di AJACCIO


Capitolo ottavo

...di AJACCIO
in cui descrivo la città imperiale, giustificando la sua superbia e non trascurando di elencare i principali napoleoni di bronzo e di marmo,

poi rendo omaggio al cardinale Fesch, primate delle Gallie e collezionista d'arte, e infine racconto la festa della Misericordia

Arrivo ad Ajaccio, la città di Corsica che ha più memoria nella mia mente e più sentimento nella mia memoria. Ajaccio, Ville Impériale, senza scherzo, città francese, senza finzione, Ajacciu Bellu, senza ironia. Condivido cosl bene le sue fisime che sono ca¬pace di ascoltare il suo inno bonapartista, la Ajacciemze, preferi¬bilmente cantato da Tino Rossi, tutto filato, senza riderne e quasi, quasi commuovendomi. E il sintomo più inquietante del mio mal di Corsica.
Già quando ci arrivai la prima volta, gli archivi dipartimentali erano alle Salines, un quartiere periferico sulla strada di Mezzavia. Dirigeva gli archivi il signor Lamotte, celebrato studioso di storia corsa e degno funzionario della Repubblica francese. Nonostante la lettera di presentazione di Renzo De Felice, fu impresa ardua spiegargli che un giornalista italiano, studente già da tempo fuori corso, si interessava senza altri scopi che scientifici alla vicenda degli autonomisti corsi nel periodo fra le due guerre. "Lei parla degli irredentisti," insisteva Lamotte. Io regolarmente replicavo che il partito si chiamava Partito corso autonomista. Era già un dibattito sui contenuti dello studio: un po' prematuro per me, un po' snervante forse per lui.
Ebbi in ogni modo le mie lunghe ore dilettura e di copia a mano dei documenti, le mie fotocopie, che poi si sarebbero perse e ritrovate e molto spesso raddoppiate nel disordine del mio modo di lavorare. Ebbi i miei incontri fortunati, a cominciare da quello con Dominique Orsoni, che non seppe resistere al primo felice impulso di scoprire chi fosse questo italiano che non si faceva i fatti suoi.
"Mi hanno detto che lei viene da Roma. E a Roma, giustamente, io dovrei andare nei prossimi giorni. Devo fare una ricerca per il Mémorial des Corses. Potrebbe, per azzardo, darmi qualche istruzione sull'università e le biblioteche?"
"Ma certo che si. Posso darle tutto l'aiuto che le occorre. E lei, prego, è di Ajaccio?"
Mi disse che in effetti lui era di Ajaccio, il padre era di Vero e la madre di Bocognano. li giorno dopo, o forse la sera stessa, ci davamo del tu e avevo già capito che gran parte degli abitanti della Corsica del Sud erano cugini di primo, secondo o terzo grado di Dominique.
Ogni tanto riprendo in mano le fotocopie e mi ritrovo a constatare quanto spesso siano qua e là illeggibili. Qualche volta me lo spiego con la naturale consumazione degli originali, qualche altra con difetti della macchina copiatrice, altre ancora non riesco a liberarmi dal sospetto che l'evanescenza di quelle parole, tanto spesso varianti dal grigio chiaro al chiarissimo, fino quasi al bianco, sia dovuta a quello che si chiama riserbo, virtù generale dei corsi e spiccato impegno forse di qualche addetto al servizio della fotocopia. Ci doveva essere fra quegli impiegati un qualche lontano pronipote di Sampiero Corso, non tanto deciso a giocare nella squadra dei Valois di Francia, quanta piuttosto convinto ch'io fossi parte d'una squadra avversaria. Sta di fatto che lo stesso Dominique anni e anni dopo mi ha confessato, ridendo, che aveva attaccato discorso quella mattina non solo per curiosità sua, ma anche perché era stato mandato in avanscoperta: si trattava di conoscere meglio chi fosse e che cosa cercasse quell'italiano.
L’aver cominciato dalle Salines, da una periferia, mi ha dato dall'inizio una visione e un uso policentrici di Ajaccio. Come dire che mi sembra una grande città e che mi ci muovo in automobile, diversamente che in qualsiasi altra città dell'isola. Negli anni ho spinto tanto oltre questa personale interpretazione da dedicarmi spesso nella stessa giornata a una fitta serie di trasferimenti da un parcheggio all'altro, magari distanti fra loro poche centinaia di metri. L’idea che Ajaccio sia grande probabilmente mi viene anche dal tempo che ho sempre impiegato ad attraversarla.
Ma l'idea vera è un'altra, è che Ajaccio e il suo golfo siano un po' la stessa cosa. Questo non corrisponde alla topografia, certo, ma al sentimento ajaccino credo di si. Sta di fatto che quando mi fermo nella Place Foch o Place des palmiers -si può chiamare nei due modi -sento di stare al centro della città e al vertice, al punto di arrivo, del golfo. Adesso è la geografia che potrebbe correggermi, ma tutto sommato di poco. E poi Ajaccio non è posto che si preoccupi di geografia e di precisione. È la città più volontaria e velleitaria che io conosca: gioca nel campionato dei centri dei mondo senza preoccuparsi minimamente della classifica.
Ajaccio è smisurata -questa è la verità- smisurata nella testa dei suoi abitanti, smisurata nell'orgoglio e nell'ambizione, smisurata anche, pero, nella grazia e nella simpatia, nel piacere della vita. E questo lo si capisce sempre restando fermi nel ristretto spazio di Place des palmiers: che si guardi verso il mare o verso la città o per aria, non fa differenza. Lì anche i monti dello sfondo sono un panorama cittadino e in tutta la Corsica non conosco un panorama cittadino più affascinante di questo.
So che se vado a sinistra mi imbatto prima o poi nella Casa Bonaparte e nella cattedrale. Vado diritto e comincio la collezione di Napoleoni, di marmo e di bronzo, soli e accompagnati. Ce n'è uno già sulla piazza, tutto sommato il migliore: è togato, da imperatore o forse console romano, e assieme a quattro leoni mansueti fa anche da fontana. Se continuo diritto, due, trecento metri più su, trovo un Napoleone di bronzo, a cavallo, accompagnato dai fratelli, a piedi, che sembra un gioco di scacchi, appoggiato in perfetto ordine sullo spigolo dei grande tavolo di Place du Diamant, in attesa di una partita che non si giocherà più. Ancora mezzo chilometro o forse quasi un chilometro, tutto in salita, faticoso a piedi -perché anche così Ajaccio è grande -alla fine del Cours Grandval, trovo il Casone con un altro Napoleone, quello verista, col suo cappello bicorno e la sua posa da ulcera, basso come dal vero, neanche soprammobile questo. Sarebbe una torta nuziale, se allo sposino qualcuno avesse pensato di mettere accanto la sua Maria Luigia o magari il primo, vero amore, Giuseppina.
Vista così, Ajaccio è una grande casa di provincia, la casa di una zia vecchia, probabilmente zitella, di quelle che hanno memoria solo per i passati remoti. Una dote non spesa deve averle consentito questo numero e questa varietà di stanze. Non è né antipatica, né scema, la vecchia zia. E perfino generosa, con nipoti sempre più lontani e distratti. Li ospita gentilmente, in qualsiasi stagione e senza preavviso. L'unico capriccio è che tutti siano altrettanto cortesi da far mostra di apprezzare appunto la parte apparentemente più superflua dell'arredo. Tutti quei napoleoni fermacarte, bocce di vetro pronte a far neve, brocche non per l'acqua, vasi non perfiori, bicchieri senzavino, calici non da messa, ricordi e basta, immobili e istantanei, perfetti nella loro inutilità. Mentre passeggiamo insieme, dopo il tradizionale appuntamento alle 11 davanti al municipio, chiedo a Dominique se gli sembrino troppo cattive le cattiverie che dico. Mi fa segno di no, ammette che in fondo è proprio così: io so pero che lui, Dominique Orsoni, è il nipote più affezionato alla vecchia zia zitella, quelllo rimasto a casa, fedelissimo, anche se avrebbe voglia qualche volta come gli altri di correre lontano. Quindi cerco di spiegargli che non sono cattiverie vere e gli faccio capire, anche senza parlare, che vado pazzo per le palle di vetro in cui nevica e per i carillon: trovarne une che suoni l'Ajaccienne.
"Tu ce l'hai?"
"No, ma forse si trova."

(...)