Il fiume della vita.

Il fiume della vita.

 

Le automobili arrivavano. La piazza, piano piano, si anneriva di gente. Erano quasi le undici e lo scintillìo dell’insegna della discoteca buttava i suoi raggi coloriti. Scendevano dalle macchine con risate e schiamazzi e si chiamavano da lontano, ognuno riconosceva i suoi. Era così ogni sera in tempo di vacanze. La gioventù della città si riuniva lì e la festa durava fino al mattino. Erano notti di gioia, di whisky, di champagne, e di ballo fino all’alba.

In quel frattempo Francesco si preparava. Aveva indossato la giacca dell’abito di flanella scura, la sciarpa bianca sciolta al collo, il nodo a farfalla ben stretto, diede una lustrata all’anellone che portava al dito mignolo, e nel giro di due secondi guardò il diamante che luceva nel mezzo dell’anello. Sì, a Francesco non gli mancavano i soldi, la discoteca era piena ogni sera, le cameriere attiravano gli avventori della regione e cadevano i biglietti come se piovesse, senza parlare dei due o tre casinò che possedeva in continente francese e che gli assicuravano redditi superiori alle sue speranze.

Aveva detto così, Francesco, agli altri capi mafiosi:

« Qui c’è lavoro per tutti, e tutti possono vivere se rispettano le regole. C’è solo una cosa, droga in Corsica non ne voglio, e finché sarò qui non ce ne sarà! »

Gli altri avevano capito e non avevano provato a discutere. Erano gli americani che non la sentivano così, ed ogni volta avevano da dire.

Francesco scendeva quelle scale senza fretta, la macchina lo aspettava alla porta, non poteva vedere la moto, motore spento, con due uomini cavalcioni.

Quando si presentò al portone scoppiò la fucilata che lo fece cadere nel corridoio. Francesco ebbe il tempo di sentire:

« O.K. Bob, all right! »

Francesco sentiva che stava per venir meno, ma lo sapeva lui perché lo avevano ucciso.

 

 

Il mare era calmo, ondeggiavano le palme, il sole veniva ad accarezzare i corpi sdraiati sulla sabbia bianca. Era la stagione dell’ozio e delle vacanze. Dall’inizio dell’estate non passava giorno senza che Manuele venisse al mare per distendersi sulla spiaggia dell’Isolella, sotto al sole di agosto. Era lì che ritrovava i compagni, erano un bel gruppo, anneriti dal sole, con i capelli tagliati all’ultima moda, e tanti soldi da buttare, donne che gli stavano in giro, i giorni passavano...

La sera, al porto si ritrovavano maschi e femmine per godersi un gelato, erano risate e scherzi e dopo, sotto alle stelle aiaccine, la notte finiva nelle discoteche, lì a Porticcio o verso i Sanguinari.

D’estate la vita era bella, ma anche d’inverno perché Manuele aveva trovato quel piccolo lavoro in prefettura. Di certo non era lui il capufficio, ma il fatto di rispondere al telefono tutta la santa giornata, gli dava quel gusto dell’onore e della potenza che non gli dispiaceva affatto. Lo avevano dovuto far raccomandare i genitori, perché non entra chi vuole in prefettura, ma la politica può anche aiutare...

Così, la sera, quando era finito il lavoro, dopo aver preso un aperitivo cogli amici, all’ora della cena, Manuele rientrava in casa, la cena era pronta e bastava solo mangiare. È anche vero che aveva pensato a cercare un appartamentino, ma non avrebbe mai trovato miglior situazione, in casa c’era pane e coltello, i genitori, pensionati all’ottanta per cento e che aspettavano l’aggravamento, aiutavano quanto c’era bisogno. Aveva anche comprato una macchina di cilindrata potente perché, per risalire il corso Napoleone all’ora degli ingorghi, bisognava far bella figura.

Per dire che, a prima vista, Manuele aveva pochi pensieri. I genitori si occupavano di tutto, rispondevano alla minima preoccupazione e la mamma andava anche a comprargli i vestiti perché a Manuele non piaceva tanto fare e provare. Di certo la sera bisognava stare impali davanti alla televisione, perché per i genitori, la sera, la televisione era un ogetto sacro che non si doveva trascurare.

A volte avrebbe voluto parlare o raccontare, ma la risposta era:

« Stai zitto che non si sente niente ».

Quando rientrava dopo aver trascorso due orette al caffè, diceva àa sè stessa:

« Questa vita mi sta soffocando! »

Pensava che fosse la malinconia che viene la sera, al crepuscolo, e non ci faceva tanto caso.

 

Meno male che il sabato usciva. Era un amico che, quella sera, organizzava tutto a casa sua, i genitori sarebbero andati via. Quando arrivò, c’era già molta gente, musica e bevande. E come al solito cominciò a bere whisky su whisky perché la notte sarebbe stata lunga. E quando un giovanotto si avvicinò al banco sul quale stava impalato Manuele, cogli occhi annebbiati dai vapori d’alcol, si sentì consigliare:

« Assaggia un po’ questa roba e vedrai! Col whisky non c’è paragone! »

Il giovanotto gli porgeva una compressa bianca che sembrava aspirina. Solo per far conoscenza con qualcosa di più forte di quel liquidaccio che mandava giù durante tutta la notte, non fece tante storie e inghiottì in fretta quello che gli davano.

La notte che passò Manuele non l’avrebbe potuta neanche raccontare. La più bella della sua vita. Era un mondo magico, la musica era un incantesimo, le parole che sentiva erano pezzi d’antologia, l’amicizia era profonda, i sentimenti sinceri, un vero paradiso...

 

 

Erano passati due anni. Due anni per Manuele a far la spia all’angelo della morte che batteva le ali sul suo letto. Quando il corpo non ha più la volontà di sollevarsi, di muoversi, di allungare le membra spezzate dal veleno che scorre nel sangue, la mente è sconfitta, lo spirito chiede aiuto, ma le forze perniciose lo tengono fermo e disteso. E piano piano sparisce l’angelo della morte, e corre Manuele corre per cercare, all’angolo della via, il giovanotto che gli dà il veleno delle sue debolezze. E di raccontare tutto non vale la pena. Le corse nelle vie, il soffitto della camera buia sul quale nascono i ragni mostruosi, la calce dei muri con cammelli dai colori dell’arcobaleno. Ha abbandonato il lavoro, lasciato gli amici, non gli interessa più niente. Soltanto scappare, dimenticare la vita misera d’ogni giorno, prendere il volo per passare sopra le valli della vigliaccherìa, distendersi sulle nuvole dove non ci saranno più catene, legami, torture mentali. Che cosa vale questa vita, un lavoro senza speranza, tutto il giorno al caffè con gli amici che burlano, le loro risate sono soltanto smorfie. Ah, avere una stella per compagna che facesse vedere il cammino, una luce che desse voglia di andare avanti. Ma nient’ altro che il cielo fosco di novembre, le vie grondanti che giocano a tremare colle lanterne appese, il vento scatenato che spazza l’asfalto, si spolmona nei vicoli, sparge le foglie che, impazzite da tante corse nel vento, salgono e scendono e si fermano e ripartono. Manuele, dalla finestra le vedeva svolazzare per aria e pensava:

-  « Anche io sono come una foglia di novembre, dove andare, dove mettermi, non lo so, e siamo soltanto al principio dell’inverno ».

 

Quell’inverno era stato terribile. Erano scoppiati i temporali. Diluvii, ponti portati via dalle acque, case rovinate, gente sparita nella tempesta.

Manuele seguiva le notizie nei giornali. Si diceva che quelle catastrofi dovevano essere il risultato delle costruzioni umane che coprivano chilometri di pianura, colmavano i fossi, prosciugavano gli stagni, senza far caso al luogo, gli impresarii cercano il profitto. Dicevano anche che i furti erano stati numerosi, che gente giovane assaltava le banche, che avevano aggredito una vecchia e saccheggiato la sua casa per rubare le economie della sua vita, bastava prendere soldi subito e facilmente. Dicevano che il livello di vita degli abitanti si abbassava nell’isola ma che i prodotti di lusso vedevano crescere la loro vendita. Il culto della personalità produceva i suoi effetti, macchine nuove, vestiti dei sarti più famosi, gioielli carissimi, case che innalzavano la loro potenza su quella terra di sudore.

In mezzo a quel fumo, Manuele cercava le ragioni di sperare, correva tastoni alla ricerca d’un lumicino che gli avrebbe dato il coraggio di vivere, la forza di esistere. E in quella attualità non si riconosceva. Forse il proprio scacco era anche quello d’una società. In che modo resistere a quelle potenze, quelle della droga per lui ma anche quelle d’una vita superficiale che si imponeva a una comunità. E Manuele sentiva che c’era un legame stretto tra il proprio destino e quello dei suoi pari.

Correvano le nuvole sulle montagne della Falcunaghja, cadevano le cataratte nelle calanche della punta della Petra Mala. Il cielo non si voleva asciugare. Manuele prendeva di petto tutte le tempeste, le sue e quelle degli altri, e pensava:

- « Tornerà il sole nella mia vita? »

 

 

La madre aveva capito subito che Manuele era nelle brutte. Le bastava vedere quegli occhi stralunati, quel viso infocato quando rientrava la sera, nel cuore dell’inverno, aveva lei presentito qualcosa.

- Manuele, tesoro mio, se hai bisogno, gli disse la mamma una sera, chiedi pure, lo sai che siamo qui, babbo ed io!

- Quel che mi fa bisogno non me lo potete dare! Rispose acerbo Manuele.

- Ma chiedi lo stesso, figlio mio, nella vita non si sa mai, rispose la mamma colla voce colma di tenerezza.

- Ho bisogno di soldi, e in quantità!

- Che diavolo ne vuoi fare di tanti soldi, non hai tutto quello che ti fa comodo? Scoppiò la madre esasperata di scoprire fatti che la dominavano.

- Mi ci vogliono i soldi per andare a comprare quelle compresse che vende quel giovanotto all’angolo della via! mollò in una volta Manuele.

- Dio santo benedetto, lo sapevo, il Signore ci ha tolto le mani da sul capo, e quando ti vedevo arrivare, la sera, infocato come se tu avessi bevuto tutto il giorno, mi è venuto subito il dubbio che il nostro caro figliolo aveva abbandonato la strada dritta dei genitori.

Avrebbe voluto spiegare, Manuele, che non lo faceva per dispetto, che le forze dell’inferno lo avevano afferrato e che era arrivato il momento in cui la ragione non comandava più. Quel che aveva urlato tanto Manuele era come un ribollimento che saliva dal più profondo, che gli bruciava la carne, ma la sola via possibile che lo dominava da tanti anni. Diceva che era stufo dell’amore materno, che non era più un fanciullo, che non aveva immaginato la sua esistenza così, che nulla lo tratteneva in quella vita, che lui aveva perso la gioia di vivere, che si era lasciato cullare dalla morte e che ormai contava solo la droga che prendeva ogni giorno.

Quanto tempo era stato così ad urlare, Manuele non se lo ricordava più, ma quando gli scoppi di voce si furono calmati, che il nervoso aveva cominciato ad acchetarsi e lo spirito a schiarirsi, allora si è accorto che la mamma si era seduta su una sedia della cucina e piangeva in silenzio.

In quel momento, Manuele sentì soltanto quelle parole:

- Non far scandalo, figlio mio, ti darò i soldi che ti fanno bisogno!

Quella sera Manuele uscì e stette fuori tutta la notte.

 

 

Aveva preso la strada della sua infanzia, Manuele, l’unica via possibile quella sera. L’automobile che lo portava saliva piano piano. Riconosceva ogni curva, ogni fosso, ogni pianta, ogni pietra. Gli venivano in mente le vampate inzuccherate di un passato che aveva creduto cancellato.

Manuele si ricordava l’epoca in cui stavano al paese. Non era nostalgia, nemmeno rimpianto amaro, era un pezzo della propria vita in cui aveva conosciuto la pace serena. In quel tempo pensava che dovesse durare così. Che le cose sarebbero sempre state vere e sode come la suola del vecchio calzolaio cui rendeva visita, la sera, quando usciva dalla scuola. Per rientrare a casa passava vicino al banco di Zì Ceccu e non mancava mai di fermarsi. Si sedeva in un angolo e guardava il lavoro a gesti misurati del calzolaio. Gli sembrava che fossero cose di prima importanza che nessuno e niente venivano a disturbare. Quando abbuiava, se ne tornava a casa piano piano, c’era sempre qualche vicino che raccontava un fatto accaduto al paese durante il giorno. Erano notizie brutte o buone, ma erano sempre vere. Non ne dubitava mai.

In tempo di caccia o di pesca, Manuele partiva col babbo all’alba. Gli piacevano quelle mattine fresche quando vedeva spuntare il sole lì dietro la montagna. All’ora di partire faceva sempre buio e i primi raggi li raggiungevano a metà strada sotto ai castagni, molto più sopra del paese. Di quelle salite verso la casuccia dei Pastriccioli Manuele teneva un ricordo forte, gli sembrava che comunicasse con la natura in quei posti. Gli venivano in mente quegli spuntini col babbo che gli raccontava la montagna, i varchi, i fatti avvenuti da quelle parti. E quello che gli piaceva soprattutto era il babbo che parlava con lui come ad un uomo. E gli si rallegrava il cuore.

Sfilavano le curve, i fanali della macchina oscillavano sulla destra e sulla sinistra della strada. Giù in fondo si vedevano le luci del paese perso nella notte. Come quei lumicini della sera del Venerdì Santo quando Manuele usciva in processione. Il silenzio era zeppo e si sentiva soltanto il rumore delle scarpe ferrate nelle vie lastricate. Risentiva quel legame stretto tra una comunità anziana e giovane che avanzava ansante dietro ad una croce nella notte buia schiarita solo da qualche lumicino, e ne tastava il mistero.

Manuele scopriva le ultime curve, lassù si vedevano le prime case che s’innalzavano come fantasmi nella notte fitta. Si ricordava la festa padronale quando uscivano dalla chiesa vestiti di fresco, l’allegria dei piccoli e dei grandi, i pranzi in cui scoppiavano risate e schiamazzi, c’era sempre invitato un forestiero, qualche parente venuto per l’occasione. La mamma non mancava mai, dopo la cerimonia, di chiamare l’uno o l’altro per condividere la colazione. Anche se piccolo, Manuele vedeva la mamma che passava dalla cucina alla sala da pranzo per portare i piatti sul tavolo, il padre che tratteneva le risate e che chiacchierava cogli invitati; quando Manuele paragonava la vita piena della sua infanzia con quella di adesso, gli sembrava di non avere più ragioni di vivere. Il potere di creare, di dare un senso alla propria vita si era cancellato da quando era cresciuto, da quando la sua esistenza aveva preso un’altra strada. Manuele aveva perso il gusto del mistero, le relazioni con i genitori si erano distese e non aveva più cogli amici quei momenti veri in cui si può condividere l’amicizia profonda.

Sulla piazza non si vedeva nessuno, si sentiva solo la bufera che faceva tremare le finestre chiuse e gli spruzzi dell’acqua che venivano a schiacciarsi sulle facciate deserte. Pigliò per le vie del paese per ritrovare i posti amati, la piccola scuola ormai chiusa, il vecchio banco del calzolaio abbandonato, metteva i suoi passi nei passi del bambino che era stato una volta, e cogli occhi accarezzava quel luogo... e li vedeva tutti i paesani della sua infanzia, sbattevano le finestre, spalancavano le porte, si sentivano le voci della gente, si affacciavano e lo chiamavano da lontano. L’acqua gli scolava sulla faccia e veniva a mischiarsi colle lacrime amare d’un passato ormai perso.

Manuele sentiva un rumore, aldilà del paese. Quel rumore lo chiamava da lontano...

Si era avviato sulla strada del fiume, era il fiume della sua infanzia, dei giuochi dell’estate, delle pescate col babbo, l’acqua d’una vita amata. Camminava a tastoni in mezzo alla macchia, riconosceva le pietre, le scorciatoie. Quando arrivò in riva al fiume, l’acqua scatenata buttava la sua schiuma all’intorno in un frastuono spaventoso.

Manuele era giunto alla fine della sua strada... Guardava l’acqua che si buttava nel rigurgito nero del lago senza fondo. Si chinò in avanti e si riprese subito, sarebbe stato troppo facile lasciarsi cullare dall’acqua come dalla droga, eppoi Manuele aveva ritrovato il gusto dell’amore dei luoghi per troppo tempo abbandonati. Sarebbe stato lì, in quei posti che avrebbe potuto di nuovo dare un senso alla sua vita, ed era dovuto venire proprio lì, in riva a quel fiume, per capire che la sua vita doveva essere in quel posto, lontano dalla droga, da una vita superficiale, dal luccichìo finto della città...

Si era sdraiato in mezzo all’erba, l’acqua gli schiaffettava la faccia, scolavano le lacrime ma non erano amare, erano quelle della vita, della vita nuova...