, a me sembra che sia un po' tardi - dico, - e poi non ce la faccio più dalla fame.
Paride accenna una smorfia di solidarietà. Finge di volersi alzare da questo scomodo divano. Paola però lo previene, gli poggia la mano sinistra sul braccio. Deve rimanere.
- Mamma, diglielo anche tu che rimangano. Non ci metto niente a preparare due spaghetti.
- Sì - dice la mamma, - rimanete per favore.
Paride ha accettato già, sopporta gioiosamente rassegnato la mano di Paola sulla sua. Io soltanto potrei interrompere il loro momento magico.
- Ci metto un minuto. Più a dirlo che a farlo uno spaghetto aglio e olio.
Si è già messa al lavoro. Come la madrina buona dopo lo scoccare la mezzanotte ci servirà la cena dentro le scarpine di Cenerentola.
- Voglio rendermi utile in cucina - dichiara Paride.
Paola ride. - Hai sentito mamma, non sa che in questa casa gli ospiti maschi sono sacri.
- No, davvero, voglio dare una mano.
- Niente uomini in cucina - dice la mamma, - faremo io e Marilena.
Mi tende la mano. La seguo.
- Dimmi come stai, Marilena? - chiede.
La sua voce ha una strana intensità. Ha parlato senza guardarmi, mentre butta il sale nella pentola piena d'acqua e io sminuzzo gli spicchi d'aglio.
Credo che potrei sorriderle. Che un mio sorriso la rasserenerebbe.
- Aiutami - le dico, - pela qualche altro spicchio.
Stiamo vicine, lavoriamo.
- Non temere mamma, va tutto bene, ho imparato a badare a me stessa.
- Sei così piccola figlia mia.
- Ho diciannove anni mamma, diciannove.
59. - Me ne vado mamma. Credimi, è molto meglio così. Vado a vivere con Augusto. Credimi mamma! Ci amiamo davvero. Sarebbe inutile fingere. Credimi mamma! Porterà soltanto felicità questa scelta. Credimi mamma! Non sono più una bambina. Non sono mai stata una bambina io. Credimi mamma! Non si diventa puttane a vivere con l'uomo che si ama. Credimi mamma! Ho diciassette anni, non sono più una bambina. Me ne vado mamma, dammi un bacio per favore.
60. Mamma avvolge due spaghetti intorno alla forchetta, vuole che assaggi. Sorrido. Le stringo la mano. Le faccio segno di spegnere, gli spaghetti scottano. Rido. Mi accarezza. Puzza un po' d'aglio la sua mano, ma non importa.
- Paride è un vero tesoro - dice Paola affacciandosi in cucina, - ha apparecchiato in maniera impeccabile.
Anche lui si fa sulla porta, sorride soddisfatto.
- Perché soltanto Nando si rifiuta di aiutare in cucina?
- Ma dai, non è poi così male il tuo medico - dichiara Paride.
- Come Tarzan no, riconosco che nella giungla sarebbe uno scimmione perfetto.
Non ho voglia di sentirla e ho bisogno di stare da sola con lui. Mi rivolgo a mia madre: - Portala via mamma - dico. - Finiamo io e Paride qui.
- Sì, sono bravissimo a girare gli spaghetti.
La mamma stringe complice il mio braccio. - Andiamo di là, Paola, lasciamoli lavorare.
Paride sorride. Tra un attimo il vapore degli spaghetti rovesciati nel colapasta appannerà i vetri dei suoi occhiali.
- Mi dispiace - gli dico.
- Figurati, mi piace molto tua madre.
61. Stiamo seduti a tavola, ognuno davanti a un piatto di spaghetti. Chiacchieriamo di frivolezze. Paride è alla sua seconda porzione. Ed è quasi l'una di notte. Non riesco a mangiare niente. Fingo di sorseggiare il vino. Una mano artigliata vorrebbe strapparmi l'addome. Mia sorella sorride. Sorride sempre. Sorride a tutto.
- Mi piacerebbe molto, ma credo che domenica la passerò a Mureddu.
- Rimanda, mamma cucina stupendamente. Non puoi scrivere un articolo serio su Santalba senza avere assaggiato tutti i nostri piatti.
- Sono molto tentato, anche se mangiare sembra diventata la mia unica preoccupazione, da quando vivo a Santalba.
- Marilena, insisti anche tu. Dai sorellina, domenica vi aspettiamo a pranzo, Paride, te, e…
Paola non riesce a pronunciarlo il nome del suo vecchio amico, non davanti alla mamma, almeno.
Lo pronuncio io quel nome: - Augusto!
- Sì, venite - dice la mamma.
- Non so, vorrei profittare del passaggio di un collega che sabato arriva fino a Gùsana. Sette chilometri da Mureddu Maiore.
- Venite ugualmente - dice mia madre accennando a un sorriso.
- Mario Pillonca sai?, ha dei parenti… - Paride si interrompe, ha capito che a mia madre non importa niente di lui. Arrossisce.
NOVE
Nuoro, senza data
Cara Caterina,
quando ancora ero un ragazzo trascorrevo le notti di pioggia interiore a ripassare i nomi delle donne che avevo amato, ho smesso quando erano troppi i nomi che dimenticavo. Ho ripreso a farlo adesso, per inserire quei nomi in uno stupido file. Ho cominciato con Andreina ed ho smesso con te. Non ricordo se ci siamo mai baciati veramente ed ho paura di scoprirlo nel bianco delle tue lettere.
Il passato mi sfugge. Quasi che la mia memoria funzionasse come per i computer: Memoria insufficiente, Memoria insufficiente. Allora butti via rapidamente quelle cose che ritieni di minor valore, cose che non potrai più recuperare.
Nuoro, senza data
Cara Caterina,
un giorno, molto anni fa, per il pranzo di Pasqua, portasti una torta di fragole e panna, mio padre e io litigavamo e mangiavamo. La finimmo tutta senza pensare né a te né alla mamma.
Poi mi accompagnasti alla stazione e dicesti che papà e io siamo uguali, che diciamo le stesse cose nello stesso modo: gridiamo per non ascoltare e dover poi dire di sì. Un ictus gli ha paralizzato tutto il lato sinistro, sono anni che non grida più.
Nuoro, senza data
Cara Caterina,
sullo schermo è riapparso il racconto del computer che si sognò uomo. Mi sono chiesto, se davvero io sono un computer, com'è che ogni mattina vado a scuola a insegnare ai ragazzini delle medie?
Chiudo gli occhi, smetto di battere e mi concentro sulle facce dei miei alunni. Buio assoluto.
62. Nuovamente tutto come poche notti fa. Davanti al mare, al vento salato di fine inverno. Ma non sono più quella Marilena. Cammineremo nello stesso passeggio lungomare. Ma non ho bevuto oggi. Non ho bisogno di un caffè forte. Ho smesso di recitare per Augusto.
Camminiamo Paride e io, l'interminabile balaustra che ci protegge dal mare ci indicherà la strada. Più in là, riflesse dall'acqua, le luci della discoteca.
Affondo le mani nelle tasche del cappotto. Le mie dita si scontrano con degli oggetti estranei. Un fazzoletto, pochi biglietti di piccolo taglio. Un mazzo di chiavi. Quelle della porta della casa dove sono cresciuta. Ho stupidamente indossato il cappotto di mia madre, uscendo. Era rosso il mio, e questo è bianco.
- Sono uscita con il cappotto di mamma - dico senza riflettere.
- Già. Siete così uguali voi due! Vuoi che torniamo indietro?
- No, non importa.
- Che hai Marilena, stai bene? Non è poi così urgente che io veda Augusto. Ti riaccompagno a casa se preferisci.
- Non importa, fermiamoci un po'.
In questo punto del cammino al di sopra del frastagliato litorale, i ferventi santalbini hanno eretto una stele al loro santo protettore, e il suo alto basamento costruito a gradini ci riparerà dal vento e ci accoglierà a riposare.
- Credi che Sant’Agostino proteggerà anche noi, questa notte? - dice soffermandosi a leggere la preghiera dei santalbini incisa sulla lapide.
- Vieni - non gli rispondo.
Stiamo seduti vicini. Paride mi tiene stretta. Mi bacia sulle guance, mi coccola.
- È tutto così incredibile - dice, - fino all'altro ieri quasi non sapevo chi tu fossi, e oggi fai parte della mia vita. Tu e Magdalena sarete la mia vita.
- Ho freddo - dico. E le sue mani scivolano sulle mie gambe nude. Ci baciamo.
- In questo momento mi viene da pensare che il passato non esiste, che si tratta di un qualcosa che non ci appartiene. Insomma, che il passato sia solo ciò che è: passato.
Paride utilizza un tono serissimo per affermare le sue convinzioni.
- Tu e io esisteremo solo a partire dal nostro presente, soltanto dall'oggi che abbiamo scelto per noi due. Tu e io soli siamo gli unici responsabili del nostro futuro. Il passato è solamente quanto appartiene agli altri. Un album di vecchie foto. Nessun demiurgo costruirà il nostro domani. Tu, Magdalena, io…
- Tu, Magdalena, Andreina…
- Che ne sai, tu, di Andreina? - la sua voce si fa improvvisamente stridula, e il suo corpo lo sento già distante.
- Io lo amo il mio passato. Amo ogni istante della mia vita. Lo amo Augusto.
Sono io a stringerlo adesso, a dargli i bacchetti, a parlargli dolcemente.
- Amo anche Paride. Amo anche te.
- Ma tu non puoi accettare che sia lui solo chi decide della tua vita. Non devi rinunciare a una figlia.
- Ma io ho già rinunciato. Avevo già rinunciato.
- Sto male Andreina, non so più cos'è che voglio.
Mi chiamo Marilena io, Marilena. Ma non posso adirarmi con lui, è così indifeso. Così solo.
A pochi metri di fronte a noi si allunga la vasta siepe d'arbusti che d'estate si colora di grandi fiori bianchi. Ma è inverno adesso e tra i fitti rami spogli mi sembra di scorgere un'ombra più scura. Batto i tacchi in una rapida successione, per spaventare quell'intruso. E quello si allontana, veloce, sulle quattro zampe, come qualsiasi altro gatto randagio.
- Vieni, presto, vieni.
Si solleva, si lascia trascinare dalla mia mano, mi segue nell'intrico dei fitti rami spogli. Nessuno baderà a noi a quest'ora di notte. È ancora affollatissima alle due, la discoteca.
Lo bacio, sul viso, sul petto. Lui non capisce ancora, non vuole capire.
- Marilena? - chiede.
Lo bacio di nuovo. A lungo. Le luci di un auto che corre veloce quasi lo paralizzano.
- Non fermarti - gli dico. - Non fermarti.
Gli tremano le gambe, non resisterà ancora per molto, in piedi, dentro di me.
- Marilena? - chiede.
E io gli vengo più incontro con il bacino. Ancora più incontro, ancora di più. In piccoli sussulti.
- Marilena? - chiede.
- È stato bello - gli dico.
Mureddu Maiore, 3.4.86
Ciao Paperino,
ti ha molto sorpreso incontrarmi a pranzo dai tuoi, non negare. È stata una idea di tua madre. Una eccellente idea, non trovi?
Eri buffissimo, ancora in pigiama, non rasato, non pettinato, pronto per un pranzo di Pasqua senza nessuna formalità. Trovandomi accomodata a discutere di maglia con tua madre sei letteralmente trasalito. Il tavolo apparecchiato per quattro segnalava in maniera incontrovertibile il senso delle mie intenzioni. Sei stato tenerissimo a voler raderti per me.
Lo so, avrei dovuto informartene nei giorni scorsi, ma non sapevo, fino a questa mattina, che avrei accettato l'invito di tua madre; me lo ha chiesto in chiesa, e io confesso di non essermi fatta pregare.
Poi cannelloni di ricotta, agnello, e dolciumi. Tu hai provato a rifiutarti, ad addurre come giustificazione l'abuso dolciario a cui ti sottopone il tuo alunno Carta, ma ha vinto la mia torta di fragole e panna. Ne avete preso due volte, tu e tuo padre.
È un uomo dolcissimo tuo padre. E tu e lui vi amate bellicosamente. Io credo che tu dovresti porti il problema molto seriamente, Paperino. Tua madre, mentre voi discutevate tanto animatamente, si vergognava, provava a distrarmi, a interessarmi ad altro che non fosse il vostro stupido litigio.
Tu sostenevi, meglio, gridavi, che Santalba non è soltanto culto di Sant’Agostino e spiagge, ma anche l'ultimo baluardo nella lotta per il diritto a scegliere la propria identità storico-linguistica. E che l'esempio del santalbino Antonio Garofaniello, catturato al fianco di Alessio Papatànassius, e insieme a lui torturato e ucciso dai colonnelli greci nel 1971, ne è la piena dimostrazione. A Santalba oggi non si lotta per il recupero di un unicum accaduto mille anni fa, ma per il diritto all'autodeterminazione dei popoli.
E tuo padre urlava, che in realtà ai santalbini non importa più niente del mantello di Sant’Agostino, che a questo preferiscono i canti e le gare poetiche in lingua neogreca. E che lui ricorda perfettamente di quando Papatànassius, Protaxis e Paràtaxis, facevano i “turisti” fra virgolette. Erano greci democratici sfuggiti miracolosamente al regime dei colonnelli, che a Santalba avevano ritrovato la patria perduta.
Davvero, Paperino, non capisci che è la stessa cosa? Non senti che parlate su due piani della stessa lingua?
Siete buffi voi due. Anche adesso sorrido, pensandoci. È bastata la mia torta ricoperta di panna per farvi deporre le armi.
Poi il caffè, la tua fretta di scappare alla stazione, la tua voglia di ritornare al tuo nuovo mondo. Mi chiedo che cosa accadrà il prossimo anno, quando ti cambieranno di sede, quando ritornerai a lavorare a pochi chilometri da Mureddu a un tiro di sasso dai tuoi.
Poi il caffè e la spaventata cattiveria di tua madre: «Hai visto con chi è fidanzata Andreina, adesso? Con uno che si droga, anche! Non l'hai vista, Paride?»
Poi siamo fuggiti tu e io. In macchina fino alla stazione di Mureddu, poi fino a quella di Nuraghe Chesòlu. Per parlare un pochino. Per rimanere insieme in silenzio. Mi vergogno tanto a dirtelo, ma ho sperato che tu provassi a baciarmi.
5/6.V.1986 - delirio di una notte d'inizio estate
(Alberto) Il mio è un teatro di parola; mimica e gestualità vivono ai margini della mia opera. Sei tu, Sigmund, chi potrebbe introdurci nel suo labirinto onirico.
(Sigmund) I sintomi del suo delirio si mostrano ancora imprecisi, Alberto. È sindrome di Rosina, o eccesso etilico? Karl, che gli è maestro da anni, potrebbe dirci di più.
(Karl) Era soltanto un ragazzo quando frequentava il mio club, un imberbe sognatore. Non riconosco in costui il compagno Paride. I suoi incubi sono misera merce di scambio, buona soltanto per la piccola borghesia più retriva.
(Alberto) In un mio racconto un pigro scelse il sogno contro la vita reale, sognare per lui era vivere di più. Ma prima di continuare, una parola sulla sindrome di Rosina, maestro.
(Sigmund) Ricordate Romeo? Quando ancora non sa dell'esistenza di Giulietta è il mortificato innamorato respinto di una fantomatica Rosina. Ma supererei quella sintomatologia, mi sento di azzardare un'ipotesi che definirei decisiva. Costui soffre di romanzeria devastante. Osservate questi movimenti inconsulti. Osservatelo quando pronuncerò la parola: romanzo. edete? R…O…MA…NNNN…ZO! Inconfondibili, questi suoi movimenti scoordinati e inconsulti sono tanti inconfutabili segnali della malattia. Romanzeria devastante, questo è il suo male.
(Karl) Malattia decadente e borghese. Con la rivoluzione scompariranno gli artisti, il proletariato soltanto sarà vera arte. A-vanti avanti gran parti-ito, noi sia-mo dei lavorato-ori.
(Alberto) L'Inteee-rnaziona-aaaaa-le futu-ra Uma-nità.
(Sigmund) Vi prego, siamo in presenza di un malato. Un uomo che voi due, sì, voi due avete ridotto in questo stato. Tu Karl, con le tua ideologia suicida.
(Karl) Non capisco.
(Sigmund) Ma certo, «la dittatura del proletariato la dittatura del proletariato», e i piccoli borghesi? Costretti al suicidio morale, omologati in una classe sociale che non gli appartiene! E tu Alberto! «il romanzo è vita!», ma chi l'ha detto?, il romanzo è finzione, solo finzione.
(Alberto) Mi permetto di controbattere, non ho mai affermato niente di simile, io.
(Sigmund) Ma sì, ma sì. Ma se per anni il tuo editore ha scritto nelle terze di copertina dei tuoi libri, che da un tempo infinito vivevi perduto dentro l'intreccio di La vita interiore? Ma se tu stesso sostieni che il tuo solo passato è quello che vive nelle pagine dei tuoi libri?
(Karl) Mi dissocio, e vibratamente protesto. Non puoi attribuire al re quanto vociferano i realisti. Gli epigoni di Alberto sono bande di miopi folletti che bivaccano sulle sue ciglia.
(Alberto) E i traditori del marx-pensiero volano a schiere, temibili più che cavallette.
(Sigmund) E io allora? Non dovrei lamentarmi io? Ma è di lui, amici, di questo giovane uomo assolutamente non toccato dalla fama, che dobbiamo occuparci.
(Alberto) Non provo nessuna simpatia per costui. Ha saccheggiato i miei romanzi senza riuscire a ritenerne la poetica che li pervade.
(Sigmund) Ti prego Alberto, non vedi come soffre per queste tue parole?
(Karl) Costui è di peso alla nostra lotta. Ha scritto di Santalba come di una terra di Sant’Agostino straripante di poeti e intellettuali borghesi, volutamente ha dimenticato le sofferenze dell'eroico proletario Antonio Garofaniello, martire santalbino della lotta contro il fascismo dei colonnelli greci.
(Sigmund) Ti prego Karl, morirà nel sonno se continui.
(Alberto) Ma come puoi difenderlo, Sigmund? Costui ti ha cancellato dalla sua vita. Ha rifiutato ogni tuo insegnamento. Come puoi difenderlo?
(Karl) Come puoi?
(Sigmund) È nato il sei maggio, come me, è del segno del toro.
(Karl) Sigmund, Sigmund, anch'io sono del toro, e sono nato il cinque.
(Alberto) Per questo è così simile a voi.
(Karl) Ma che dici?, lui è cattolicissimo e mediterraneo, noi siamo ebrei e teutonici.
(Sigmund) Attento Alberto!, si è svegliato, vuole strapparti la maschera.
(Alberto) A!, marrano.
(Karl) Anche tu Sigmund, ti prende alle spalle!
(Sigmund) A!, falso ateo.
(Karl) Fermo compagno! Mi strapperò da solo questa barba posticcia.
(Alberto) Tonino Carta!?!
(Sigmund) L'unico vero protagonista di questa storia, il solo assurto alla gloria di una foto sui giornali.
(Alberto-Paola) Anch'io sono stata intervistata.
(Sigmund-Marilena) Ma dai riconoscilo sorellina, se non fosse stato per il tuo giovane alunno, saresti finita sui giornali solo quando Nando massacrerà di botte te e uno qualsiasi dei tuoi mille amanti.
(Alberto-Paola) Perché no? Magari insieme ad Augusto.
(Sigmund-Marilena) Stronza, io ti uccido.
(Karl-Tonino) Signora professoressa, per favore!, signorina Marilena! Professò mi aiuti, professò si svegli, queste due si ammazzano, professò, ma chi cazzo è quest'Andreina?
6.V.1986 - martedì, pomeriggio
È il mio compleanno. Ho stappato lo spumante, mangiato un enorme pollo di rosticceria, un vagone di pasticcini. Sto male. Ho il ventre gonfio, non vedo più i miei genitali. Mi sto radendo, nudo e disperato. Ho mangiato troppo. Ha mangata trappa, he mengete treppe, hi mingiti trippi, ho mongoto troppo, hu mungutu truppu.
Cazzo che sfregio? Non imparerò mai, non riuscirò mai a radermi come un vero uomo. Insapona, insapona, insapona, insapona!
Di che ti lamenti, stronzone? Hai un lavoro, sei giovane, hai ventott'anni. Domenica Andreina si sposa. Ti ha perfino invitato alle nozze. Andraana sa spasa, Endreene se spese, Indriini si spisi, Ondroono so sposo, Undruunu su spusu. Perché non vai alle nozze? Brutto coglione, perché non vai alle sue nozze?
Se solo ci fosse una vasca da bagno in questa merda di casa. Come faccio così? Non posso tagliarmi le vene e aspettare di morire sotto la doccia. Sarebbe ridicolo, cadendo assumerei un atteggiamento goffo, voglio morire elegante, per la mia Andreina.
Bello! Se riesco a otturare lo scarico della doccia l'acqua allagherebbe tutta la stanza, tutta la casa. Che bello, morirei nel mare. Che bello, e mentre mi dissanguo vivo allucinazioni stupende. Andraana sa spasa, Endreene se spese, Indriini si spisi, Ondroono so sposo, Undruunu su spusu. Su un ritmo qualsiasi. Una canzone di Vasco Rossi? Perché no! Lucio Dalla? Anche! Ci sono, su L'internazionale, dai, sul serio, su L'Internazionale. Andra-aa-na sa spa-sa, Endre-eee-ne se spe-e-se, Indri-iii-ni si spii-si, Ondroo-ooo-no so spo-o-so, Undruu-uuu-nu su spu-su.
Ho paura. L'acqua cade furibonda. Gli schizzi rimbalzano sulle mattonelle bianche e mi colpiscono gli occhi, il naso, la bocca. Poggio la fronte sulle ginocchia. Ho paura. Il rasoio di plastica danza tra le dita dei miei piedi. Non ho più voglia di morire. Non sento più i muscoli dei glutei. Sono un fesso. «Quel fesso di Paride Pintus annega nel cesso dopo aver ostruito lo scarico della doccia col culo». Non ho più voglia di morire.
Suonano alla porta. Risuonano alla porta. Suona sempre due volte il Tonino.
- Ciao, ero sotto la doccia.
Tonino Carta ha sotto braccio il suo pacco di libri e quaderni, aspetta che un mio cenno lo autorizzi ad entrare. Paola rimane dietro di lui, sorride, ha un pacchettino per me.
- Auguri collega! - dice porgendomelo.
Forse dovrei dire qualcosa. Ringraziarla, sorriderle, ricambiare il suo bacio.
- Che cos'è? - mugugno. - Che cos'è?
Hanno richiuso la porta, mi guardano sorridenti, seduti dietro il tavolo. Anch'io, forse, sorrido.
- È stata un'idea di Tonino - dice Paola.
La carta luccicante si strappa; all'interno di una scatolina di plastica dura e trasparente vedo un rettangolo di pelle nera. È un portafogli.
- Ti piace? Non ti piace! Dì qualcosa, ti piace?
- Mi piace, grazie.
- Sono contenta. Non sapevo davvero cosa potesse servirti.
- Grazie Paola - dico, - grazie Tonino.
Lei la bacio di nuovo, e anche lui questa volta, su una sola guancia.
6.V.1986 - martedì, dopo cena
Suonano alla porta, risuonano. Non ho nessuna voglia di aprire, Paul Newman ha appena baciato Joanne Woodward. Suonano ripetutamente, con insistenza feroce.
Vado ad aprire in pigiama. È Nando.
- Nando! - dico a mo' di saluto. Non risponde, rimane alla porta, sembra avere perso ogni desiderio di entrare.
- Qual buon vento? - gli chiedo inventando un sorriso.
La sua risposta è fulminea. Con uno scatto imprevedibile mi è addosso. Mi stringe fortissimo le braccia intorno alla schiena. Petto contro petto. Le mie braccia imprigionate tra le sue. Soffoco.
- Dov'è? - grida. - Dov'è?
Ho paura. Mi tiene sollevato da terra.
- Dov'è? - continua a ripetere. - Dov'è?
Soffoco. Non riesco a reagire. Mi spinge fino a sbattere contro l'intelaiatura della porta della camera da letto.
- Dov'è? - ripete a denti stretti.
- Mi fai male - riesco a sussurrare.
Nando caccia un urlo terribile, poi mi morde alla guancia sinistra. Grido per il dolore. Non gli importa. La sua mano destra scivola ai miei genitali, il suo pugno si stringe implacabile intorno ai miei testicoli. Sto male. Sto male. Sto male. Sto male, Sto male…
Non deve essere trascorso troppo tempo. Paul Newman e Joanne Woodward litigano ancora. Nando sta disteso sul mio letto, il volto affondato sul cuscino. Piange. Prima di stendermi accanto a lui spengo il televisore.
- Oggi è il mio compleanno - dico. - Ventotto anni. Sono tanti.
Non credo che mi ascolti, la sua schiena continua a seguire il ritmo dei singhiozzi.
- Se potessi ancora guidare andrei a festeggiare dai miei. È importante avere una famiglia. Ti ho mai raccontato perché mi è stata tolta la patente? È una storia lunga. Molto lunga. Quanto sarà?, un anno?, un anno e mezzo? Insomma, tempo fa, ero lì che litigavo con Andreina, sì, Andreina, non ti ho parlato mai di Andreina? O!, è lunga storia, molto lunga. Insomma, litigavamo in macchina, in pieno giorno, parcheggiati davanti a un tabaccaio. Sai che non ricordo più per quale motivo concreto litigassimo. Ti giuro! Era da un mese che non facevamo altro che litigare. Insomma, io le grido vattene, così: vattene, vattene. Fortissimo, come un matto. Lei scende sbattendo lo sportello. Io, da vero imbecille, metto in moto e parto a tutta velocità. Quello che veniva da dietro frena bruscamente, quell'altro che procedeva in senso contrario si spaventa. Insomma, un casino della madonna. Una donna anziana e un ragazzino di dodici anni finiscono all'ospedale per un paio di mesi, e io, da quello stronzo che sono, anziché fermarmi, dare le generalità, prestare soccorso, chiedere scusa, sono scappato a tutta velocità imboccando un senso vietato. Ridicolo, ridicolo. Sono scappato, capisci, scappato, a Mureddu Maiore, dove non esiste cane che non conosca i Pintus.
- Tanti auguri a-te, tanti auguri-a te, tanti auguri-amico-Pa-ride, tanti auguri-a-teee.
È Nando, non piange più, canta per me la canzoncina augurale. Canta con la voce roca, con la respirazione rotta dalla posizione distesa, e il suono soffocato dal cuscino troppo vicino alla bocca.
Sorrido. - Conosci il gioco del cambio di vocali? - gli chiedo. - È un gioco divertente, lo fanno i miei alunni con le poesie più noiose. Senti: Tanti auguri a-te, tanti auguri-fe-li-ci, tanti au-guri-a-teee. Solo a: Tanta agara a-ta, tanta agara-fa-la-ca, tanta agara-a-taaa. Solo e: Tente eghere e-te, tente eghere-fe-le-ce, tente eghere-e-teee. Solo i: Tinti ighiri i-ti, tinti ighiri-fi-li-ci…
Nando canta insieme a me: - Tinti ighiri-fi-li-ci, tinti ighiri-i-tiii.
63. Scendiamo lungo i gradini ricavati nella roccia. Fino al livello del mare. Fin dentro i cancelli della discoteca. Fin dentro l'antro rumoroso e luccicante. È troppo tardi, nessuno fa più caso ai nuovi avventori. Il ragazzo dietro la finestrella del botteghino sembra che dorma. Non ha più voglia di aspettare. Entriamo. Il rumore della musica si fa assordante. Ho l'impressione di camminare dentro la gola di un mostro, quest'aria calda è in realtà il suo alito. Lo stretto corridoio è intasato da poltrone e da corpi alla ricerca di intimità. Procediamo tra gli anfratti più oscuri del mostro.
Siamo dentro la sala. C'è ancora molta gente che beve, che chiacchiera, che si inganna. Su ognuna delle due piste qualche ragazzo trova ancora energie per continuare a ballare. Si muovono alla ricerca di un ritmo. Alcuni imitano complicemente gli stessi passi. Altri si studiano riflessi dalle migliaia di minuscoli quadratini di vetro che rivestono le due colonne che separano le due piste che insieme ricordano una farfallina dalle ali a forma di otto. Oltre la vetrata la terrazza e le onde del mare.
Le luci sono più intense vicino alla pista. Raggi blu rossi e viola mi vengono addosso. Alla mia sinistra qualcuno mi saluta. Da dietro un bancone bar allestito in una sorta di sottoscala.
Paride sta un passo dietro di me, afferra il mio braccio per farmi notare che Augusto ci chiama.
Di fronte al bar la scrivania del disc-jockey. Ha una spalla più alta dell'altra, per reggere le cuffie di traverso sulla testa, le ascolta da un orecchio soltanto. Armeggia su un grande disco nero. Lo frena sul piatto con le dita, poi lo libera, lo fa urlare di gioia, lo riprende. Anche il disc-jockey mi saluta. Siamo amici da un'infinità di anni. Fu lui a regalarmi il free pass per la mia prima notte in discoteca.
Lo saluto. Con un sorriso. Senza levare le mani dalle tasche. Ma non è abbastanza per lui. Abbandona il disco sul piatto. Butta le braccia in alto, agita scandalosamente i fianchi. Gli sorrido, muovo la testa seguendo le mosse di un immaginario metronomo, perché sappia che conosco la sua pazzia. Il mio gesto lo tranquillizza, lo fa rientrare nella normalità, riprende impassibile a torturare il disco.
- Guarda! - dice Paride. - Guarda!- ripete. Mi indica una coppia di ragazzi che ballano. Lei è altissima, e i suoi capelli sono ricci e africaneggianti. Lui è piccolino, un nano quasi, rispetto a lei, i suoi cappelli sono cortissimi. Ballano fissandosi negli occhi.
- Buffi vero? - chiede.
Non capisco, l'alto volume della musica mi impedisce di capire.
- Buffi vero? - urla.
La sua domanda mi ferisce i timpani.
- Che cosa ti porto Pintus? - chiede affabilmente Augusto.
- Un bourbon.
- Con ghiaccio?
- No grazie! - gli risponde Paride con lo sguardo perso a studiare l'arredamento del locale.
Augusto, dietro il bancone che ci separa, ci dà le spalle, fruga in alto tra le bottiglie. Si volta. Riempie i bicchieri, lentamente.
- Un lemon-vodka per te, yes Marìlu? - dice.
Ci siamo allontanati dal bar, ci siamo trasferiti ai margini della seconda pista, sotto il banco del disc-jockey. Augusto e io stiamo seduti sulla stessa poltrona. Mi tiene abbracciata alla vita. Paride sta seduto sulla poltrona davanti a noi. Bevono, chiacchierano discutono sul vero ruolo di Alessio Papatanàssius e il suo amico santalbino Antonio Garofaniello nella resistenza contro i colonnelli greci.
Per raggiungere le toilette devo fare solo pochi passi in direzione dell'unico corridoio illuminato con una normale luce da appartamento. Mi alzo senza parlare. Augusto e Paride mi fanno spazio, stringono le gambe perché possa passare. Paride istintivamente allunga una mano per proteggere i nostri cappotti, perché non cadano al mio passaggio.
Il corridoio non è più lungo di tre metri. Rapidamente raggiungo la seconda porta di sinistra. È solo socchiusa. Sopra i lavandini si allunga orizzontalmente un corridoio lunghissimo. Due ragazze chiacchierano tra loro pitturandosi le labbra, e poi passandosi le dita tra i capelli. Mi salutano. Tutti abbiamo facce conosciute in discoteca.
L'amica che indossa maglione nero e jeans scuri mi fissa intenzionalmente.
- Bellissimo questo vestito - dice. - Una figata bestiale.
Le sorrido. Proseguo verso la più lontana tra le due porte sulla destra. Ho bisogno di sedermi sul water, ho bisogno di rimanere da sola.
Le ultime gocce di sperma fuggono da me. Strappo lunghi fogli dal rotolo di carta per pulirmi da Paride. Sento stupidi risolini. Quelle ragazze che si truccavano sono ancora lì fuori. Parlano. Ridono di un uomo che credeva di sedurle con un bicchiere di cocacola, un vecchio, uno di almeno trent'anni.
Ho una faccia che fa paura. Lo specchio mi riflette impietosamente. Questo vestito di Paola è orribile, mi ingrassa, mi fa sembrare un tappo.
Mi bagno le mani. Le passo tra i capelli. Denudo l'orecchio destro, sciolgo i capelli in un'unica onda sulla spalla destra. Avrei bisogno di qualche forcina.
Quelle ragazze sono ancora qui. Sento le loro voci in corridoio. Le chiamo. Stanno lì a perdere tempo con un ragazzotto dal ciuffo giallo.
Si voltano. Le ho chiamate. Il loro sguardo è pieno di domande. Voglio che si avvicinino. Glielo comunico coi gesti.
- Potete prestarmi qualcosa per i capelli? - chiedo.
- Che hai? - dice quella dai capelli ricci. - Hai una faccia!
L'altra coi jeans scuri sorride stupidamente. È più alta di me di un buon palmo. Ma dobbiamo avere le stesse misure. I suoi pantaloni sono alti sulla caviglia. Al polso tiene avvolta una striscia di pizzo nero.
- Ti piace questo vestito? - le chiedo.
Sorride sempre più stupida.
- Ci stai a fare cambio? - le propongo.
Continua a sorridere. E io non ho tempo. Sciolgo la cintura e mi spoglio. Sono nuda adesso, indosso soltanto le scarpe e il reggiseno.
La ragazza ride forte.
- Siete pazze! - grida l'amica dai capelli ricci.
Mi avvicino. Le slaccio i jeans. Lei si leva il maglione e me lo passa.
- Pazze, pazze - ripete l'altra.
I jeans mi vanno un pochino larghi e mi arrivano sulle scarpe. Il maglione nero mi va amplissimo. La scollatura mi scivola sulla spalla.
La ragazza continua a ridere. Mi guarda accarezzandosi lungo tutto il corpo, vuole sapere come le sta.
- È perfetto - le dico, - ti va a pennello.
Annuisce, si tira la gonna sulle gambe lunghissime.
- È una figata - dice.
- Passami il pizzo - le dico.
Mi porge il braccio. Ma è annodata stretta quella striscia nera intorno al polso. Non ce la faccio. Devo usare i denti.
- Lascia - dice l'amica. In un niente scioglie i nodi. Poi raccoglie i miei capelli e col pizzo nero li stringe in una lunga coda.
- Grazie - dico.
Lo specchio riflette un'altra Marilena adesso, una giovane ragazza da venerdì sera in discoteca. Le due amiche stanno per uscire. Le richiamo. Voglio una sigaretta. Quella dal vestito blu a losanghe indaco e nere estrae un pacchetto dalla sua borsa, me lo passa. La sua amica dai capelli ricci mi fa accendere.
Scompaiono.
64. - Non dire cazzate! - esclamò Augusto più preoccupato che divertito.
- Davvero!, come preferiresti farti chiamare, Augusto, oppure papà?
- Basta Marilena, non ho nessuna voglia di scherzare.
- Papà, paparino!
- Marilena, tu non puoi essere incinta.
- Perché no?
- Perché no!
- Ma dai, un bambino tutto nostro, un figlio tuo e mio.
- Impossibile, impossibile, devi sbarazzartene, assolutamente. E al più presto. Subito dopo carnevale avremo un calo di presenze in discoteca.
65. Le vibrazioni dei bassi mi penetrano la mente. Chiudo gli occhi. Il ritmo si porta via il mio corpo. I ginocchi non li sento più tesi. Mi spingono. I talloni mi sollevano dal suolo. Tutto il mio corpo segue il flusso di una marea che sale dal ventre. Lentamente le braccia conquistano l'indipendenza da me.
I fari non proiettano più raggi colorati, sono lampi di luce bianca. Dopo ogni scoppio arriva la notte, dopo ogni istante di buio ricompaiono i visi dei ballerini. Spettrali, fantastici, irrealmente vivi, aritmici.
Il nuovo tempo mi arriva come una frustata. Le luci sono di nuovo gialle, blu, verdi, viola.
Il vestito blu di Paola balla a pochi passi da me, di fronte a un ragazzo dai capelli nerissimi. Anche l'amica ricciuta e il ragazzo ciuffo giallo gli ballano intorno.
Echi di mitraglia cadono sulla pista. Anch'io seguo il ritmo del vestito di Paola. Danza senza originalità, secondo uno schema vecchissimo, ripetitivo. Riesco a imitare ogni suo passo. Ecco, il mio corpo inventa una sequenza più rapida, irresistibile. Ogni mio muscolo, ogni mio nervo contribuisce a disegnare una sola immagine. È diventata una sfida la mia.
I ballerini suoi alleati ci fanno cerchio, ci osservano. Sono irresistibile. Non riesce a imitarmi, non gli riesce di seguire i miei gesti. Ride. Non può continuare. Fugge. Il vestito di Paola si confonde tra gli altri che mi fanno cerchio.
So che tutti mi fissano. Voglio che tutti mi fissino. Anche Olivia e Braccio di ferro.
Il disc-jockey parla sulla musica, grida che mi ama, che mi regala il suo ritmo, che vuole ballare con me.
Le sue braccia, le sue mani giunte, si ergono davanti ai miei occhi imitando un serpente. Tutto il suo corpo si inerpica dal basso come una creatura di sogno. Il suo busto ciondola, l'impulso diventa mulino all'altezza della testa, dei suoi capelli neri striati d'arancio.
Tano è il mio maestro di discoteca. Non abbiamo mai avuto bisogno di troppe parole per capirci. Lui ama il mio ritmo. Riuscì a captarlo ancor prima di vedermi ballare, per questo mi regalò i biglietti per la mia prima notte. Per questo mi informò sulla necessità di un nuovo gestore. Siamo complementari io e Tano. La nostra danza è sincronica.
Qualcuno sta dietro di me. Vicinissimo. Mi preme sulla spalla destra. L'eco di mitraglie si attutisce, la marea dentro defluisce. Una mano che regge un bicchiere passa sotto il mio braccio destro. Sfiora il mio seno. Labbra sconosciute baciano la mia spalla nuda. Tano non ne è spaventato. Non mi grida di fuggire.
Balzo in avanti per liberarmi. Il contenuto del bicchiere bagna il mio petto. Mi muovo senza più controllo. Non riesco a evitare altri corpi, altre braccia. Tano si china per prendere in volo il bicchiere che io ho fatto cadere. La mia mano incontra il suo viso. Lo schiaffeggia. Ma tutto è accaduto in unico istante. E Tano sorride, nuovamente in piedi, ondeggiante su un ritmo sensuale, sorseggia quanto è rimasto nel bicchiere.
- Grazie Augusto - dice.- È troppo giusto il lemon-vodka.
Niente è accaduto. Gli altri continuano a ballare. Olivia accarezza il suo gracile Braccio. Tano urla sulla musica. Paride è rimasto lì, seduto sulla poltrona, un bicchiere tra le mani. Augusto vuole che ritorni da lui, non sa ancora dei miei diari, crede di poterlo attirare nella sue rete, trasformarlo in pedina per il suo stupido gioco dell'oca. Dopo la pubblicazione della mia intervista, indirà una conferenza stampa per presentare il suo libro e svergognarlo, rivelando la sola attendibile fonte per ogni verità di Santalba: Augusto Piras.
- Vieni - dico a Paride stringendo le sue mani. - Voglio ballare.
Resiste.
- Vieni - insisto.
È in piedi.
- Non sono capace, non sono capace - ripete.
Cammino all'indietro. Stringo le sue mani tra le mie. Ma lui non mi segue. Le sue mani mi sfuggono. Resta lì. Accanto al suo trench di gabardine marrone, accanto ad Augusto.
65. Era già ottobre. Una notte caldissima che impediva di rimanere in casa. Sedevamo in quel piccolo bar sul porto Augusto e io. Lucia ci raggiunse senza preavviso. Erano poche settimane che ero riuscita a strapparglielo.
- Ciao piccioncini - disse sorridente e nascondendo dietro la sua massa di capelli biondi gli ultimi raggi del sole che tramontava sul mare.
- Che felicità incontrarvi. C'è del genio nella casualità, non siete d'accordo? - continuò accomodandosi di fronte a noi.
Il cameriere gli servì un bourbon con poco ghiaccio. Pensai che al suo posto non sarei stata capace di tanto. Pensai che non sarei mai stata all'altezza della più cara amica di mia sorella a cui avevo rubato l'amante.
- Come stai Marilena?, come stai piccola troia? - mi chiese.
66. Le luci lentamente affievoliscono, fino a farci rimanere quasi completamente al buio. Anche la musica si fa altra, più lenta. Sono i segnali che in discoteca informano sull'arrivo dell'alba. Tutti a casa.
Le piste da ballo si stanno svuotando. Olivia e Braccio ballano molto stretti. Il mio vestito a losanghe è scomparso, lo immagino intento a rubare baci a ciuffo giallo. Chiudo gli occhi. Ruoto su me stessa. Percorro la circonferenza della pista farfalla tenendo le braccia larghe. Nessuno bada a me. Ne sono certa.
67. - Si è fatto tardi piccioncini, me ne vado. Grazie per il bourbon. Voglio che tu sia felice Augusto. Addio!
Ma non si alzò.
- Lucia! - gridò Augusto spaventato. - Lucia! Che stronzata. Che stronzata - ripeteva Augusto strappandosi i lembi della camicia per stringerle i polsi. - Che stronzata amore mio - ripeteva cercando di impedire il flusso di sangue che da quelle mani ferite dalle schegge di un bicchiere di bourbon scivolava sulla gonna di una donna bionda che era stata sua amante.
68. La voce di Tano ci regala un addio. Giura che domani sarà uno splendido sabato.
La ragazza altissima e magra ha occhi solo per il suo amore troppo basso. Ballano ancora. Abbracciati. Sono una cosa sola.
Augusto e Paride discutono ancora. «Papatanàssius era un visionario. Garofaniello un emarginato».
Non mi sento più una di loro. Augusto mi fa cenno di avvicinarmi, vorrebbe che recitassi per lui. Anche Paride mi sorride. Mi chino verso di lui, gli mento all'orecchio: - Non parlargli di Magdalena, è tutto finito, mi sono venute mentre ballavo.
- Davvero? - chiede speranzoso.
Accenno un sì con la testa. Cerco il mio cappotto, quello bianco. - Ho freddo - dico ad Augusto. Poi lo bacio. Mi allontano ondeggiante su un passo di danza. Non badano a me. Non sono più quella Marilena che si sono inventati.
Mureddu Maiore, 6.5.86
Ciao Paperino,
questa notte andrai a dormire con ventotto anni addosso, auguri.
Hai rischiato che venissimo a trovarti, lo sai?
Giuro! Tua madre, tuo padre e io. Tutte e tre fino a Santalba, con una grandissima torta di compleanno, poi abbiamo convenuto che non ne sarebbe valsa la pena, tre ore in auto per venirti a trovare e poi dover ripartire nella stessa notte.
In alternativa tua madre ha proposto di festeggiarti noi tre da soli. Ci pensi, noi tre riuniti a celebrare un compleanno alla memoria. Sono riuscita ad evitarlo a stento. In compenso ho dovuto parlare di te tantissimo. Anche con tuo padre, ha voluto discutere con me punto per punto il tuo «brillante saggio», parole sue, su Santalba apparso sul nuovo numero di La Miniera Del Serpente. «Dal mito al duemila. Bellissimo titolo», ha detto, «sicuramente suo».
Non sta più nella pelle per conoscere il tuo alunno «martirizzato dai mezzi di comunicazione», tuo padre. Dice di essere fiero di contribuire alla causa della giustizia sociale. Anche tua madre credo sia d'accordo con lui, anche se mugugna sempre, anche se ripete che con questa «storia di Carta ti farai la fama del rivoluzionario», e non è bene per la tua carriera.
Sono stupida vero? Non dovrei parlarti di queste cose, li conosci meglio di me i tuoi genitori, tu sai bene come sono fatti.
Paride, Paride. Vorrei che tu non mi avessi mai chiamata quella notte. Vorrei che tu non avessi provato mai alcun desiderio per me. È difficile convivere con la tua assenza. L'ho capito questa sera parlando coi tuoi. Gli manchi, ci manchi. Per loro però sarai sempre il figlio, il bambino. Il frutto della loro unione. Per me non sarai più “Paperino”.
Mi chiedo se non abbia sbagliato ad aprirti me stessa.
Molti anni fa, troppi anni fa, mi chiedesti che cosa pensassi di te. Lo facesti mentre ballavamo, durante una festa in casa di amici. Ti dissi che ti apprezzavo, ti lusingai. «Davvero?» tu dicesti. Aspettai il tuo turno, che fossi tu a lusingarmi. Ma rimanesti in silenzio, e il tuo ballo seguente fu con un'altra. Chiedesti la mano di quella ragazzina bionda, e lei ti rifiutò. Venisti da me il giorno dopo, per studiare latino. «Ma davvero tu credi che io possa piacere a una donna?» Mi chiedesti.
P.S.: Andreina si sposerà domenica. Sono stata invitata. Ho già visto il suo abito, è fastoso e bianco. Bianco, Paride, il colore del vuoto, di chi rinuncia al proprio passato.
Nuoro, senza data
Cara Caterina,
non so come sia potuto accadere, lo schermo si è improvvisamente riempito di una valanga di parole provenienti dal file delle tue lettere. Quelle che credevo di avere cancellato ieri notte. Sospetto che dipenda da un virus infilato nel computer da qualcuno dei videogiochi che mi prestano gli alunni.
Clash, tutte le tue lettere una dietro l'altra, clash, clash. E quando anche l'ultima è apparsa, sono scivolate via come sabbia in una clessidra. Tutto perduto meno le frasi in corsivo: La Miniera Del Serpente, Dal mito al duemila. Che titolo orribile.
Lo Strudel
Commedia in due atti e un epilogo
Personaggi
Antonio Garofaniello, 50 anni, grecista
Costantino Dicostanzo, 50 anni, barista
Pier Andrea Marcellini, 40 anni, inviato della Rai
Gigliola Giovannangeli, 30 anni, bionda ossigenata, inviato di una rete privata
Marta, 20 anni, operatore
Giorgio Notardigiacomo, sindaco di Santalba
Augusto Piras, 20 anni, studente, ragazzo di Lucia
Nando Nieddu, 20 anni, studente, ragazzo di Paola
Paola Cau, 20 anni, studentessa, ragazza di Nando
Lucia Pieromalli, 20 anni, studentessa, ragazza di Augusto
A Santalba, piccola cittadina sul mare del nord-niente della Sardegna. Durante i giorni di une prossime olimpiadi di Atene.
Epilogo
L'intero scenario è inondato; l'acqua arriva quasi all'altezza del bancone e dello schermo gigante. Costantino sta sul tetto aggrappato all'antenna. Garofaniello sta a cavallo della chiglia della piccola barca, che galleggia rovesciata accanto allo schermo. Galleggiano anche alcune sedie e la telecamera di Marta. L'ex voto sta ben saldo al suo posto. C'è molto vento, e le uniche luci sono quelle di una lampadina da cucina che penzola dal tetto sulla testa di Garofaniello, e quelle provenienti dallo schermo, che, a immagine fissa, proietta una inquadratura a tutto schermo dell'ex voto. Si ripete il tormentone dell'immagine che va e ritorna.
Voce dallo schermo: Siamo collegati in diretta telefonica con Pier Andrea Marcellini. Pier Andrea, Pier Andrea mi senti?… (Nebbia sullo schermo).
Garofaniello: Fermati adesso. Così va bene. No! Come prima. Come prima!
Immagine.
Voce di Marcellini: Quanto è accaduto oggi è davvero…
Garofaniello: Vuoi stare fermo lassù. Non riesco a seguire niente.
Immagine.
Voce di Marcellini: Insieme alla parete rocciosa che delimitava la grande baia di Santalba, se n'è andato anche il suo più grande portavoce: Alexis Papathanassious, che di Santalba, e della sua grecità era stato il cantore. (Nebbia sullo schermo).
Garofaniello: Ma insomma, devo venire io lassù?
Immagine.
Voce dallo schermo: Marcellini, Marcellini. Quante sono state le vittime finora accertate?… (Nebbia sullo schermo).
Garofaniello: Costantino sei un fesso!
Costantino: Podhosferistìs!
Immagine.
Voce di Marcellini: … È qui, accanto a me, Irene, la giovane compagna di Alexis Papathanassious, la vittima più illustre di questa sciagura imprevedibile e annunciata insieme. Irene, noi sappiamo che a te, Papathanassious, ha consegnato il suo testamento morale in una breve poesia che, solo qualche giorno fa, aveva scritto per te… (Nebbia sullo schermo).
Garofaniello: Milàte ghallika! Podhosferistìs.
Immagine.
VOCE DI DONNA: Ghallika, ghallika, milàte. Cioè, e sempre immenso svetterai sul mare come uno Strudel di roccia… (Nebbia sullo schermo).
Garofaniello: Podhosferistìs due volte.
Costantino: Podhosferistìs tu e tutta la tua genia.
Immagine.
Voce dallo schermo: E passiamo adesso a un rapido resoconto della giornata sportiva. Il mezzofondista cipriota Antioco Metaditis ha vinto la sua batteria qualificandosi per le… (Nebbia sullo schermo).
Garofaniello: Lo dicevo voi, lo dicevo, stasera ci becchiamo una medaglia senz'altro.
Si spengono tutte le luci. Il rumore delle onde del mare è fortissimo. Il faretto sulla telecamera di Marta si illumina sul pubblico. Sullo schermo cominciano ad apparire le facce degli spettatori.
DIECI
26.VI.1986 - giovedì, pomeriggio
Non capirò mai perché i titoli dei compiti d'esame debbano essere tanto stupidi. È logico che poi un ragazzino di quattordici anni sia obbligato a scrivere un mare di sciocchezze. Si chiede loro di sembrare cretini, e loro lo fanno diligentemente.
Questi che mi tocca correggere sono certamente i compiti più assurdi che abbiano mai scritto. Sono vuoti, pieni di compromessi, scritti con una retorica da piccola rivendita di generi alimentari. Nessuno di loro che abbia trovato il coraggio per confessare la gioia di abbandonare questa scuola. Tutti a scrivere che gli dispiace, che piangono all'idea di non ritrovarsi più coi cari vecchi professori.
Sono una cosa cretina gli esami.
Guarda questa: «sono contenta di aver avuto il professore Paride Pintus come insegnante, da lui ho imparato che cosa significhi avere il coraggio delle proprie azioni». Stronzetta, quasi quasi la boccio.
Dario Catania, in quanto decano dei professori della classe terza, funge da presidente. Dobbiamo ascoltarlo, dobbiamo accettare le sue indicazioni, dobbiamo apprezzare la sua esperienza ultra decennale.
- Dobbiamo essere giusti, obiettivi, e se sarà necessario, per il loro bene, trattenerli. Devono imparare che la vita non è tutta rose. Dobbiamo finirla con la licenza media regalata a chiunque. Che poi non sanno scrivere una domanda in carta da bollo.
Dalla sospensione di Tonino in qua, oggi è la prima volta che siamo obbligati a doverci parlare, ma cerchiamo ogni modo per evitarlo.
Tra un minuto cominceremo a esprimere giudizi, attestati di valore che una volta pronunciati verranno accreditati senza ulteriore appello. L'avvenire di diciotto ragazzi è legato alla nostra capacità di giudizio, al nostro umore, al disprezzo malcelato che Dario prova verso di me, all'indifferenza che ostento nei suoi confronti.
Il volto sorridente di ognuno dei miei alunni mi si affaccia alla mente, Dario li elenca in sequenza alfabetica. Ha saltato Tonino Carta. Lui è a Mureddu in questo momento, ospite dei miei genitori, ospite di quello stesso caseggiato dove io studiai da ragazzo.
«Atzeni è bravo. Giudizio: buono. Bilardi è bravissimo. Giudizio: distinto. Questa però no, questa è un'asina».
- Guardate che compito mi ha fatto. Questa dalla vita non ha capito niente. Promuoverla sarebbe un delitto.
Dario è certo di averci convinto, sorride a se stesso.
- Il suo compito d'italiano è nella sufficienza - dico. - E durante l'interrogazione ha dimostrato buone capacità.
La collega, di educazione musicale conferma il mio giudizio, anche l'insegnante di educazione fisica lo fa. Dario alza le spalle, per lui non conta il parere di quelle.
- Che senso avrebbe trattenerla in terza media? - chiedo.
- Come che senso avrebbe? Non è un gioco la scuola.
- Voglio dire, che cosa imparerebbe di più ripetendo l'anno, che cosa riusciremmo, noi, a insegnarle di più?
- Tu carissimo mio - grida Dario -, non riuscirai a insegnarle più niente. Tu non ci riuscirai.
Diventa paonazzo. È furioso. Si sforza di ricomporsi. Finge di aggiustarsi il nodo della cravatta, intanto ci scruta, ci osserva minaccioso.
- Volete promuoverla?, va bene, passatela pure. Certo poi non dovrà ringraziare me se non riuscirà mai a trovare un lavoro.
Ci accordiamo sul giudizio sufficiente.
- E perché non distinto, o ottimo? - sbotta il professor Dario Catania fuori di sé.
Trascorrono le ore, e provo molta vergogna a trovarmi a mercanteggiare giudizi e cercare compromessi perché sia riconosciuto ai ragazzi il loro diritto a imparare. Non è certo loro colpa se qualcuno di noi non conosce le basi di questo mestiere. Se qualcuno di noi era troppo occupato a inseguire se stesso per trovare il tempo per insegnare.
Mi dà molta pena riconoscere che il solo che esprima giudizi sereni sia quel sacerdote di cui nessuno si cura, perché lui darebbe “ottimo” a tutti.
Sono trascorse le ore, e abbiamo finito ormai. Qualcuno si affanna dietro verbali e registri. Dario fuma una sigaretta, mi si avvicina. Mi è stata comunicata la mia nuova sede di lavoro, un paesino a pochi chilometri da Mureddu. Questa sarà probabilmente l'ultima volta in cui avrò occasione di parlargli, di provare a fargli capire che non è contro di lui che ho aiutato Tonino. Mi si avvicina, vuole parlarmi. Gli sorrido, lo aspetto disarmato. Le spalle rivolte alla finestra, ai vetri che offrono l'immagine del mare di Santalba.
- Lo sai? - dice ad alta voce perché tutti lo sentano. - In fondo mi dispiace di non essere nato a Mureddu Maiore.
- Davvero? - gli chiedo ingenuamente.
- Sì, perché è a Mureddu Maiore che nascono i peggiori figli di puttana.
27.VI.1986 - venerdì, mattino
Ho pulito per bene tutta la casa. Svuotato cassetti e armadi. Riempito due valige. Sono pronto a ripartire. Questi poveri mobili per un anno hanno fatto parte della mia vita, e da domani, da stasera, ne usciranno per sempre.
Mi sento il peggiore dei miei alunni, scriverei un testo strappalacrime fino a riempire le quattro facciate di un protocollo. «Bilancio di un anno a Santalba. Bilancio di una vita».
Ecco la padrona di casa, le restituisco le chiavi, la rassicuro, ho lasciato tutto perfettamente in ordine. «Ho lasciato anche buona parte di me tra queste mura, signora».
È un giorno molto caldo oggi. Passeggerò lungo il porto. Camminerò per il lungomare di Santalba.
Ricominciare da capo.
- Salute!
- Vita!
Col vecchio pescatore, con questo paese dove non riuscirei più a vivere. Con Paola, con Marilena.
Il libro di Augusto uscirà presto, presso un editore legato all'università. Una bomba per i Santalbini. Nemmeno con Nando riesco più a parlare di loro. Ma ci vediamo sempre meno, sempre meno.
A quest'ora Tonino sarà già rientrato dalla sua vacanza esame. Ma non mi sento di parlargli. Di rivedere sua madre, di commuovermi insieme a lei.
Tra qualche ora un treno mi porterà lontanissimo da qui, scomparirò dalle loro vite. Dimenticheranno la mia voce, le mie manie.
Dentro di me, i loro volti, i loro nomi riaffioreranno confusamente, tra un biscotto e un bicchiere di vino consumati insieme a mio padre, mia madre, Caterina.
Ha bussato prestissimo alla mia porta stamani, la madre di Tonino.
- Promosso - ha detto tra le lacrime.
- È stato il mantello di Sant’Agostino - ha sussurrato abbracciandomi.
Alghero, a più riprese, autunno 1986, febbraio 1998