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Talianu

INCROCI VUOL DIRE...(commento)

Alcune tesi e un’ipotesi per l’elaborazione di un pensiero non solo letterario

di Lino Angiuli & Raffaele Nigro

Per contribuire al dibattito culturale in corso, che vede contrapporsi diverse visioni del mondo con particolare riguardo ai rapporti tra Occidente e altro, in linea con precedenti manifestazioni insieme sottoscritte, i due direttori della rivista firmano un “quattromani” che scommette sulla valenza simbolica dell’Appennino per provare a discutere e magari modificare il “punto di vista” su cui si fonda la nostra attuale percezione della realtà.

Premessa

Sono due gli ambiti metaforici che vogliamo qui adottare per utilizzare al meglio la parola “incrocio” fino a caricarla di significati simbolici, dinamici, aperti.
Il primo è quello che trae profilo semantico e legittimazione dal mondo delle scienze biologiche, le quali da tempo ci hanno dimostrato come la vita sia l’arte dell’incrocio: tutte le creature sono figlie di un incrocio più o meno creativo. Due esseri viventi si accoppiano e dal loro incrocio nasce una terza entità che, pur recando con sé qualcosa dell’uno e dell’altro, reca e mantiene un margine più o meno consistente di originalità e di inedito. Pertanto, contraddicendo le piccole istanze della logica umana, la vita ci dimostra continuamente che, quando non ci si limita a trattarla e inquadrarla con le quattro operazioni matematiche, col permesso di Aristotele e del pensiero binario, “tertium datur”.
Per sviluppare quella che abbiamo chiamato “creatività” dell’incrocio, è però necessario che i soggetti protagonisti dall’accoppiamento siano diversi ed eterogenei. Un incrocio tra consanguinei – infatti – è più povero, limitato e rischioso rispetto a quello tra soggetti appartenenti a famiglie diverse, al punto da generare quello che l’antropologia definisce familismo amorale. Insomma, al di là della scontata pulsione verso facili sicurezze che conduce a frequentare i recinti del già noto (la tribù come la razza), la diversità genetica è fonte di ricchezza per la nostra specie: quella particolare ricchezza che si sviluppa creativamente, appunto, se a produrre l’incrocio è un’attrazione, un bisogno reciproco, non una spinta verso il possesso e lo sfruttamento.
Applicando questo schema alla relazione tra culture, va da sé che nello scambio creativo e paritario tra identità e alterità debba essere fondata la prospettiva del “tertium”, ovvero del veramente nuovo, ovvero di un futuro che non intenda riproporre stancamente il passato, soprattutto se si tratta di un passato che conduce verso il cul de sac dell’inerte e sterile autoriproduzione.
Del resto, se non ci si prende la briga di progettare una diversa organizzazione del mondo, ciò che non riesce a fare la cultura lo farà comunque, a modo suo, la biologia, che si muove a prescindere dalle organizzazioni politiche e dalle razionalizzazioni con cui, di volta in volta, la conservazione cerca e costruisce alibi ai propri interessi. Da questo punto di vista, è evidente che nessuna legislazione potrà impedire agli affamati della terra di raggiungere i luoghi in cui essi pensano di poter trovare cibo e sussistenza, almeno che non si pervenga a una sostanziale e inedita revisione della distribuzione delle risorse capace di sconfiggere alla radice la fame e gli enormi squilibri planetari.
A proposito dell’improcrastinabile esigenza di reimpostare le prospettive planetarie, può venirci incontro – se vogliamo – proprio la faccia “virtuosa” della globalizzazione con le opportunità, da essa recate, di tradurre il “barbaro” in vicino di casa, visto il progressivo rimpicciolimento del mondo (che oggettivamente non è poi tanto grande se non per il limitato raggio visuale dell’uomo, come si sforzano periodicamente di dimostrarci terremoti e tsunami). Peraltro, seguendo le spinte virtuose, tale progressiva vicinanza “condominiale” potrebbe anche essere da noi utilizzata per sconfiggere le paure su cui molta cultura pre-istorica fonda la cieca, arcaica pratica della guerra e del dominio, da sostituire quanto prima con strumenti capaci di sostituire l’in-contro allo s/contro, pena la condanna di restare prigionieri del vicolo cieco in cui molti conflitti umani sono cronicamente bloccati.
Così inteso, l’incrocio che muove verso l’alterità col desiderio di generare altro da sé è qualcosa di diverso e di più rispetto alla diffusa categoria della contaminazione, la quale, muovendosi alla ricerca di stimoli nuovi, postula un superficiale e rituale “sfrusciamento” della diversità
La seconda accezione di “incrocio” che vogliamo metaforizzare e caricare di simbolicità è quella di ordine stradale, per sottolineare che un incrocio è un momento delicato della viabilità, un momento abbisognevole di attenzione, regole condivise, rispetti reciproci. Alle prese con un incrocio, solo gli sprovveduti e i prepotenti tirano dritto per la propria strada senza degnare di uno sguardo il cambio di prospettiva annunciata da apposite indicazioni e richiesta dalla logica oltre che dalle esigenze della convivenza civile. Rischi, questi, amplificati dal possesso di un mezzo come l’automobile, che amplifica l’isolamento e la sensazione di potenza.
Fuor di metafora, se la vita è un incrocio continuo tra identità e alterità, passato e presente, presente e futuro, qui e lì, è necessario decelerare, rallentare, ridurre la spinta aggressiva con cui affrontiamo la vita stessa, fermarsi, se necessario, ascoltare e guardare con attenzione, accordarsi sulle precedenze (priorità) in nome di regole condivise, se non si vuole correre il rischio d’investire in malo modo l’altro o farsi da lui investire.
Orbene, è nostra convinzione che gli aspetti più vistosi della crisi che attraversa oggi il pianeterra hanno a che fare con due modi non equilibrati di produrre incroci e di attraversarli.

Tesi numero uno, ovvero i danni dell’usum delphini

Tra i limiti più pesanti e perniciosi della mente umana (che ha pure delle qualità, non sempre utilizzate al meglio) vi è la sua attidune-abitudine di pensarsi e credersi come centro dell’universo. Talune culture, come quella che vige nel mondo convenzionalmente detto “occidentale”, rinforzate dalle conquiste scientifiche, hanno poi spinto alle estreme conseguenze questa illusione, fino a pensare come altro da sé il resto del creato, che a causa di questa distorsione percettiva diventa terreno da assimilare, risorsa da addomesticare e sfruttare unicamente a proprio uso consumo vantaggio profitto, fino a valorizzare come spinte positive l’ingordigia e la voracità. Peraltro, l’ebbrezza derivata dai cospicui risultati della tecnica annebbia la vista e non consente all’uomo di dimensionarsi sulla base di un rispettoso, armonico, quanto adeguato rapporto con le altre creature e con il creato.
In questo stato di sovreccitazione permanente che sembra governare il nostro modello di sviluppo, l’uomo dimentica di essere egli stesso natura ed, emblematicamente, si spinge ad uccidere altre creature non per necessità nutritive ma per fare vana esibizione di forza o, persino, coreografia alimentare. Se incontra sulla strada della sua maniacale espansione foreste, montagne, fiumi, mari, ozoni, balene, foche… spinge l’acceleratore e, autorizzato anche da teorie politiche, investe abbatte manomette piega aggredisce prende ingoia, contrariamente a quanto facevano e fanno in via residuale le culture che pongono nel cosmo e non nell’uomo la centralità.
Insomma, spingere al massimo la presunzione di essere specie eletta, convincersene sempre più per aver inventato un buon numero di giocattoli che allungano la durata dell’esistenza umana e la rendono meno scomoda, produce numerosi guasti, tra cui va iscritta, per l’appunto, quella sindrome miopica che attribuisce al principio creatore il disegno di promuovere l’uomo a padrone assoluto del creato, con licenza di strafare.
È evidente che, considerato il volume ormai insostenibile dei danni prodotti da questa concezione, è necessario modificarla considerevolmente con una inversione di tendenza, incrociando pensieri e visioni del mondo, passati o presenti, che insegnino a stare sulla faccia della terra in una relazione paritetica e rispettosa con il contesto naturale, grazie ad una disposizione esistenziale più riflessiva e meno compulsiva, una disposizione che faccia a meno di idolatrare le leggi dell’economia penalizzando quelle dell’ecologia.
In assenza di questa disposizione più umilmente introspettiva, meno invasiva, meno autocentrica, e in presenza di una logica orgogliosamente autopromozionale, l’uomo perde facilmente la consapevolezza dei suoi mezzi e dei suoi limiti, così come perde la consapevolezza del cammino da compiere per raggiungere sé stesso, fino a praticare delle terribili rimozioni, condannarsi alla dimenticanza e prendere delle solenni cantonate storiche.
Un esempio attuale ed eclatante di questo errore-erranza è rappresentato dalla svista ideologica esercitata dagli Stati Uniti d’America (propaggine significativa di certo pensiero etnocentrico di ascendenza europea) quando si propongono urbi et orbi come campioni di libertà e democrazia fino a sentirsi legittimati a trattarle alla stregua di merci da esportazione, dimenticando che qualche secolo addietro (meno che ieri), per fondarsi hanno dovuto compiere un genocidio ed esercitare la schiavitù, per cui la loro “civiltà” galleggia sul sangue e sulla sofferenza dei più deboli. Una overdose di violenza mista ad acritica autoassoluzione presente in molte altre vicende umane, ivi compresa quella di istituzioni confessionali fondate su valori di pace, amore e fratellanza.

Tesi numero due ovvero la malattia del tempo

Per segnare l’enorme, esponenziale distanza che si apre tra il desiderio (voleressere) e la realtà (doveressere), abbiamo quasi tutti imparato a lamentarci di “non avere tempo”, il che equivale pressappoco a lamentarsi di non essere onnipotenti. Per questa stessa ragione, oltre che per altre più ‘nobili’, anche un secolo composto da cento anni e chissà quanti mesigiorniminuti è potuto diventare breve.
Il nostro tempo, di marca lineare, è avvertito come una freccia, uno strumento affilato da usare per la conquista dello spazio, non come una condizione essenziale per abitarlo in pienezza. È lui, peraltro, il principale alleato della inesauribile voglia di conquista che alcune culture manifestano tutt’ora, dopo aver imperversato nell’aggressione verso altre culture fondate sul tempo circolare, che è implicitamente un tempo stanziale. Le teorie di ordine storicistico, recentemente entrate in crisi implosiva per la visibile inaffidabilità della loro presunzione teleologica, hanno comunque provveduto a rinforzare questo atteggiamento mentale e culturale, perché prefigurano il passaggio da una fase all’altra della storia in un inseguimento coattivo e dichiaratamente progressivo che, per statuto, impedisce la possibilità di sostare o, peggio, cambiare traiettoria. Una sorta di frettoloso edipo si è impossessato del tempo che deve essere continuamente “ammazzato” per poter subito passare al tempo successivo nell’illusione che questo sia più nuovo del precedente, rispetto al quale intende comunque marcare differenze e distanze. Non c’è che dire: la lezione dei greci, secondo cui il forte, giovane e baldanzoso Zeus detronizzò il padre Kronos (tempo) ha fatto scuola: l’accelerazione, il superamento, l’ammodernamento diventano così le costanti di un moto perpetuo fine a sé stesso, che viene scandito dalle conquiste, non sempre necessarie, di una tecnica che fugge continuamente in avanti divorando, spesso, le proprie ascendenze e, a volte, la nostra libertà.
È, pertanto, oltremodo necessario fermarsi all’incrocio con il tempo, imparare a guardare in faccia il presente, saper assaporare il vuoto nascosto sotto l’ipercinesi contemporanea e tenere a bada la voglia faustiana di riempirlo continuamente fino a scambiare la notte per il giorno, la menzogna con la verità, il luccichio con l’oro.

Tesi numero tre ovvero l’ipostatizzazione del presente

Scaturisce dalla seconda una terza tesi: la necessità della riconquista della nozione e del sentimento del tempo nella globalità tridimensionale di passato-presente-futuro. Da due secoli il giornale, organismo al quale demandiamo il compito di raccontare gli accadimenti quotidiani, ci avverte del fluire del presente. Il giornalista è il segugio che rincorre le ultim’ora e, se la notte è produttrice di cronaca, il mattino è il luogo in cui si rendono patenti i segreti della notte. Il Quotidiano ha come compito primo quello di raccontare il fluire del tempo attraverso le cronache, richiamare l’attenzione del lettore sugli accadimenti forse ancora in svolgimento: un compito che è stato stravolto e reso fibrillante dalla televisione.
Il telegiornale e il radiogiornale sono diventati i luoghi nei quali si racconta la cronaca nel suo farsi, quella che per Bruno era la Natura naturans e che nel nostro assunto, allorché viene consumata e stivata nell’archivio del giorno trascorso, diventa la Natura naturata. Due secoli di quotidiani e mezzo secolo di telegiornali ci hanno progressivamente defraudato del sentimento del passato. Il passato infatti non produce cronaca e come tale è una componente del tempo inessenziale.
Di qui la morte di tutto ciò che riguarda la nostra storia, la morte della memoria e la ridefinizione del tempo come un presente che il cronista tende a parcellizzare per costruire le singole pagine e i molti frammenti del presente. È stata questa una delle ragioni per cui si è dovuti ricorrere alla creazione dei giorni della memoria, al giorno in cui si festeggiano le mamme le mamme i papà i nonni e chi più ne ha più ne metta. Insomma, ricordiamoci di ricordare.
In questa frantumazione della globalità del tempo persino i legislatori hanno ritenuto necessario entrare, cancellando lo storicismo dalle metodologie didattiche. Non il prima e il poi ma l’oggi, eterno come un dolore, infinito, deprivato di zavorre memoriali. L’onnipotenza del presente, un presente non pieno, non profondo ma superficiale e frammentato, proprio come sono le pagine dei quotidiani e dei telegiornali, dove ogni servizio e ogni articolo sono micromondi a sé stanti, separati, assolutizzati nel proprio racconto.
L’effetto di questa diffusa mentalità si registra anche in letteratura, dove si è verificata l’esplosione del minimalismo e del descrittivismo da parte di un io altrettanto frantumato, quale per la verità già Pirandello aveva in qualche modo intercettato. Il presentismo frammentario ha prodotto anche la morte dell’epica e, come si diceva, della memoria, relegandole nello scantinato della letteratura ottocentesca.
In tale prospettiva incrocio significa, quindi, recupero della dimensione letteraria plurisecolare, all’insegna di una funzione civile ed etica della storia come ascissa di una ordinata fondamentale che è il presente. La storia che prepara e permette l’interpretazione del presente e il presente che prepara il futuro, libera dall’angoscia della precarietà e dalla spaventevole assenza della progettualità: un assenza assimilabile al caos, al parapiglia irrazionale. E un presente abbandonato a se stesso e non illuminato da una idea per così dire “vichiana” somiglia a un viaggio cieco nella casualità.

Tesi numero quattro ovvero l’abuso orizzontale

Ad un tempo cosiffatto e così culturalizzato corrisponde, evidentemente, uno spazio in cui non possono non riflettersi le contraddizioni e le distonie fin’ora esaminate. In tal senso, non è un caso che il luogo più potente e umanamente più loquace, oggi, sia la città, nonostante la sua visibilissima crisi continuamente rimossa.
Da sempre gli uomini tendono a non restare soli e ad imitare i comportamenti dei più forti: queste due spinte profonde hanno aiutato la città a diventare luogo centripeto, onnicomprensivo, persino carnivoro, un luogo che produce periferie per poi ingoiarle in una coazione a ripetere che sembra obbedire a una logica più metastatica che razionale.
Quanto più essa città è finanziariamente e produttivamente attiva, tanto più sviluppa una politica di espansionismo territoriale evidentemente orizzontale e nuovistico. La crisi di questo modello di convivenza, però, emerge da una semplice constatazione: si tende verso la città per non restare soli ma, paradossalmente, si contribuisce a renderla il luogo con più alto rischio di solitudine.
Inoltre la città – non a caso – contiene anche il più alto tasso di mobilità, traffico e traffici. Il suo spazio è organizzato, sia pure malamente, per muoversi e non per stare, e per muoversi orizzontalmente senza il gusto della verticalità, tanto da aver esiliare il cielo dalla propria visuale.
Un’ultima considerazione riguarda la pulsione motrice che nutre quelle culture recanti nel proprio DNA il mare e le sue spinte centrifughe. Gran parte dell’Europa, dal nord al mediterraneo, è intrinsecamente legata all’uso del mare per l’esercizio del viaggio e dell’irrequietezza, per l’ambizione a sconfiggere l’orizzonte, alimentando certamente la cultura dello scambio e della relazione ma, spesse volte, muovendosi verso il possesso e la conquista. Anche questo elemento geoculturale ha finito per ipervalutare il moto orizzontale a discapito della stasi e della salita.
Che altro è, del resto, il fenomeno moderno del nomadismo turistico se non la volgarizzazione di questa frenesia che fa coincidere, erroneamente, la conoscenza con lo spostamento del corpo da una latitudine all’altra magari all’insegna di un congegno che, in preda ad una evidente bulimia voyeristica, ri-prende e ingoia tutto dentro l’enorme pancia dell’obiettivo?

Tesi numero cinque ovvero il ruolo della scrittura

Nel passaggio tra il secondo e il terzo millennio, sembra essersi consumato, nel bene e nel male, il transito da una produzione letteraria organizzata per scuole, movimenti, ismi e altre categorie che prevedono sia la pluralità dei soggetti sia la loro aggregazione intorno a nuclei progettuali condivisi o a modi di intendere la letteratura ad una produzione che, invece, vede i singoli autori farsi portatori di una autonoma e possibilmente singolare visione del mondo e della scrittura.
Nel bene e nel male – si diceva – visto che questa modificazione strutturale, particolarmente accentuata in poesia, per un verso può significare isolamento e individualismo, mentre per l’altro può rappresentare l’assunzione di responsabilità personale da parte dei singoli autori, che si sentono emancipati dall’obbedienza a macromodelli sovrapersonali. L’attuale profluvie di antologie segna il bisogno e la fatica, spesso inutile, di critici e operatori del settore rivolta a individuare bussole ermeneutiche, moduli organizzativi e schemi metodologici atti a delineare credibili quadri sinottici in cui inquadrare proposte testuali sempre più abbondanti e diversificate.Emblematica è la dichiarazione di Ferroni negli aggiornamenti alla Letteratura Cecchi-Sapegno sulle difficoltà che il critico incontra oggi nel districarsi nel maremagnum della produzione,sovrabbondante e debordante.
Va da sé che questo nuovo scenario impone agli scrittori di dotarsi non tanto di una sigla d’appartenenza quanto di un progetto riconoscibile per qualità di ricerca e di proposta: un’estetica che contenga un’etica, quindi.
Per quanto riguarda tale esigenza di progettualità, si possono distinguere, grossomodo, due filosofie e due modi di intendere l’attività letteraria. La prima predilige le vicende, anche minime, dell’io che scrive nel tentativo, non sempre riuscito, di farsi metafora ed exemplum dell’esistenza in generale (una volta si sarebbe detto “universale” con un pericoloso aggettivo). La seconda non rinuncia a collegarsi al mondo esterno e alla realtà storica per rintracciare i segni epifanici di mutamenti significativi, di fronte ai quali prendere posizione. Da un lato – quindi – la consapevolezza, più o meno matura, di essere parte che aspira al tutto; dall’altra il bisogno di essere dalla parte. Chissà, probabilmente, sotto altre forme, tornano, come una fenice ben radicata nella mente umana e nella nostra cultura, precedenti dualismi o copie oppositive che dir si voglia: singolare o plurale, identità o alterità, parzialità o assolutezza, soggetto o oggetto e così via.
Quale che sia la credibilità e fungibilità di queste distinzioni, certo è che vi sono scrittori che seguono le sirene della propria voce modulandola sulle scritture di genere richieste di stagione in stagione dall’idrovora dell’industria editoriale e impegnano il proprio talento per entrare nell’improbabile reame dell’autoaffermazione, mentre vi sono scrittori cui interessa diventare, da grandi, capaci di ascolto e di silenzio, e per questo mettono la loro parola a disposizione dei deboli di parola, quelli che la storia nasconde al frettoloso e muscoloso occhio ufficiale e che invece vanno scoperti come preziosi mondi inediti da valorizzare.

Tesi numero sei ovvero dal meridionalismo alla meridianità

L’idea dell’incrocio, calata dentro dentro la Storia, ci conduce a riproporre un discorso che già facevamo e scrivevamo venti anni fa, che è poi diventato asse portante della riflessione politica e culturale di tutti gli anni Novanta.
Fino al 2000 le coste del Sud d’Europa hanno impattatato l’inferno dell’immigrazione. La disintegrazione del Socialismo reale e dell’apparato politico esteuropeo e balcanico sbalzò noi, in quanto paesi frontalieri, al centro del mondo. Nacque di conseguenza una riflessione di tipo sociologico e insieme politico. Di fronte ai frantumi di un universo che si riversava sul nostro, tra due epoche che cozzavano, il mondo contadino in sfacelo da una parte e la modernità che avanzava in modo caotico e consumistico dall’altra, nacquero numerosi saggi, film, romanzi. E vi furono risultati straordinari persino sul versante sociale. Il Sud d’Italia mostrò il lato dell’accoglienza e della solidarietà, mostrò le coste e le architetture antiche che diventarono set cinematografici e meta di un turismo sempre più consistente.
Gli ultimi quindici anni sono stati cruciali per il Mezzogiorno. Ma già. a partire dalla fine degli anni Sessanta avevamo imparato a vedere i nostri paesi battuti da venditori ambulanti.Uomini di colore che vendevano cianfrusaglie e lanciavano un grido di richiamo. Questi ambulanti sono diventati stanziali nelle grandi città e nelle feste popolari e nelle fiere, magrebini e centroafricani che vendevano oggetti di pelletteria, orologi e tappeti.
Per tutti gli anni Settanta si sono avvicendati etiopi eritrei somali ruandesi. Poi è venuto il tempo di filippini e mauriziani. Penso alla Torino di Porta Palazzo e alla Milano di viale Jenner, per non dire della Parigi maghrebina e della turca Berlino. C’erano già da allora quartieri abitati quasi esclusivamente da extracomunitari. Vivevano divisi per nazionalità, in case fatiscenti, tra montagne di valigie e siepi di brande.
Noi eravamo stati poveri e ora andavamo verso il benessere, quegli “altri” erano ancora poveri e aspiravano al benessere. Di a quelle osservazioni nacque la poetica dell’occidentalismo imperfetto: un’imperfezione consapevolizzata che ci aiutava a capire sia il mondo europeo e atlantico che quello mediterraneo.
Sotto i nostri occhi e non solo sopra i nostri libri il Mezzogiorno stava diventando ancora una volta un paese ponte, un luogo di andirivieni dove si accoglievano pregi e difetti di due mondi contrapposti, quasi obbligati ad incrociarsi. Dunque era questa la nuova frontiera del Meridionalismo, l’apertura al Mediterraneo, la fondazione del dialogo con paesi tenuti lontani dalle Crociate antiche e recenti. Eravamo noi, europei del Sud, a coprire quello spazio che l’Europa distratta di Bruxelles non voleva o non sapeva occupare. Un’Europa lontana, sorda, arcigna, che avrebbe in qualche modo accentuato distanze regressive e fobiche.
Dal 1990 in poi, con la caduta del muro di Berlino e del cancello sovietico sull’Adriatico, sono arrivati anche albanesi curdi cingalesi tamil russi e cinesi: un diluvio universale di umanità; una valanga che si è riversata per tutti gli anni novanta in Europa filtrando attraverso le coste di Puglia Calabria e Sicilia.
Una iattura o un’opportunità? Sulle tracce di Braudel nasceva un pensiero meridiano guidato dalle scuole di Napoli, Bari e Palermo. Un fatto è certo: sul terreno del Mezzogiorno si scontravano l’integralismo etico e religioso dell’Islam e quello economico e consumistico dell’occidente. E più drammatico ancora era lo scontro tra il vitalismo dei poveri a Sud del Sud e il nichilismo dell’occidente,il nostro innamoramento per la malattia e per la morte, la coltivazione della pianta del decadentismo, fino all’esistenzialismo ateo, all’idoleggiamento del vuoto totale.
Di fronte a questo scenario, da un lato c’era chi coltivava un teocentrismo di sapore medievale e dall’altra chi praticava un nichilismo indifferente. Il Meridionalismo fattosi Meridianità provava a sconfiggere l’atmosfera di crociata che i popoli continuavano a vivere sulle sponde di un Mediterraneo diventato sempre più metafora dell’oriente.

Ipotesi ovvero l’utopia di un paesaggio alternativo

Sono passati degli anni da allora e quel discorso è ancora attuale perché poco è mutato nei rapporti tra blocchi, e perché sulla scena del mondo agiscono ancora oggi il terrorismo, il fanatismo, l’integralismo economico e consumistico, le povertà, la necessità di dialogo. Nel frattempo avanza e reclama una nuova esigenza di ordine quasi spirituale, un bisogno di considerare diversamente l’umano e il suo fondamento. Quella Meridianità di ieri noi proviamo oggi ad incrociarla con la verticalità dell’Appennino, alla ricerca di un ponte tra Europa e dunque Occidente e continenti Afro-Asiatici e dunque Oriente.
Gli scenari sopra tratteggiati impongono che, quanto prima, sgombrato il campo da certi grossolani equivoci che ruotano intorno al concetto di progresso, si abbia il coraggio di fermarsi in un tempo-spazio capace di attivare riflessioni alternative all’attuale paesaggio: un incrocio dove soffermarsi a meditare, prima di rimettersi in viaggio: un viaggio che, depurato dalle pulsioni più negative, sia meno dispersivo, meno chiacchieroso, meno ripetitivo, meno invadente.
Generalmente, a questo punto, nell’atto di guardarsi intorno, si viene facilmente sospinti dalla fantasia ad immaginare l’isola che non c’è, un approdo esotico dove andare a capo e ricominciare da capo.
Invece no. C’è qualcosa di molto vicino a noi, che sfugge al nostro occhio perché troppo facile da raggiungere e troppo “minore” per attirare la nostra attenzione abituata alle tinte forti della tele-visione. Basta fare un piccolo passo indietro, mettere tra parentesi il richiamo e la turbolenza del mare per arretrare verso l’interno, superare le prime colline e spingersi fin dentro i mille e mille paesini arroccati, come simbolo di resistenza, sulle alture dell’Appennino; paesini che, emblematicamente e – se si vuole – provocatoriamente, vogliamo promuovere a “laboratorio dell’umanità” o “parco umano d’Europa” a dispetto della loro condizione di soggetti in via di estinzione.
Una opzione – questa – che avanziamo per una serie di ragioni correlate alle considerazioni sopra scritte. Eccone alcune:
Una costola di montagne e di colline attraversa l’Italia, dai monti Iblei alle Langhe e alle Alpi. Le culture espresse dagli abitatori di quella costola sono se non uniformi, molto simili tra loro, in quanto generate dall’orografia e dalle urgenze del territorio.
In momenti difficile della nostra storia, di fronte a crisi guerre distruzioni epidemie, furono questi luoghi ad assicurare un ubi consistam ai popoli in difficoltà. Le antiche vie non percorrevano valli e pianure, in quanto la malaria, i corsi d’acqua, la pericolosità del banditismo imponevano percorsi di mezza montagna e di alture che garantivano migliore visibilità.
Sulle colline è l’urbanistica a stabilire una prima macroscopica differenza con i centri di pianura. I tetti spioventi e le coperture di tegole, il dislivello degli edifici, la dislocazione a gregge intorno, sui fianchi e al sommo della collina offrono un colpo d’occhio d’insieme che è negato ai centri di pianura,dove solitamente gli edifici hanno struttura cubica e parallelepipeda anche nei centri storici.
Ma ciò che fa la differenza con la pianura è la collocazione dell’orizzonte. La linea d’orizzonte che si respira in questi luoghi offre altezze, profondità, immensità e non solo larghezze; la loro configurazione è tale che per accedervi si è costretti a scarpinare, portare un piede in alto e far leva sull’altro che resta sempre leggermente più in basso. Ecco, la filosofia dell’Appennino è quella propria della montagna, un luogo da scalare, lasciandosi alle spalle la valle e aggrappandosi alla vetta. Salire significa dunque sudare, fare fatica, guadagnarsi la cima guardando in alto e in basso. Una filosofia dello sforzo contrapposta alla casualità. Non il colpo di fortuna del quale tutti vanno oggi in cerca, ma il futuro costruito con fatica e sudore. Inoltre, la convivenza quotidiana con la natura stempera le prepotenti tentazioni antropocentriche.
Nei luoghi appenninici si pratica la lingua delle stagioni e il vocabolario umano contiene ancora i nomi del vento, le voci della pioggia, degli alberi, degli uccelli. Questi sono i luoghi del silenzio, abbandonati per decenni da una politica dell’inurbamento metropolitano che ci ha reso insoddisfatti se non infelici, produttori di depressioni, malesseri metropolitani, stordimenti, code, velocità, decibel: il tutto condito da quella stupidità che massmediaticamente è stata venduta come esistenza rock da contrapporre alla lentezza negativa.
Quelli che invece invitiamo a ri-scoprire sono luoghi dove possono convivere senza prevaricazioni la velocità e la riflessione, perché l’una non può e non deve escludere l’altra, pena l’ incapacità di cogliere i bisogni e lo spirito dei tempi e lo spirito senza tempi.
È qui che si esercita la medicina del silenzio, balsamo efficacissimo contro il verbalismo che toglie senso ai verbi. A partire dal Duecento, è tra queste cime che si sono diffuse le scuole pittoriche umbro-toscane e su quelle cime si arrampicavano gli eremiti per creare monasteri. Se la cultura Basiliana che veniva dalla Grecia e dalla Turchia cercava la profondità delle lame e delle grotte, quella Benedettina cercava le alture. E tuttavia profondità e altezza erano equivalenti. Perché entrambi, chi in discesa e chi in ascesa provavano ad elevare lo spirito.
Ma è nell’Appennino che si incontra per strada la vecchiaia dei muri e delle facce: condizione fondamentale dell’esistenza, che generalmente cerchiamo di rimuovere. Lì ascoltiamo ancora il bisbiglio dei torrenti, l’odore delle felci e la vita del sottobosco, un odore di umido e di vento. Costretti a salire, bisogna cercare appigli, bisogna apprendere che il suolo è cedevole e incontrare le pietre che affiorano dal muschio e guardare in faccia la terra e scoprire le microesistenze che fanno multiforme la vita e sentire la contrapposizione o la compresenza del cielo e....
Fondando su questi valori il rapporto col mondo circostante, anche le istituzioni finanziarie assumono un’importanza relativa il che può produrre un modo di vivere parsimonioso e un culto dell’essenziale. E se la pianura si è trasformata in luogo del divertimenti e della ricerca dello svago fracassone, la collina e l’altura si sono fatte sempre più luoghi della riflessione e della ricerca dello spirito. Anche da questo punto di vista l’incrocio che proponiamo va nella direzione di un equilibrio tra interiorità ed esteriorità, tra riflessione e godimento pieno.
Infine, calata in questi paesaggi, la letteratura può impegnarsi nella semina di utopie eticamente fondate e civilmente orientate.

Insomma, questi luoghi vanno simbolicamente riscoperti perché tornino ad esistere grazie alla nostra attenzione e alla nostra scelta di adottarli come domicilio ideale se non fisico. Luoghi in cui possiamo incrociare una dimensione altra e incrociare le nostre stesse ombre come fossero l’altro di noi stessi. Luoghi in cui è possibile realizzare incroci tra passato e presente, in modo tale da generare qualcosa che somigli a un futuro remoto che da tempo non vede l’ora di venire alla luce.