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Talianu

LINGUA E SUCETA: FALCUCCI

Falcucci : Un “caso” lungo cent’anni

Si può parlare di un caso Falcucci? Una domanda, questa, che ne implica di necessità un’altra: esiste vicenda di intellettuale che, per una ragione o per l’altra, non si sia costituita anche in caso? Gli intellettuali, si sa, fanno parlare anche quando di loro si è smesso da tempo di discutere. Non sempre, dietro l’iter solo apparentemente casuale di questo genere di cose, c’è ciò che si può chiamare premeditazione. D’altronde, spesso capita loro di scoprire di essere stati intellettuali, perché sono stati anche un caso. Se si chiude loro la porta in faccia, se li si vuole insomma cacciare via dallo spazio che con la loro opera hanno occupato, prima o poi – c’è da esserne sicuri – qualcuno gliela riaprirà. Saranno forse altri intellettuali che invocheranno tutte le attenuanti del “caso”, lamentando presunte molestie della memoria storica e le sospette omissioni di colleghi stranamente distratti da altri “casi”. Insomma, i casi e le controversie da risolvere non sono mai mancati nella storia del pensiero. Non per questo, però, vorremmo aprirne o inventarcene ora uno tutto nostro su Falcucci. Mentre solleviamo questa ed altre riserve sulla legittimità del nostro approccio alla figura e all’opera dello studioso córso, argomento di un nostro libro recentemente pubblicato(1), non possiamo non riconoscere che, volendo, gli estremi di un caso potrebbero facilmente trovarsi. Una volta aperto, il caso, sarebbe anche agevole archiviarlo, e lo sforzo compiuto potrebbe dare l’idea di tanta fatica sprecata. Che sia il lettore, però, a giudicare se, a proposito di Falcucci, la sua apertura sia da considerare del tutto vana.

La consistenza di un presunto “caso Falcucci” venne del resto subodorata da non pochi studiosi, subito dopo il 1915, anno della pubblicazione del Vocabolario della lingua, costumi e geografia della Corsica da parte della Società Storica Sarda. Trattandosi di un’opera postuma, di un’opera sulla quale l’autore non si sarebbe mai potuto pronunciare per confutare, correggere o assecondare le interpretazioni di studiosi e specialisti, gli ingredienti base per dirsi in presenza di un caso potevano esserci tutti. E, in parte, mantenendo fede alle premesse, dimostrarono di esserci. Nel 1915, l’“Archivio Storico Sardo”, volendo sottolineare “l’alto significato patriottico e insieme scientifico dell’Opera postuma del Falcucci”, pubblicò una rassegna di giudizi di autorevoli accademici(2). Il dialettologo Carlo Salvioni considerò il Vocabolario falcucciano opera non meno rilevante dell’Atlas linguistique de la Corse di Jules Louis Gilliéron e Edmond Edmont. Isidoro Del Lungo, accademico dei Lincei e uno dei più cari amici di Falcucci, reputò il Vocabolario un “pio ufficio non di preservazione soltanto ma e di rivendicazione”. Utile, insomma, per spezzare una lancia in favore della causa della filiazione italiana della Corsica. Perciò, secondo Del Lungo, chi legge il Vocabolario scoprirà, tra i dodicimila vocaboli catalogati dall’autore, un tributo all’italianità e a quel suo culto che “era a un tempo religione d’amore e di dolore”. Più esplicitamente e con toni nient’affatto concilianti, l’opera di “rivendicazione” caldeggiata da Del Lungo(3) venne messa a segno sulle pagine di “Athenaeum” da Lea Bastari(4), che, recensendo e incensando il Vocabolario di Falcucci, dichiarò come questo fece “apparire troppo affrettati tentativi di imbrancare la parlata côrsa nella provincia linguistica francese”. Il riferimento è al grande Atlante linguistico di Gilliéron e alla sua appendice dedicata alla Corsica, e, forse, più che ai risultati della sua monumentale opera, al metodo innovativo in quella impiegato. C’è quindi la contestazione metodologica, ma non manca nemmeno la sotterranea finalità politica: la “rivendicazione” alla quale accenna Del Lungo è infatti parola che può assumere un significato ben preciso se si tiene conto che quelli erano gli anni (e, più di tutti, il 1915) del sofferto passaggio dell’Italia dalla Triplice all’Intesa. L’intellighenzia italiana rifletteva le incertezze della classe politica e il grande travaglio di un parlamento incerto sulla opportunità della guerra, i possibili vantaggi che in caso di vittoria sarebbero stati procurati e, cosa ancor più importante, la posizione da assumere e lo schieramento al quale aderire.

Cogliere i possibili risvolti di una fantomatica macchinazione diplomatica nelle posizioni che gli specialisti italiani di linguistica presero sull’opera falcucciana sarebbe, tuttavia, uno sproposito. Eppure, non bisognerebbe sottovalutare l’incidenza che i fattori metaculturali possono avere sulle fortune degli intellettuali e sul corso delle loro idee. Abbiamo, ad esempio, sentito dire che la conoscenza di Falcucci nel continente francese sia piuttosto circoscritta e limitata al campo di pochi specialisti. Se vera, questa voce, che qui si accoglie con mille riserve e in via puramente ipotetica, dimostrerebbe che per i “profeti” non c’è spazio nemmeno nelle patrie degli altri. E cioè che la qualità di un “bene intellettuale” può venire a dipendere dalla certificazione politica che è in grado di esibire. Una scoperta, se si vuole, simile all’uovo di Colombo, da non scartare, comunque, malgrado la sua apparente ovvietà, se si vogliono capire le ragioni che così bene predisposero la classe intellettuale italiana verso il Vocabolario di Falcucci. Rimane, del resto, incontestabile il fatto che, dopo la sua pubblicazione, calato l’interesse per la novità editoriale, il Vocabolario non sia più riuscito a far parlare di sé come avrebbe invece meritato. E questo non accadde perché lo si considerò magari superato o sopravvalutato. Il Vocabolario è l’opera oggi più nota e apprezzata di Falcucci perché ha fotografato storicamente la situazione della lingua córsa negli ultimi decenni dell’Ottocento, salvandone la memoria e tentando una prima – questa sì perfettibile – analisi comparativa con le altre lingue(5). Ciò apparve chiaro sin dopo il 1915 e risulta tanto più incontestabile oggi.

Alla domanda se sia però oggi possibile, a distanza di tanti anni, parlare di un “caso Falcucci”, sentiamo di poter rispondere di credere almeno nella legittimità del quesito. Fatta eccezione per il Vocabolario, opera in grado di godere di una luce propria indipendentemente dall’autore che l’ha messa al mondo, di Falcucci e della restante totalità dei suoi scritti si conosce ben poco. Se “Mediterranea” non ne avesse riesumato la figura e se Ersilio Michel(6), suo principale biografo, non ne avesse analiticamente indagato il patriottismo militante, la memorialistica, i rapporti con l’intellettualità córso-toscana e gli scritti di pedagogia scolastica, aprendo quindi un primo o, se si preferisce, un secondo capitolo del caso, l’unica via di accesso al Falcucci poeta, traduttore, politologo, giornalista continuerebbe ad essere il Vocabolario. Una via ben battuta, ma, alla fine, stretta e riduttivamente parziale.

Per dare ulteriore credito alla consistenza del presunto caso, si può pensare alla rimozione che la cultura ufficiale, sempre a proposito di Falcucci, ha operato sin dai primi anni del secondo dopoguerra. Viene, infatti, da chiedersi se, alla fine, l’operazione culturale compiuta da “Mediterranea” si sia rivelata sconveniente, inopportuna, compromettente, perché associata strettamente al fascismo. Viene da chiederselo perché non è un mistero per nessuno che, con la caduta del fascismo e la chiusura, nel 1935, di “Mediterranea”, la rivista alla quale collaborarono Luigi Falchi, Filippo Addis, Antonio Taramelli, Raffaele Di Tucci ed Ersilio Michel, si sia poi eclissata come se niente fosse stato, malgrado gli oltre cento numeri della sua intensa attività editoriale. Se così fosse, assisteremmo oggi alla riapertura di un caso che non è mai stato veramente chiuso e che considerare tale può sembrare ancora eccessivo.

La nostra posizione è stata esposta in occasione del convegno di studi dedicato a Falcucci svoltosi nel settembre del 2002 in Sardegna. Lì, abbiamo fatto il punto e cercato di comprendere le ragioni delle modeste fortune dell’opera di Falcucci nell’isola che gli diede i natali, rinvenendone le cause nel peso di certi pregiudizi duri a morire. Nell’Ottocento, non costituiva una patente di eccezionalità il sentirsi e dichiararsi italiani di Corsica. L’italiano era ancora una delle lingue parlate nell’isola, e il francese, per soppiantarlo del tutto, avrebbe dovuto impiegare ancora del tempo. Falcucci, che conosceva bene il francese (tanto da tradurre le poesie di Hugo e concedersi mille altre licenze), scriveva in italiano. Sapeva di potersi rivolgere ad un pubblico sufficientemente vasto e di potersi far leggere in Corsica e nella Penisola. Sosteneva una tesi comune a tanti altri studiosi, poi ripresa e un po’ artificiosamente amplificata dalla cultura fascista sarda e nazionale: la tesi dell’italianità del córso e della contiguità linguistica tra diverse regioni dell’isola francese e l’Italia. Per Falcucci, questa non era una semplice ipotesi interpretativa, mai e poi mai avrebbe però sostenuto rivendicazioni di carattere politico sulla presunta appartenenza geografica e storica della Corsica all’Italia. Ciò malgrado, forzando non poco la mano, l’intellighenzia fascista (che pure ebbe il merito di scoprire l’opera falcucciana) fece dello studioso di Rogliano il campione di una causa che poneva equivocamente sullo stesso piano l’identità culturale e l’appartenenza politica della Corsica. Fu un’operazione che accreditò, nobilitandola, se non addirittura confondendola ad arte, la campagna fascista di una possibile rivendicazione della Corsica, sulla quale il regime e la classe politica sarda non facevano tanti misteri. Falcucci fu, perciò, lo strumento involontario di intenzioni che, in vita, non aveva mai fatto sue. Eppure, ciò che oggi tende ad ostacolare la diffusione della conoscenza di Falcucci in Corsica e nel continente francese è il retaggio di quel rapporto, sospetto e tutto unilaterale, tra l’intellettuale e l’immagine che di lui propose il fascismo. Così che se Falcucci non gode ancora oggi in Francia e in Corsica dei giusti e meritati riconoscimenti, ciò è dovuto, così ci pare, a “colpe” commesse da altri.

Il “caso” Falcucci non poteva, inoltre, non diventare anche una questione linguistica. Che dire, infatti, dell’inevitabile accostamento tra il presunto caso e la prepotente esplosione della questione della lingua sarda? La riscoperta di un Falcucci “integrale” può giovare (e quanto, c’è da chiedersi) alla causa di un sardo unificato? Potrebbe rilanciare le azioni del gallurese e delle altre lingue minoritarie cui non va a genio la codificazione linguistica, che, piacendo o no, sembra essere tuttavia in atto, se non forse in dirittura d’arrivo? Se le domande dovessero avere una qualche risonanza, Falcucci diventerebbe realmente un caso. C’è poi da dire che le stesse domande potrebbero porsi a proposito della tenuta delle “varietà” del córso o, come Pier Enea Guarnerio preferiva esprimersi, dei “linguaggi” della Corsica. Falcucci parlava di “dialetti” e non di “lingua”: questa sua scelta può essere ritenuta anche oggi giusta e conveniente?

Se di un caso realmente si deve parlare, la cassa della sua possibile risonanza dovrebbero essere gli specialisti, gli istituti di ricerca, le consulte(7), i dipartimenti universitari. La cultura ufficiale, insomma, e quanto gravita attorno al cosiddetto mondo accademico. Potrebbe bastare? Probabilmente no. Il nome di Falcucci, stando alle condizioni date, è legato alla vitalità del córso, al grado di resistenza che saprà opporre al francese, alla tenace tenuta della sua vocazione di lingua identitaria. Tra gli studiosi, il nome di Falcucci tornerà perciò utile ogniqualvolta si vorrà considerare la specialità del córso “come un tratto di pura toscanità arcaica conservata proprio dall’insularità, mentre nella penisola italiana il contatto delle lingue e le invasioni subite dagli Stati italiani intaccava l’originaria purezza di questo linguaggio”(8). Come dire che, se da una parte si è potuto pensare di “impiegare” il córso per rafforzare la tesi di un sardo (o di una delle sue “specialità”) che ha poche affinità con l’italiano, dall’altra, ripercorrendo le orme di Falcucci, ci si potrebbe richiamare al córso ottocentesco per suggerire la misura del grande travaglio che le varie entità linguistiche regionali hanno dovuto attraversare, prima di rendersi pienamente italiane. “Il dialetto córso, scriveva Falcucci nel 1875, è uno dei più puri fra quanti si parlano nella patria di Dante”(9). Per Jacques Thiers, sarebbe “il lavoro della astoricità della coscienza identitaria contemporanea ad evocare questo genere di italianità”(10). Vale a dire che quella combattuta più di cent’anni fa da Falcucci sarebbe oggi una battaglia persa in partenza e, comunque, scientificamente improponibile. Se è vero che Thiers, nel suo discorso, ha pensato più all’epilinguismo del córso “triglossico”(11) che a Falcucci, crediamo, ciò malgrado, che se il suo riferimento fosse stato esplicito e lo avesse sostenuto nei termini che abbiamo fatto nostri, dargli torto non sarebbe cosa affatto facile. Ancora una volta, pare di capire, la fortuna di Falcucci verrà a dipendere dalla sorte che accompagnerà la battaglia culturale alla quale il suo nome potrebbe venire associato, purché si superino vecchi pregiudizi e non si attribuiscano allo studioso di Rogliano intenzioni e finalità, più di natura politica che culturale, estranee alla sua opera. Un’opera, niente affatto datata e superata, che attende ancora oggi di essere letta nella sua integralità e valutata per quello che realmente è. Cento anni sono stati forse troppi, e, comunque, possono bastare.


(1) La pubblicazione del libro (Giuseppe Pulina, Le voci del desiderio doloroso dei Córsi e altri scritti di Francesco Domenico Falcucci, Sassari, Il Rosello, 2002) è stata chiaramente propiziata dal centenario della morte di Falcucci avvenuta a Laerru, piccolo comune della Sardegna settentrionale, nel settembre del 1902. A Laerru, proprio in occasione del centenario, si è anche svolto un convegno di studi che ha fatto luce sull’attualità e sui significati ideali dell’opera falcucciana.

(2) Cfr. Per il “Vocabolario Córso di Falcucci, “Archivio Storico Sardo”, vol. XI, 1915, pp. 215-224.

(3) Cfr. Isidoro Del Lungo, Notizie su Francesco Domenico Falcucci, corso, ed elogi del suo “Vocabolario”, pubblicato dalla Società storica sarda, “Rend. R. Accad. Lincei, vol. XXIV, 1915, fasc. 4°, Estr. Roma, tip. Acc. Lincei, 1915.

(4) Lea Bastari, Vocabolario Côrso, “Athenaeum”, III, fasc. III, luglio 1915.

(5) Estremamente chiaro è quello che in proposito ha scritto Pier Enea Guarnerio, curatore del Vocabolario falcucciano: “E tanto più prezioso è qui da ritenersi il patrimonio lessicale che l’Autore ha qui gelosamente raccolto, in quanto esso riflette le condizioni dei linguaggi côrsi nella seconda metà del secolo scorso. Da allora son passati oltre quarant’anni; nuove generazioni si sono succedute e con esse nuove tendenze e nuove abitudini sociali; i rapporti colla Toscana e con Livorno si sono allentati assai e la voce della coltura italiana è pressoché spenta nell’isola” (Esordio dell’editore, prefazione al Vocabolario dei dialetti, geografia e costumi della Corsica, Cagliari, Società Storica Sarda, 1915, p. XX).

(6) Tra gli studiosi che si sono dedicati alla figura e all’opera di Falcucci un merito particolare va riconosciuto a Ersilio Michel, scrittore, giornalista, collaboratore della rivista “Mediterranea”. Gran parte degli scritti della bibliografia critica su Falcucci portano la sua firma. Eccone alcuni: F. D. Falcucci patriota e cittadino livornese, in “Mediterranea”, anno IV, n. 6-7, giugno-luglio 1930, pp. 24-70; F. D. Falcucci e Angelica Palli Bartolomei, “Mediterranea”, cit., pp. 84-98; Bibliografia falcucciana, “Mediterranea”, cit., pp. 152-161; F. D. Falcucci e N. Tommaseo, in “Mediterranea”, anno V, n. 3, marzo 1931, pp. 28-36.

(7) Così si chiamano in Sardegna le associazioni culturali sorte per la tutela e la valorizzazione delle diverse varietà linguistiche: gallurese, anglonese, etc.

(8) Jacques Thiers, La costruzione dell’identità in Corsica, nel volume, a cura di Michele Pinna, L’Europa delle diversità. Identità e culture alle soglie del terzo millennio, Milano, FrancoAngeli, 1993, p. 71.

(9) Saggi illustrati dei dialetti corsi, Livorno, Tip. Vannini, 1875, in Giovanni Papanti, I parlari italiani in Certaldo, Livorno, 1875, pp. 571-603 (Bologna, Forni, 1972). Cfr. Studi linguistici, nella sezione antologica del nostro volume, Le voci del desiderio doloroso dei Córsi e altri scritti di Francesco Domenico Falcucci, pp. 53-95.

(10) J. Thiers, Op. cit., p. 72.

(11) “Triglossico” ovvero, secondo quanto ha voluto intendere Thiers, sempre più tendenzialmente “francesizzato” e non del tutto svincolato dai vecchi rapporti di consuetudine linguistica che lo legavano all’italiano.