Versione :

L’identità della pace

      *si veca ancu a versione in corsu da G.Benigni

L’identità di un popolo è l’insieme delle caratteristiche culturali e delle tradizioni che un popolo avverte come proprie, tutto ciò che contraddistingue la sua storia e la sua vita su un determinato territorio. Tradizioni e caratteristiche che hanno l’impronta millenaria della cultura rurale che neppure la graduale liquidazione economico-sociale subita nelle varie fasi della rivoluzione industriale è riuscita a cancellare.

       Non è, dunque, la Storia con la “S” maiuscola a determinare l’ identità di un popolo e neppure il processo storico di formazione delle élites di potere, ma piuttosto il perdurare tra la gente, nonostante l’azione coercitiva da esse esercitata, di relazioni sociali che si rifanno al sistema del cosiddetto “comunitarismo” tribale. Le identità “politiche” imposte dall’alto, nonostante il controllo dei vari apparati di potere, sono sempre rimaste epidermiche sul corpus sociale popolare, come “maschere” indossate per mera necessità, ma mai pienamente condivise. D’altro canto, l’identità arcaica comunitaria ha continuato a riemergere fino ai giorni nostri nella vita delle campagne, sia informalmente nell’intimo delle relazioni paesane, sia formalmente nella traslazione di riti e di comportamenti sociali comunitari nella liturgia e nella vita organizzata delle chiese cristiane, in particolare di quella cattolica (si pensi alle processioni e alle confraternite).
      Fu la rivoluzione borghese nelle campagne ad intaccare per prima il senso di appartenenza alla comunità di villaggio, sottraendo ai paesani l’elemento fisico indispensabile per riconoscersi in essa rappresentato dalle terre comuni, le cosiddette “comunaglie”. L’introduzione del sistema territoriale dei “campi chiusi” e la costituzione della grande proprietà agricola borghese mutò il ruolo sociale di contadini e di pastori, costringendoli a diventare “concessionari” a vario titolo di terre un tempo comuni che ora avevano un padrone con dei diritti sanciti da un atto di proprietà legalmente riconosciuto. Fu quanto avvenne, sebbene a distanza di due secoli, con la stessa dinamica - l’appropriazione indebita mediante l’uso della forza e della contraffazione giuridica - nelle campagne inglesi con gli enclosure acts del ’600 e nel Regno di Sardegna con la legge sulle “chiudende” del 1823 che consentì la distruzione del patrimonio boschivo comunitario della Sardegna al fine di alimentare le numerose ferriere “coloniali” sorte sull’isola.
    La rivoluzione borghese nelle campagne fu il presupposto della rivoluzione industriale. Privato dei suoi diritti secolari, espulso gradualmente anche da quel processo di riconversione sociale come salariato o colono alle dipendenze del padrone borghese, il contadino-pastore delle comunità di villaggio è costretto ad emigrare verso i nuovi centri di produzione industriale, ad accettare un lavoro ripetitivo e disumanizzante e ad integrarsi nelle realtà sociali che scaturiscono dalla vita di fabbrica; realtà che non hanno alcun elemento di identificazione fisica territoriale, ma sono soltanto forme di difesa dallo sfruttamento del lavoro coatto. Ma, nonostante questo processo traumatico di deculturazione, nell’immaginario del proletariato industriale dell’800 e, in parte, anche del ’900 permane tuttavia un rapporto di identità con la terra, sebbene ormai vagheggiato solo nostalgicamente. Finché esplode il consumismo e allora si lacera anche quel brandello di cordone ombelicale con la terra che sopravviveva nell’immaginario collettivo, e viene sostituito da una identità fittizia, basata sul possesso della merce e sullo status che essa conferisce e soggetta, pertanto, a una coazione a ripetere del consumo per essere rifondata continuamente: se cambia la merce, cambia anche l’identità, che diventa così “ballerina”, priva di punti di riferimento inalienabili.


      1) L’identità è dunque inscindibile dalla terra e senza terra non può esserci identità.
Terra intesa sia come luogo fisico che come luogo simbolico, una sorta di paese dell’anima legato alla memoria collettiva. Ma terra sempre vissuta, percorsa con le greggi o rivoltata con gli aratri: senza questo contatto costante, di piede che calpesta il suolo, la terra è solo un’idea, che per quanto sia forte è vana.
Ed è proprio nell’incontro tra terra e lavoro che l’uomo acquisisce un’identità e diventa tutt’uno con la terra: non un demiurgo che la modella, ma un principio attivo che la pervade in un processo di generazione permanente. Il contadino e il pastore non lavorano la terra o sulla terra, ma sono la terra: ogni gesto e ogni azione che compiono s’imprime contemporaneamente su di loro e su di essa e li trasforma come in un rito di consustanziazione: la terra è dunque un principio materiale e spirituale, è madre/padre e spirito, e l’uomo è il figlio che condivide con essa, con loro, il ciclo dell’eterno ritorno secondo l’etica arcana del sacrificio. Senza questa percezione sacrale della terra, senza quest’idea di un’anima che la sottende, si può avere con essa solo una relazione di possesso, non un’identificazione sostanziale.
      Ma il possesso di per se stesso è effimero, una semplice categoria economica che dipende dal mercato: vale finché rende, altrimenti diventa solo un peso. Il possesso è quello che ci fa abbandonare la terra quando ci convinciamo che sia matrigna. Se, però, anziché sentirci padroni, ci sentiamo semplicemente custodi di quel bene che ci hanno lasciato gli avi, allora nessuna considerazione economica potrà mai prendere il sopravvento e sradicare la nostra identità.
E’ il cittadino borghese della città medievale che comincia a vedere la terra come limes, confine, un luogo altro e ostile da dominare e da sfruttare in funzione della prosperità intra moenia. Per lui la terra è solo merce e l’acquista e la vende a seconda del maggiore o minore interesse. Questa o quella è dunque lo stesso, purché renda. E finché rende coltivarla, la fa lavorare, con rapporti diversi con chi presta l’opera (bracciante, colono o mezzadro), ma se sopravviene un interesse più redditizio, non ha nessuno scrupolo ad alienarla. Del resto per lui non esiste alcuna radice simbolica: l’unico suo fondamento è il denaro e il modo migliore per moltiplicarlo. E se il postulato dell’economia contemporanea è il consumo, quello della proprietà della terra, quando è intesa come nuda proprietà, è la sua trasformazione da terreno agricolo a lotto edificabile. E così la città, l’urbanesimo, si mangia la campagna e suoli dei più fertili si coprono di cemento.
      2) L’identità è lavoro.
C’è maggiore identità tra un contadino o un pastore africano e un contadino o un pastore europeo che non tra loro e un borghese di qualsiasi paese esso sia. E’ il lavoro che avvicina gli uomini, che consente loro di confrontarsi sulla base del loro patrimonio di esperienze comuni. Se si parla di greggi, di mandrie o di colture, la comunicazione tra contadini o pastori di diversi luoghi del mondo nasce spontanea in quanto scaturisce da storie millenarie parallele, diverse solo per quel che riguarda l’ambiente dove si sono svolte o per il livello di evoluzione. Gli stessi gesti eseguiti a migliaia di chilometri di distanza, ma con le stesse tecniche più o meno modernizzate. Del resto ovunque il latte non diventa formaggio senza il caglio e il seme non cresce se non è accudito e sufficientemente concimato. Se poi si approfondisce la reciproca conoscenza, si scopre di usare attrezzi concepiti nello stesso modo o addirittura denominati nello stesso modo pur appartenendo ad aree linguistiche diverse. Ma anche la fatica è la stessa, continua, senza interruzioni, sempre con gli occhi rivolti al cielo per scrutarne i possibili mutamenti meteorici.
    Ecco allora che l’immigrato che arriva da altri continenti ci appare sotto tutta un’altra veste, non un barbaro invasore, ma un portatore di cultura fondamentalmente simile alla nostra, anzi, spesso ancora depositario di elementi identitari della cultura agropastorale da noi irrimediabilmente perduti. È un luogo comune sentir dire in occidente che le civiltà del cosiddetto “sud del mondo” non hanno cultura del lavoro, che certe etnie (molti usano ancora “razze”) sono naturalmente pigre e refrattarie alla fatica. Ci si dimentica troppo facilmente, per presupponenza e per ignoranza, che sono innumerevoli nella storia dell’umanità gli esempi di eccellenza e di avanguardia nel lavoro forniti dai popoli oggi ritenuti arretrati: che l’Andalusia era un giardino quando gli Arabi – prima che Ferdinando e Isabella li cacciassero con un famigerato editto - la irrigavano capillarmente mettendo a frutto la loro esperienza difficile in zone povere d’acqua; che le risaie di certe zone montane della Cina, oltre ad essere uno spettacolo paesaggistico, sono un capolavoro di ingegneria idraulica realizzato secoli addietro senza l’ausilio delle macchine; che gli Incas costruivano città che compendiavano armonicamente nella loro pianta urbanesimo e agricoltura, mentre da noi iniziava l’urbanesimo puro che ci ha portato al “delirio” delle megalopoli e delle conurbazioni; che l’agricoltura europea contemporanea non esisterebbe, se altri popoli, in continenti lontani, non avessero selezionato varietà vegetali che oggi, in seguito alle varie conquistas, arricchiscono di sapori, di vitamine e di proteine le nostre mense.
Spesso ci si lamenta che questi nuovi migranti vengono qui da noi, ma non vogliono fare i lavori che hanno lasciato nei loro paesi. Ma perché, i nostri migranti andavano negli altri paesi europei, in America o in Australia per fare lo stesso lavoro dei padri? Oppure fuggivano quel lavoro, che in molti casi era un lavoro da schiavi (mio zio mi dice sempre: - Chi non ha provato a fare il manente, il mezzadro, non sa che cosa vuol dire l’umiliazione), anch’essi attratti dallo “specchietto per le allodole” ambivalente della civiltà industriale? Per uno di loro che ha fatto fortuna, quanti sono stati inghiottiti nel gorgo buio della Storia?
Certo che, se a loro offriamo, per fare il lavoro dei padri, le stesse condizioni di sfruttamento e di povertà che hanno vissuto nei paesi d’origine, è logico che molti di loro preferiscano addirittura delinquere piuttosto che accettare il fallimento del loro sogno disperato.


      3) L’identità è memoria.
Un popolo, se non ha memoria, è destinato a scomparire. E non c’entra in tutto questo la contaminazione, proprio in seguito al fenomeno migratorio, di presunti elementi fisici o, addirittura, genetici che qualcuno vorrebbe evocare, ma semplicemente il fatto che un popolo che non conosce la storia dei propri antenati e delle proprie tradizioni deve necessariamente appoggiarsi a quella di qualcun altro per avere quei riferimenti, quelle certezze, di cui sia l’identità individuale che quella collettiva hanno assolutamente bisogno. Se si decultura o viene deculturato, un popolo deve necessariamente acculturarsi o essere acculturato.
Ecco allora che la conservazione, il recupero e la pratica della memoria diventano fondamentali per continuare ad avere un’identità di popolo e l’eventuale “vacanza” di queste espressioni collettive può trasformarsi in una cesura irrimediabile. Perché la memoria non è qualcosa che puoi lasciare momentaneamente in un canto e poi riprendere quando ti pare per nostalgia, per interesse o per folklore. La memoria è un percorso ininterrotto, vissuto più o meno intensamente, ma ininterrotto. La memoria è la pratica di un’esperienza secolare, non una messa in scena teatrale.
     In un paesino delle nostre Alpi, Bellino, in Val Varaita, si rievoca da qualche anno uno straordinario rito di Carnevale, una vera e propria pantomima collettiva che si sviluppa attraverso le varie borgate che lo compongono. Peccato, però, che questa rappresentazione venga fatta da gente, magari sì originaria del luogo, ma che viene appositamente dalle città dove è emigrata e che nel paese vivano oggi stabilmente poche decine di persone, per lo più anziane. L’encomiabile recupero di un pezzo di cultura di quel luogo non ha prodotto finora un solo ritorno stabile nel paese per cui è presumibile che ben presto quella memoria rituale divenga completamente priva di radici e perda anche il suo valore simbolico.
La memoria è la consapevolezza che, se nessuno rifà il gesto dei padri, pur con tutti gli aggiornamenti tecnici della contemporaneità ovviamente, quel bagaglio di conoscenze, di immaginario, di pratiche sociali e di lavoro diventa effimero e si perde nel giro di poche generazioni.
      4) L’identità è immaginario.
L’immaginario dei popoli è legato essenzialmente alle esperienze che essi vivono nella loro storia e ai luoghi dove queste si svolgono.
C’è un substrato comune nell’immaginario dei popoli, dovuto all’identità del processo evolutivo della nostra specie. Se si analizzano i miti, cioè l’immaginario più antico, dei vari popoli delle diverse aree geografiche della Terra, si ritrova in essi pressoché la stessa struttura narrativa legata al bisogno di ogni popolo di darsi una spiegazione di fenomeni al momento incomprensibili. Fenomeni fondamentali per l’immaginario dei singoli e dei gruppi, che vanno dal regolare avvicendarsi del dì e della notte o delle stagioni alla memoria di eventi eccezionali e spesso catastrofici. E sia nei primi che nei secondi c’è la percezione esistenziale che la realtà sia frutto di un conflitto permanente tra due forze, il bene e il male, che cercano di prevalere l’una sull’altra. E’ questo il problema cardine che ogni aggregazione umana, fin dai primordi, si è trovata ad affrontare. Ecco allora nascere presso ogni cultura il bisogno di giustificare la vita contro la morte con “l’invenzione” di divinità che le rappresentano e di soluzioni soteriologiche che esorcizzano la paura della propria fine materiale. E assieme a queste divinità tutta una serie di esseri a metà strada tra gli dei e gli uomini che facilitano o complicano la risoluzione del problema (angeli, diavoli, ninfe, jin, elfi, ecc.).
Ciò che cambia in questi miti non sono dunque i temi né le modalità di racconto, ma soltanto gli elementi geografici e ambientali propri dei luoghi dove tali miti vengono elaborati. Potremmo dunque dire, come sostengono gli etnologi e i genetisti per quel che riguarda i diversi caratteri fisici tra gruppi di uomini, che ciò che muta è la forma, il fenotipo adattatosi all’ambiente, ma non la sostanza, il genotipo che ci accomuna e ci differenzia indipendentemente dall’ambiente.


     Ma il mito è solo il primo nucleo della cultura di un popolo, che poi si arricchisce, man mano che procede la sua storia, di altre espressioni dell’immaginario legate indissolubilmente alle esperienze che tale popolo fa. E se è vero che tra queste ce ne sono di quelle assolutamente specifiche, originali, che solo esso fa, è anche vero che le società agropastorali hanno una similarità strutturale ed evolutiva che rende molte di queste esperienze somiglianti se non addirittura identiche.
La trasmissione orale di racconti fantastici o di vita e di saperi è tipica di tutte queste società ed è favorita dalla loro struttura sociale. Nella comunità tribale il singolo vive buona parte della sua vita compiendo riti collettivi, che siano essi magico-religiosi (danze rituali, sacrifici di animali totemici) o di pratica di sopravvivenza (caccia e raccolta di frutti spontanei; successivamente utilizzo comune delle terre per l’agricoltura e la pastorizia). Ed è durante questi riti, fortemente liberatori per l’eccitazione prodotta dal battere ritmico dei tamburi e dalla danza o, talora, indotta dall’uso di sostanze allucinogene, attorno al fuoco tribale che nasce la fabulistica come interpretazione e riproposta della vita sempre in base al principio di contrapposizione bene-male. E’ con essa che l’uomo tenta di correggere la realtà, sempre più avversa, man mano che si consolidano i poteri monocratici, facendo trionfare il bene, con l’ausilio di mezzi e di aiutanti magici, laddove normalmente e spietatamente trionfa il male.
Ma questo processo fabulatorio trova riscontro presso tutti i popoli e anche in esso la struttura del racconto è identica, ciò che cambia è soltanto l’ambiente e la specificità che ne deriva. Un bell’esempio è rappresentato, nel Mediterraneo, dal cosiddetto “ciclo dello sciocco” che accomuna la fabulistica dei paesi che si affacciano sulle diverse sponde di questo mare. Si tratta di un personaggio che incontriamo un po’ dovunque in questi paesi con nomi simili o completamente diversi: Abu Nuwas in Siria e in Iraq, Giochà in Israele e presso gli Ebrei della diaspora, Nasredin Hagia in Turchia, Giucà presso le comunità albanesi in Italia, Giuha nei paesi del Maghreb, Giufà in Sicilia, Giocà o Giovannino in Toscana, Giuanin in Liguria e nel basso Piemonte. E non è un personaggio unico e sempre uguale: il suo mondo è quello della comunità di villaggio e al suo interno egli è, di volta in volta, contadino, giudice, medico o addirittura ladro. Ma sempre s’impone per la sua saggezza arguta di persona semplice, che gli consente di evidenziare con sano realismo pregi e difetti degli uomini.
Se si leggono le fiabe che lo vedono protagonista nei vari paesi, si scoprono identità sorprendenti, dove a variare sono davvero solo gli elementi ambientali; a testimonianza di culture fondamentalmente identiche in quanto frutto dello stesso substrato socioeconomico agropastorale, ma anche di scambi commerciali e culturali proficui nel corso dei secoli, al di là di qualsiasi barriera etnica, politica o religiosa.
           5) L’identità di un luogo è la lingua che parla la gente che lo popola.
Essa, infatti, conserva integralmente la memoria sociale ed economica che ha caratterizzato nel tempo la vita della comunità e, se comincia a venir meno, significa che sono in atto in quella stessa vita mutazioni consistenti, addirittura epocali. È il caso, in Italia, dei dialetti che, fino alla metà del secolo scorso, hanno avuto un valore d’uso precipuo nella comunicazione comunitaria, ma che, con il boom economico degli anni ’60, hanno perso, proprio per l’assenza di un codice adeguato al mutamento economico in atto, il ruolo di lingua principale nella comunicazione e nell’immaginario di molte comunità locali. E così, come è stata spazzata via nel giro di qualche decennio una civiltà contadina millenaria, allo stesso modo è diventato inutile un patrimonio di termini e di espressioni che a essa erano intimamente legati. Perché la lingua non ha un valore ipostatico, ma necessariamente d’uso, e il non poter utilizzarla nella sua piena estensione storica la impoverisce fino a farla perdere.
    Quando si parla di lingua si tende a stabilire una netta differenziazione tra le lingue dominanti, depositarie di una tradizione colta “costruita” nei secoli dai letterati e dalle accademie, e quelle subalterne, rappresentate dalle varianti popolari locali di quella stessa lingua (i dialetti) o da lingue assolutamente altre parlate da popoli sottomessi. Le prime vengono codificate in codici scritti che “perdono” o “acquisiscono” termini ed espressioni nel susseguirsi degli eventi storici, le altre si fossilizzano come lingue della subalternità, per lo più rurale, resistendo “clandestine” e tramandate oralmente. Lingue di emarginazione, considerate alla stregua di un sottoprodotto culturale, l’espressione agonizzante di un’arcaicità in via di estinzione. Condannate a sparire sia perché prive di qualità linguistico-formali di livello, sia perché strutturalmente incapaci di accogliere linguisticamente il nuovo.
     Eppure, se si condivide l’assunto che il linguaggio figurato della poesia è l’espressione formale più raffinata della comunicazione linguistica, tutto ciò ci appare pretestuoso e per nulla corrispondente a un giudizio di valore concreto e obiettivo. Le lingue locali, infatti, si basano essenzialmente sull’uso metaforico del linguaggio e le varie “figure retoriche” proprie della poesia vengono comunemente utilizzate dai parlanti vernacolari nella comunicazione ordinaria e quotidiana, indipendentemente dal loro livello di cultura. Questo è il frutto dell’oralità secolare, di un graduale sedimentarsi di espressioni automatiche attinte dalla vivacità delle discussioni popolari (si pensi alla consuetudine dei contrasti e dei rimbrotti) e dalla straordinaria coscienza-conoscenza naturistica della ruralità di massa. Ne derivano parlate fortemente sintetiche, immaginifiche, evocatrici, irripetibili da parte di una ricerca letteraria nella lingua colta che lavora in modo indiretto essenzialmente su delle “ombre”. Parlate che se non avessero subito una costante delegittimazione e demonizzazione (“Impediscono l’acquisizione corretta della lingua colta”) da parte dei governi centrali, convinti che l’omologazione linguistica fosse il collante indispensabile di uno spirito nazionale, potrebbero ancora oggi raccontare il mondo contemporaneo con efficacia e originalità.
    Ma la lingua non è solo codificazione di un codice linguistico comune ai fini della comunicazione interindividuale nei suoi vari aspetti sociali, economici e culturali. Essa è anche memoria dei territori, contrassegnati con nomi, i cosiddetti “toponimi”, che ne raccontano la storia nelle sue diverse sfaccettature. Nomi spesso affascinanti nella loro formulazione, testimoni di un immaginario vivido e fantasioso, talora puramente logici, altre volte arditamente metaforici o addirittura oscuri e indecifrabili per gli stessi informatori. Sempre, comunque, riferiti a un’identità capillare, a un microcosmo conosciuto e frequentato assiduamente che, se presentava luoghi di denominazione condivisa, veri e propri punti fissi di un territorio, ne aveva in serbo anche un’infinità di altri che avevano la loro identità in un ambito più strettamente familiare e facevano quindi parte di un codice esclusivo, quasi intimo. Nomi che ci possono aiutare nella “ricostruzione” della lingua locale, perché “portatori” di termini altrimenti dimenticati e perduti, troppo lontani ormai anche dalla memoria dei più anziani informatori. C’è dunque un legame indissolubile tra lingua e territorio e pensare di salvare una lingua mentre un territorio sta perdendo tutte le sue peculiarità culturali e ambientali è un capriccio narcisistico di valore assolutamente nostalgico.

                                                                                                                                                                                                                                             
     6) L’identità è comunità.
L’identità individuale, legata alle proprie particolarità psicofisiche, nasce da un rapporto costante tra di esse e il mondo che ci circonda. Essa, per poter esprimere le sue potenzialità, ma anche per difendersi dalle angosce della solitudine esistenziale, ha bisogno di agire nell’ambito di un’identità collettiva, cioè nell’ambiente umano di una comunità.
La comunità è un’entità fisica formata da tante identità individuali che portano in essa la loro diversità e la mettono in gioco dialetticamente con le altre. Il risultato di questo confronto è la fondazione progressiva di un’identità collettiva, la comunità per l’appunto, nella quale tutti i partecipanti si riconoscono e che, pertanto, diventa regola non scritta di convivenza e “cemento” del gruppo.
    La comunità non è, dunque, un’entità statuale basata su regole scritte e su autorità imposte, nominate o elette. Le sue regole, il patto su cui si fonda, non sono il prodotto di un organismo legislativo istituzionale, ma risalgono a pratiche di vita civile selezionate, consolidate e tramandate nel tempo come quelle più atte a preservare il gruppo dai pericoli interni e esterni. Regole non scritte, ma non per questo meno inderogabili, che vengono interiorizzate dai membri del gruppo tramite l’educazione familiare e gli eventi collettivi che caratterizzano la vita della comunità. Principi egualitari, di stampo tribale, che muovono il gruppo come una sola famiglia, nell’applicazione dei quali hanno voce in capitolo soprattutto gli anziani, i depositari della tradizione. Ruolo che non compete loro solo per ragioni anagrafiche, ma in quanto, per l’esperienza, per la conoscenza e per il senso di responsabilità che hanno maturato, sono effettivamente in grado di valutare quali siano le scelte migliori da fare per il bene della comunità.
     Questo avviene anche quando le società si strutturano diversamente, quando le comunità non si autogovernano più secondo quei principi non scritti, ma devono subire il dominio coattivo di forze estranee al gruppo e alla sua tradizione o anche interne (qualcuno della comunità che si fa autocrate rinnegandone i principi) che impongono forme di organizzazione sociale diverse, stratificate, tendenti a dividere le popolazioni in stati o classi in base a criteri di potere politici, religiosi ed economici. Anche in queste situazioni di oppressione le comunità sopravvivono, silenziose, informali, sofferenti. Subiscono quando non possono reagire, ma continuano a mantenere la loro rete di contatti, a promuovere le pratiche solidali che ne sono il fondamento, a tramandare l’insegnamento dei padri. Diventano l’unico baluardo etico e civile contro le prevaricazioni dei vari poteri che si susseguono nella Storia. E lo fanno soprattutto “all’ombra dei campanili”, abbarbicate a quella tradizione cattolico-cristiana che pure spesso, nelle sue espressioni curiali, le ha tradite. Innescano in essa una sorta di dualismo tra una chiesa sempre più gerarchica e una chiesa di popolo, rappresentata soprattutto dalle confraternite, spesso in aperta contraddizione con la prima.
     C’è però un potere che è riuscito a mettere in crisi anche quel senso profondo di appartenenza a una comunità che aveva resistito nei secoli nelle nostre campagne: il potere della merce e del consumo su cui si basa la società opulenta. Partito da lontano, con l’avvento della straordinaria e terribile rivoluzione industriale, dopo aver fatto piangere “lacrime e sangue” a tanti contadini e pastori trasformati in operai dell’industria, ha fatto loro credere di poter godere di un benessere illimitato, fondato sulla possibilità di poter consumare sempre di più, per poi metterli bruscamente alla fine del secondo millennio di fronte alla mancanza di risorse, alla devastazione del pianeta, alla fine di un sogno che per milioni si sta rivelando un incubo. “L’aria della città rende liberi” recitava un adagio medievale quando i liberi comuni si opposero al contado. Ora quell’aria è ammorbata e le città sono sempre più piene di disperati che non sanno come sbarcare il lunario, mentre gruppi ristretti lucrano sulle loro disgrazie. Generazioni cresciute in mezzo all’abbondanza di merce se la vedono sfuggire davanti agli occhi senza possibilità di fermarla, ma non hanno alternative, perché l’unico linguaggio che conoscono è quello.
           7) La comunità è innanzitutto un’entità spirituale.
Una società basata soltanto sul bene materiale è destinata a fallire. Nessun uomo, infatti, è disposto a rinunciare a qualcosa o a sacrificarsi per qualcuno, se l’obiettivo fondamentale della sua vita è accrescere il suo benessere materiale. Rivendicazione legittima e necessaria che, però, se diventa esclusiva, inibisce alla base il sentimento di solidarietà. La relazione con l’altro, infatti, per poter assurgere a scambio comunitario deve necessariamente fondarsi su un concetto umanistico-spirituale che trascende l’interesse materiale dei singoli partecipanti: lasciare in mano a questo interesse, pur condiviso, il destino di una comunità vuol dire condannarla al conflitto e alla disgregazione. Senza un approccio di principio che metta al primo posto l’appartenenza al gruppo inteso come valore spirituale, ognuno comincerà a pensare innanzitutto ai problemi della sua famiglia e non alla sua famiglia nella comunità. Perché, dunque, una comunità sopravviva, il senso di appartenenza ad essa deve trascendere ogni categoria economica e privilegiare invece l’idea dell’uomo come essere sociale non solo per necessità, ma per elezione.
       Ma la comunità non è solo l’insieme dei membri che la compongono: è anche il luogo dove essa ha agito e agisce, con la sua terra, i suoi boschi, le sue acque, le sue case, le sue chiese, le sue strade, perfino la sua aria potremmo dire. Una specifica comunità non è immaginabile che su uno specifico territorio. Non è possibile esportarla: se questo avviene si determina una cesura con la sua storia e ciò che si va a costituire altrove è qualcos’altro, non la stessa comunità, anche se si trasferisse la totalità dei suoi membri.
Appartenere a una comunità non è soltanto l’adesione a un patto sociale, ma è anche e soprattutto l’assunzione di un compito, di una missione, che ci affidano i genitori e tutti i nostri antenati. Un impegno civile che ci assumiamo come atto di responsabilità nei confronti di chiunque viva sul nostro territorio, sia egli radicato da anni o da secoli oppure sia giunto soltanto da poco. Ma anche nei confronti di altre comunità vicine e lontane, magari su altri continenti, che condividono, però, la nostra stessa missione: preservare la memoria dei popoli e la multiculturalità della Terra.
        8) L’identità non è contro nessuno.
Chi pensa di costruire la sua identità contro qualcun altro non ha compreso il senso dell’appartenenza a una comunità. Sono questi anni di grandi migrazioni, di movimenti, ormai di massa, di popoli che fuggono da situazioni terribili nelle quali il valore della vita è inesistente. Gente che approda sulle nostre spiagge lacera come Ulisse nella terra dei Feaci o addirittura sparisce in mare ancora prima di arrivarci. Anche loro facevano parte di comunità millenarie che nel corso dei secoli hanno vissuto secondo quei principi tribali che mettevano al centro l’interesse comune, non quello dell’individuo. Poi siamo arrivati noi occidentali a dilaniare quelle certezze esistenziali, orfani delle nostre che ci eravamo lasciati alle spalle con l’esplosione della civiltà borghese. Abbiamo insegnato loro, con la forza e con la menzogna, che esiste un mondo in cui si può godere di tutti i beni materiali senza attendere invano i paradisi delle varie religioni. Abbiamo trasmesso loro la febbre insana del denaro, del benessere materiale, della vita facile e televisiva. Perché non dovrebbero partire per goderne anche loro? Le briciole, almeno?
    Se queste persone, quando arrivano nei nostri paesi, trovassero comunità organizzate secondo uno spirito antico, fatto di principi e di comportamenti conseguenti, ci riconoscerebbero e ci comprenderebbero più facilmente, perché ritroverebbero forme di organizzazione e di convivenza simili a quelle che hanno lasciato nei loro martoriati paesi, con una precisa fisionomia e caratterizzazione. Ma se invece, come più spesso avviene, trovano un mondo senza comunità, senza principi morali, aperto e spietato secondo i criteri del liberismo economico più selvaggio, allora si ripropone per loro la stessa condizione servile che li ha fatti fuggire, lasciare casa, famiglia e antenati.
Ecco, dunque, che solo le nostre comunità, laddove esistessero ancora, potrebbero essere i veri luoghi dell’accoglienza, gli unici capaci di rapportarsi a questi migranti sulla base di una propria identità secolare e definita che susciterebbe sicuramente il loro rispetto. E allora l’incontro diventerebbe davvero scambio, perché avverrebbe sul piano dei reciproci saperi, così facilmente assimilabili se legati al mondo agropastorale. E molti di loro non sarebbero più così diffidenti nei confronti di un possibile destino rurale anche qui da noi, che attualmente li maltratta con salari da fame e alloggi indegni di un paese civile. Se poi qualcuno di loro, e c’è già chi lo fa, dovesse salire sulle nostre montagne a fare il pastore o a coltivare terre che noi abbiamo lasciato ingerbidire, che ci sarebbe mai di diverso nel suo gesto antico di lavoro rispetto a quello dei nostri antenati? Chi avrebbe più diritto, a quel punto, di far parte di quella comunità, lui, che è ancora pronto a ribadire il gesto di tutti i padri, suoi e nostri, o quelli di noi che, invece, quella comunità l’hanno fuggita e ripudiata magari vergognandosene?
        Purtroppo, vedere che un essere umano, dai tratti somatici diversi dai nostri, fa qualcosa che ci è rimasto nel cuore, ma che tuttavia non vogliamo più fare, ci sconvolge ancora. E invece dovremmo essere felici, perché forse è questo l’unico modo per far sopravvivere le nostre storie antiche, e pensare che l’integrazione tra la sua e le nostre potrà dar vita a una storia nuova, ma sempre nel solco di quella millenaria che continua a svolgersi in ogni angolo del pianeta: la storia di uomini umili e laboriosi che “ricamano” con il loro lavoro la Terra e sanno che, se vogliono continuare a viverci, devono rispettarla come madre/padre e sentirsi loro stessi terra.
          9) L’identità è il solo modo per vivere in pace.
Quando una comunità ha ben chiara la sua identità, non deve temere nessuno, perché nessuno, neanche con la forza, potrà mai sottrargliela.
Nascere in una comunità vuol dire crescere secondo determinati valori che ogni membro apprende nell’educazione familiare e condivide nel gruppo. Valori di solidarietà, di lavoro e di sobrietà, che non hanno bisogno di essere istituiti, ma vengono interiorizzati con l’esperienza man mano che uno cresce e diventa adulto. La comunità permea tutte le fasi della vita di un suo membro, dai giochi della prima infanzia ai turbamenti dell’adolescenza e alla condivisione responsabile della maturità e della vecchiaia, e il senso di appartenenza ad essa viene messo in discussione soprattutto nella fase dell’esuberanza giovanile. Nasce allora un bisogno di altri orizzonti, pulsa il desiderio di conoscere la civiltà cittadina e l’offerta di merci, di servizi e di occasioni che essa rappresenta. A questo punto uno deve fare una scelta: o continuare il suo percorso nella comunità condividendone consapevolmente i valori oppure decidere di andarsene per cercare fortuna e libertà altrove, convinto che il destino, per quanto possa essere duro, sarà sempre migliore che lavorare la terra o pascolare le greggi; convinto pure che, se dovesse mai fallire, potrà comunque tornare.
         Niente di più illusorio. Quando si parte si parte per sempre, perché non è solo il corpo a partire, ma soprattutto la mente, che si trasforma e perde il ritmo della terra, del lavoro millenario. E allora magari ci si illude di aver trovato nuove radici o di vagheggiare grandi ideali, per poi rendersi conto, però, se ci si ferma un attimo a pensare, di aver reciso per sempre il cordone ombelicale che ci legava al paese, e che tutte queste cose non potranno mai sostituirlo, ma saranno ingannevoli sublimazioni, un mero espediente di sopravvivenza biologica che non riuscirà mai a trasformarsi in sentimento. La vita a quel punto, anche se densa di obiettivi, magari prestigiosi e incalzanti, sarà infatti priva di senso, completamente avulsa dal ciclo vitale che ci pervade solo a contatto con la terra. E ci si allontanerà sempre di più, presi nel vortice del consumo di merci e di gesti, reiterando comportamenti di competizione aggressiva per non soccombere nel totalitarismo “cannibale” e precario della società urbana. Il ritorno, se ci sarà, sarà quello nostalgico delle vacanze, magari con la presunzione di rimproverare a chi è rimasto di non aver conservato adeguatamente quelle tradizioni che noi invece abbiamo rinnegato.
          Il senso della vita che sta invece alla base di una comunità rurale è quello della conservazione della terra e della trasmissione dei saperi che servono per governarla. Esso non è affetto dal desiderio coattivo di moltiplicare le proprie prestazioni, ma piuttosto ribadisce il rinnovo rituale di quelle secolari, a garanzia della continuità nel tempo. Una comunità gestisce l’esistente, consolidatosi in epoca remota, e ripete quei gesti e quelle scelte che fecero gli antenati. Non ha bisogno di accrescere i suoi possedimenti a spese di qualcun altro, è concentrata sui propri e sul modo di gestirli compatibilmente. Appartenere a una comunità vuol dire condividere questa impostazione, praticarla, rafforzarla, sulla base di una concezione pacifica dei rapporti tra gli uomini e tra le comunità stesse, consapevoli che lo scontro, la guerra, non sono mai portatori di benessere comune, ma di interessi privati: essi favoriscono l’ascesa dei singoli e sono un pericolo per gli equilibri comunitari. Ma fare la guerra vuol dire anche distruzione di raccolti, requisizione di bestiame, appropriazione o perdita di beni che sono il frutto del lavoro di generazioni, carestie e malattie che falcidieranno soprattutto i più deboli, interruzione di lavori stagionali che non possono essere rimandati. Fare la guerra contraddice la vita e le comunità rurali sono invece le custodi della vita.
          Storicamente sono le società mercantili che fanno le guerre, perché hanno bisogno di controllare i traffici e i mercati per accrescere i loro profitti. Anzi, hanno bisogno anche delle guerre per fare profitti e non si fanno scrupoli a speculare sui materiali bellici e sulle forniture generali. Ma i mercanti sono pochi e non possono fare la guerra e contemporaneamente speculare su di essa. Cercano dunque manodopera adatta per farla e chi, meglio dei contadini, garantisce forza, lealtà e coraggio? Ma i contadini non amano la guerra, sanno cosa significa per le campagne, e dunque bisogna costringerveli con la forza: nascono così le leve obbligatorie. Nonostante la propaganda nazionalista, sono migliaia i contadini che piuttosto che andare in guerra si danno alla macchia. E quando ci sono disertano oppure si ammutinano, perché non ne vogliono sapere di combattere. Furono più di quarantamila i soldati italiani fucilati sul fronte austriaco durante la prima guerra mondiale e molti di loro perché, come si diceva allora, “familiarizzavano con il nemico”, contadino come loro. Ma non avevano forse più comunanza di interessi con quel nemico “ fratello” che con i loro comandanti borghesi o con i “pescecani” che sulla guerra facevano fortune favolose fornendo loro scarpe di cartone?
          Che senso ha recuperare le comunità di villaggio nel mondo globalizzato di oggi? Se c’è una speranza di salvare le sorti della civilizzazione umana e del pianeta stesso, essa non può prescindere dalla terra. L’agricoltura e la pastorizia hanno subito negli ultimi cent’anni mutamenti radicali nelle forme di gestione e nel peso economico rappresentato nell’economia dei vari paesi, mutamenti nei quali chi ha pagato socialmente sono stati soprattutto i protagonisti, gli agricoltori e i pastori. Molti di loro, nei paesi del sud del mondo, hanno abbandonato o dovuto abbandonare forme di gestione arcaica delle terre e degli armenti, povere, ma comunque libere, per trasformarsi in manodopera semischiavistica per l’economia di piantagione, retaggio dello sfruttamento coloniale e neocoloniale. Altri, nei paesi del nord opulento, o sono stati trasformati in operai dalle diverse rivoluzioni industriali o sono stati emarginati dal processo produttivo agricolo dall’indu-strializzazione delle campagne che ha messo in crisi il valore dei loro prodotti e la possibilità di produrli. In entrambi i casi la mutazione ha creato moltitudini di disperati: quelli dei paesi poveri cercano con migrazioni pericolose e clandestine di sfuggire a condizioni di sfruttamento disumane, quelli dei paesi ricchi sono espulsi dai processi produttivi industriali per i quali avevano abbandonato le campagne oppure devono azzerare le aziende agricole che avevano tenacemente tenuto in piedi. Masse enormi di scontenti, di famiglie che scivolano bruscamente sotto la soglia della povertà, di uomini e donne incattiviti dalla miseria e dall’umiliazione. Una polveriera che può esplodere da un momento all’altro suscitando reazioni cruente da parte degli apparati di potere che non sono più in grado di gestire politicamente e civilmente queste situazioni. E contemporaneamente uno sfilacciarsi progressivo delle istituzioni democratiche che godono sempre meno credibilità e prestigio. Per non dire delle forze politiche o sociali che continuano nei loro narcisismi anche sull’orlo del baratro.
In questo quadro prebellico, la preoccupazione è che qualcuno voglia risolvere la questione proprio con una guerra. Una guerra che sarebbe terribile nelle sue conseguenze, sia perché il potenziale degli armamenti è oggi spropositato, sia perché sono saltati tutti gli schemi classici delle contrapposizioni e finirebbe per essere un lungo conflitto civile permanente.           Salterebbero fuori gli scontri di civiltà, le epurazioni etniche, la lotta di classe, gli appetiti imperialistici, le esigenze strategiche, tutte le abominevoli ragioni delle guerre contemporanee. Verrebbe messa sicuramente a rischio la sopravvivenza dell’essere umano sul pianeta.
Rilanciare le comunità di villaggio come forma di convivenza pacifica tra gli uomini non può essere certamente la panacea a tutti questi mali, ne siamo convinti anche noi. Ma nel delirio della competizione contemporanea, nella demolizione sistematica e progressiva del sociale, nella deregolazione dei rapporti economici e nella relativizzazione del diritto a cui stiamo assistendo, crediamo che avere un’idea umanamente positiva da cui partire rappresenti un punto fermo importante nella discussione politica. Un punto fermo che oltretutto non nasce, come molti, dall’effimero del presente, ma ha una storia millenaria e un riferimento concreto assoluto, prioritario nella scala dei valori: la terra. L’idea di convivenza e di mondo che propone la comunità di villaggio è davvero a misura d’uomo, perché l’uomo, in quanto individuo, ne è protagonista indispensabile, anzi, non può non esserlo in quanto gli compete questo ruolo da protagonista, è un impegno che deve assumersi facendo parte della comunità. Ciascuno dei membri partecipanti diventa responsabile di fronte a tutti gli altri, in una sorta di “responsabilità policratica” che vede tutti coinvolti diversamente, ma equamente nella gestione della vita economica e sociale del gruppo. Che non è collettiva, ma condivisa, secondo quei principi di solidarietà, di lavoro e di sobrietà che stanno alla base dell’idea stessa di comunità.
E la stella polare di questa gestione condivisa è sempre lei, la terra, che dà l’indicazione e la misura dell’agire, che deve essere improntato ai suoi cicli, alle sue esigenze, cercando di corrispondere alla natura, non di contrastarla, evitando conflitti con essa e per essa. E nel fare questo recuperare quella visione sacra della vita che avevano gli antenati che, ogniqualvolta compivano un gesto di dissacrazione nei confronti di un essere vivente vegetale o animale, lo facevano con il profondo rispetto di chi conosce il valore dell’esistenza e lo limitavano alle effettive esigenze.

      Ma l’idea sacra della vita significa anche e soprattutto rispetto di tutti gli uomini, indipendentemente dalla loro condizione economica e sociale, dall’appartenenza etnica e dalla convinzione politica o religiosa. Accettare, dunque, la diversità, considerandola un arricchimento, uno speciale momento di confronto. Essere in grado di risolvere le possibili controversie all’interno del gruppo o fuori di esso con la conciliazione, sapendo che spesso ciò può significare anche un sacrificio da parte nostra. Ma il risultato che avremo ottenuto ristabilendo la pace sarà senz’altro di valore superiore rispetto alla nostra rinuncia.
       Noi crediamo che la comunità di villaggio sia il modo naturisticamente più “leggero” di stare sulla Terra e quello umanamente più “intenso” di condividere l’esistenza.