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Talianu

LA PROMESSA

Una nuvella esciuta ind'è Lumie di Sicilia, ottobre 2012

   Vince, proveniente da New York, era sbarcato a Fiumicino e per tre giorni aveva fatto il turista nella Capitale. Adesso era alla stazione Termini:destinazione Palermo e la Sicilia. Quattordici ore di viaggio lo attendevano in uno compartimento di sconosciuti, coi quali avrebbe chiacchierato e di cui sarebbe diventato amico di un giorno o una notte.

   Il treno era pieno: coppie, giovani e anziani, ragazzi soli, qualche studente universitario e qualche soldato che andava in licenza. La Freccia si mise in moto contemporaneamente alla lingua di Vince che, cominciando a raccontare, disse di tornare, per la prima volta dopo circa venticinque anni, dall’America di cui decantava, nel suo italo siciliano infarcito di termini yankee, le mirabilie, la straordinaria grandezza. Tutto era smisurato negli States: grattacieli, le street, che però là sono larghe, le automobili e le autostrade, gli stories, le immense distese dei campi…
   Vince era allegro, il più loquace: parlava dei figli, dei nipoti, della villa, del bisinìssi che aveva messo su e gli aveva fatto dimenticare le toppe al culo e le tribolazioni di gioventù. Il giovanottone accanto a lui continuava a leggere il giornale dal quale ogni tanto alzava lo sguardo verso i compagni di viaggio, quasi a rassicurarli che prestava attenzione ai loro discorsi.
- Your name? Di dove siete? – gli chiese Vince.
- Mi chiamo Giovanni e sono di Ferila. – rispose educatamente
l’uomo.
-…Giovanni e di Ferila…- fece Vince. – Torno dall’America per andare proprio lì.
   Si fece serio serio e abbassò la testa come schiacciato da un grave fardello. Riprese a parlare, questa volta con lo sguardo perso nel nulla. -…Giovanni e di Ferila…- continuò. – Avevo un amico che si chiamava così ed era proprio di quel paese. Per me è stato come un fratello maggiore e mi ha insegnato tante cose. Un vero teacher. Lavorava al mio paese e abitava a casa nostra: “stanza in famiglia” come si dice. Nella mattinata del sabato, rimessa a posto la stanza e sistemato il bagaglio, ritornava al suo paese dove l’attendeva la fidanzata, che avrebbe sposato qualche tempo dopo. Giovanni era un lavoratore instancabile ed era riuscito a farsi una posizione. Sabato e domenica a casa con la moglie, ma tutte le altre sere le dedicava a me. Quanto ha insistito perché prendessi il diploma! Prenditi un pezzo di carta, mi diceva,ti potrà tornare sempre utile. L’ho sfruttato a Nuova Iorka quel diploma, che mi ha facilitato l’inserimento e la carriera nel mondo del lavoro. Poi fu la guerra. Che invenzione diabolica! Come si può fare la guerra? Ovunque morte distruzione e lutto e alla fine perdono tutti. Solo macerie, fisiche e morali. Giovanni fu richiamato ed io ricevetti la cartolina. Partimmo assieme: prima Palermo, poi Napoli, infine il fronte.-
   Adesso Vince parlava ad intermittenza, come se commentasse le immagini di un film che aveva visto o ripensato più volte. La voce era più flebile.
- Ci mandarono in Albania da dove avremmo dovuto spezzare le reni alla Grecia, ad un popolo che non ci aveva fatto nulla ed era più povero di noi… Come hanno potuto Italiani e Tedeschi, così carichi di storia e noi soprattutto culla della civiltà, farsi irretire da due pazzi fanatici? Quanto può il lavaggio di cervello durante le dittature! Avremmo dovuto conquistare il mondo, sappiamo com’è finita! …Il rientro in Italia, attraverso la Yugoslavia, con i titini che ti sparavano addosso da ogni parte… che avventura! … E Dubrnovich, che noi chiamiamo Ragusa, che città!... L’8 settembre ci colse impreparati. Sbandammo. Giovanni ed io eravamo sempre assieme e non sapevamo cosa fare; di certo ne avevamo abbastanza di quell’assurda guerra. Entrammo nella Resistenza, sognando una patria italiana più libera, giusta e democratica. La vita in montagna era dura ma la fede nell’ideale diventava sempre più forte. Ci consolava la speranza; la generosità e la collaborazione della popolazione delle valli ci spronavano ad andare avanti fiduciosi. Un brutto giorno, però, mentre eravamo in perlustrazione, cademmo in un’imboscata. Giovanni venne colpito da due pallottole: una alla testa, l’altra al petto. Mi morì tra le braccia; ero disperato. Abbi cura di mia moglie, mi disse un istante prima di spirare, e del bambino che sta per nascere. Non li abbandonare… Prometti!. Promisi, ma ero inebetito, distrutto: era morto il mio secondo padre e con lui, forse, la speranza. Tempo dopo, mentre ero in un bar, fui catturato dai nazisti, che mi scambiarono per un contadino locale e mi avviarono a lavorare in una miniera austriaca. Quanta neve! Non ne avevo mai vista tanta in vita mia, nemmeno al cinematografo! E che cibo! Brodaglia, dove per trovare un fagiolo dovevi gettare la rete e …patate… sempre e solo patate, …quando c’erano! Non buttavamo nemmeno le bucce che mangiavamo la sera, lesse. Anche per le guardie lo stesso rancio. Quante ne ho sorprese a piangere sconsolatamente e a maledire la guerra... – Gli occhi di Vince sembrarono per un momento illuminarsi. - Un bel giorno - riprese – ci ritrovammo soli. I nemici erano spariti. Io e gli altri minatori soldati capimmo che la guerra era ormai agli sgoccioli e decidemmo di fuggire da quel posto che ci aveva succhiato la salute. Raggiungemmo, come Iddio volle, il Brennero. Scambiai i pochi marchi in lire con i soldati tedeschi che facevano il cammino inverso. Eravamo rientrati in Italia ma adesso, lacero e ammalato di stomaco com’ero, dovevo raggiungere la Sicilia. Impiegai quaranta giorni, attraversando la penisola a piedi, sui carri, qualche tratto in treno, camion, pullman e dormendo in cascine abbandonate, in fienili, sotto i ponti, sui marciapiedi delle stazioni, fidando sempre nell’ospitalità e nella generosità della gente per un tozzo di pane che, spesso, dovevo contendere ai randagi. Qualche volta, di notte, sloggiavo dai giacigli accompagnato dal lugubre suono delle schioppettate. Raggiunsi Falconara e quindi Napoli: quante macerie, quante case distrutte; com’era diversa dalla spensierata città che avevo visto alla partenza! E quanti soldati americani, negri. La gente era in festa come se si fosse destata da un lungo incubo; le strade piene e rese pittoresche da lenzuoli e biancheria che pendevano da un balcone all’altro e dai fili distesi da un capo all’altro delle vie. Con gli ultimi spiccioli mi concessi “una pizza napoletana”: gustosissima; almeno così mi parve. Arrivai a Palermo, anch’essa con i quartieri sventrati e poi, finalmente,il mio paese: a casa; era ora! Mia madre, poveretta, quando mi vide si mise a piangere e si portò le mani ai capelli: ero un cadavere ambulante. Chiesi di mio fratello: disperso in Russia! Papà? Morto di crepacuore. I miei coetanei: parecchi erano ufficialmente morti, di altri s’ignorava la sorte. Nei giorni seguenti fu un’incessante processione: quasi tutto il paese venne a farmi visita. Molti genitori, con voce afflitta, mi chiedevano dei loro figli chiamati alle armi come me. Cosa potevo dire se non una parola di conforto e invitarli a non disperare? Molti non sarebbero mai più tornati. Io ero stato fortunato. Ah, la guerra, la guerra! Si può essere così stupidi? A chi giova quest’orrendo massacro?– e mentre lo diceva sembrava volesse esorcizzare. – Un medico mi accennò, durante la convalescenza, alle atrocità dei campi di concentramento e di sterminio. Che barbarie! Incivili! Gli Italiani “razza pura” per legge! Trascorsero due anni prima che mi rimettessi in sesto e cominciassi a lavorare. Poco dopo mia madre raggiunse in cielo mio padre e moi fratello. Non avevo più nessuno in paese; vendetti casa ed emigrai in America.- Vince sembrò scuotersi. - E adesso torno per mantenere, anche se con molti anni di ritardo, la promessa fatta al mio amico in punto di morte. Chissà se lei e è ancora viva e chissà cosa fa il figlio?! – Si girò verso Giovanni e, quasi sollevato da quell’impegno che finalmente s’apprestava ad ottemperare: - Lei mi aiuterà a rintracciare queste persone,vero? – disse accorgendosi che il compagno di viaggio aveva gli occhi lucidi. - Perché piange? - chiese ancora. E Giovanni, alzandosi: - Perché il suo amico era mio padre! Io ne ho preso il nome. Mia madre, domani, l’accoglierà con affetto.- I due si abbracciarono commossi e
piangendo e si addormentarono mano nella mano.

                                                                   Eugenio Giannone