Ducumentu
Biennale di prosa - Finetta Guerrera

Sentimenti in saldo

Sicilia

Traduzzione da 

GUERRERA Finetta

“Favorisca in direzione, signora”. L’uomo le è comparso davanti improvvisamente e adesso la guarda con due occhi freddi che fanno paura.
“Io?… Ma perché?…” e Arcangela, smarrita, rotea gli occhi a destra e sinistra per vedere se qualcuno, nel grande magazzino, sta ascoltando ma nessuno si occupa di loro: la gente va per i fatti suoi, gira, guarda la merce esposta in saldo. Sollevano sciarpe per apprezzare la leggerezza, tastano golfini per sentire la qualità, chiedono un dopo barba, un dopo shampoo, un dopo tutto; qualcuno va alla cassa per pagare e porge la carta di credito a una commessa che sta lì nauseata come se tutta quella merce le facesse schifo.
Intanto, ad Arcangela, un sudore ghiacciato le scende dal collo e si perde nel rigonfio del petto. “Venga con me, per favore, e non faccia storie” adesso dice l’uomo in un sussurro vicino al suo orecchio e la prende per un braccio con dita d’acciaio che affondano nella carne morbida e sembrano uncini da quanto sono dure. Intorno le piccole luci del soffitto e le scritte luminose è come se si fossero moltiplicate e lampeggiassero a intermittenza come quelle dei pompieri, dell’ambulanza, del pronto intervento. I banchi di cristallo, con tutta quell’esagerazione di merce esposta, slittano e si allontanano veloci come se fossero su ruote e mille mani li spingessero contro le pareti.
Le clienti, adesso - mentre l’uomo costringe Arcangela a camminare verso il fondo senza accorgersi che le gambe le stanno diventando enormi, pesantissime, da non poterle più sollevare: gambe di pietra, gambe da elefante - hanno smesso di provare collane allo specchio, di scegliere frivolezze come profumi, bagnoschiuma e rossetti e si sono voltate: anche gli uomini, dall’altro reparto, in punta di piedi si sono avvicinati e adesso stanno raccolti tutti lì in un gruppo silenzioso con gli occhi fissi su di lei per non perdersi niente di cosa le succede.
“Venga, signora, da questa parte, prego” dice l’uomo con una gentilezza che mette paura, mentre apre una porticina che lei non ha mai notato in tanti anni che viene a La Rinascente, e la spinge dentro. Passano da una stanzetta piccola ad una grande dove c’è un tavolo bianco, delle sedie, un computer acceso in un angolo e una ragazza in camice bianco che scrive e neanche si volta quando loro entrano.
L’uomo gira intorno alla scrivania, si siede e rimane a guardarla. Lei resta in piedi perché le gambe sono diventate un unico blocco rigido e perché tutto le si allontana e si avvicina spaventosamente come se fosse su un otto volante senza poter scendere: così lancia sguardi da uccello a tutti i lati della stanza ma senza vedere niente, solo che al centro quell’uomo la guarda e lei pure non può fare a meno di guardarlo.
“Apra la borsa, per favore”. La voce, col rumore che fa l’otto volante, le arriva da una distanza infinita, e rimbalza nella testa di Arcangela senza che lei ne capisca bene il significato. Sente, sì, che dice apra la borsa, apra la borsa, apra la borsa. Ma Arcangela non può, anche se volesse, aprirla: le dita si sono serrate proprio lì, sulla chiusura, e fanno corpo unico con il pulsante a scatto e con la stessa pancia in tumulto contro cui lei stringe la borsa di vitello marrone. Perciò non si muove e guarda l’uomo fisso negli occhi, senza una parola. La ragazza che prima scriveva adesso ha smesso, si è girata sulla seggiolina e guarda interrogativamente sia lei che l’uomo. Poi, ad un cenno di lui, si alza e dice: “La dia a me, signora” e intanto fa un gesto ed ecco che la morsa sudata delle dita di Arcangela si allenta e la borsa docilmente si lascia prendere da quella ragazza carina, con i capelli corti corti come una bambina. Arcangela fa un sospirone, adesso che è riuscita ad obbedire: è stata brava, fra poco se ne va, esce da quella stanza bianca come d’ospedale e rientra fra le luci colorate del reparto. E poi fuori, nella strada animata e a casa, finalmente. Ma l’uomo adesso sta dicendo: “Si segga, per favore”. E lei, sempre guardandolo fisso, automaticamente si siede.
Lui ha aperto la borsa, ha guardato dentro e ha tirato fuori, in mezzo alle altre cose, una sciarpetta di finta seta ma carina, rosa pallido con le punte tutte ricamate da paillettes. Una cosina elegante da mettere per un’occasione che potrebbe essere un compleanno, una festicciola. L’uomo la prende per un lembo come se gli facesse schifo, la alza per quanto è lunga e dice:
“E questa, signora, l’ha pagata?” Arcangela vorrebbe dire di no, che non l’ha pagata, che non ha fatto in tempo a pagarla, che la vorrebbe pagare, che certamente sicuramente la pagherà, ma c’è quella gran confusione che rimbomba nella sua testa per cui le parole si attorcigliano insieme ai pensieri e – pagata, non pagata, pagata – non sa più neanche che cosa significhino.
“Sì – ma non è lei che parla con quella voce infantile, non può essere la sua – certo che è pagata, io pago sempre tutto. Ho sempre pagato tutto”.
“Lei però non ha da mostrarmi lo scontrino, vero?” dice sorridendo quell’uomo con la bocca che sembra un taglio orribile, una ferita infetta. Arcangela fissa ipnotizzata quel taglio che una volta era una boccuccia tenera di bambino e ora è un’antro che la vuole inghiottire.
“E se non ha lo scontrino, che è la prova dell’avvenuto pagamento, vuol dire, mia cara signora, che lei non ha pagato e quindi è - mi scusi, sa – una ladra. E, in tal caso, lo sa cosa facciamo noi, di regola? Noi la mandiamo dritta dritta dalla polizia che vedrà il da farsi”.
Arcangela vorrebbe parlare, spiegare tante cose che con la sciarpetta di seta sembra che non c’entrino però c’entrano moltissimo. Ma come può fare? Ha la bocca asciutta, le labbra screpolate - e sì che si era messa abbastanza rossetto prima di uscire – e strisciando con la lingua sul palato secco, sente chissà perché, un sapore di terra.
Così resta lì, inebetita perché moltissime cose da dire si affollano sulla sua bocca e si tolgono il posto l’un l’altra e lei non riesce a metterle in ordine e sapere cos’è meglio dire prima e come dirlo. Tace confusa guardando per terra, e allora l’uomo si alza e dice, severo: “Un momento, riferisco al direttore”. E scompare, con la sciarpetta rosa.
Oddìo, c’è anche un direttore! Anche lui chiederà notizie dello scontrino! Che vorranno sapere? Che vorranno fare? Vogliono chiamare la polizia? Stanno già telefonando. Hanno telefonato. Fra poco la polizia arriverà, con quelle macchine ci mettono un niente. Ladra, diranno. E allora? A questo punto le ipotesi finiscono in un grumo di paura. Si asciuga con la mano i rivoli di sudore gelato che le scendono dalla fronte. Si alza, si siede di nuovo, si alza ancora. Vorrebbe piangere ma neanche questo le riesce. Eppure deve stare calma, calmissima. Così potrà spiegare tutto, per bene e con ordine, al direttore, quando sarà chiamata.
“Vede, signor direttore, questa sciarpetta rosa con tutto quel luccichio che fa, io non la dovevo prendere. E sa perché? Perché non mi serve. E quando una cosa non serve, si sa, è inutile comprarla. Invece l’ho presa e adesso le spiego perché. Certo che lo so, che la dovevo pagare. Ma vede – no, mi ascolti, mi ascolti, per favore – se io l’avessi pagata non sarebbe stata la stessa cosa. Perché? Adesso glielo dico, se lei ha la bontà. Io, signor direttore, non ho avuto una vita facile. Anzi difficile, difficilissima. Deve sapere, non voglio annoiarla con tutti i particolari, ma quello che ho cercato di fare nella mia vita è stato sempre distrutto. Appena realizzavo qualcosa, zac, si sfasciava. Niente, le dico, niente. Che c’entra, tutto questo? C’entra, c’entra, se mi lascia parlare un momento: ecco, guardi, figlia unica, non sa come i miei mi tenevano, come una bambolina di porcellana! No, non rida, non mi guardi così, lo so che adesso sono grassa e brutta. Ma prima, signor direttore, un fiore ero, con una pelle e degli occhi e un personale che si giravano tutti! No, no, non divago, lo so che non ha tempo da perdere. Ma volevo dirle, insomma, che avevo tanti corteggiatori. Basta, mi decido per uno e mi sposo. Nascono due bambini, un maschio e poi una femmina, il colmo della felicità. Ma – ecco che cominciano i miei guai - non gli va a venire, al più grande che aveva cinque anni, un brutto male e se ne va nel giro di tre mesi? Uno strazio, direttore che…Sì, sì, abbrevio, abbrevio, lo capisco, certo, mi scusi anzi. Insomma, dopo qualche anno ancora, succede che mio marito perde la testa per una di fuori, non mi dà più un soldo, sparisce giorno e notte e infine se ne va definitivamente. Non ne ho più saputo nulla. Dice che c’entra con la sciarpetta? Un attimo, se ha la pazienza ci arrivo. Basta, che dovevo fare? Mi trovano un lavoro in una fabbrica di pantaloni vicino a Caltanissetta e ci vado. La bambina la lasciavo da mia madre tutto il giorno e me la riprendevo la sera. Insomma, lì conosco un operaio che mi sembrò affezionato anche alla bambina e così ci mettemmo a vivere insieme. Ma non fu una buona idea: per farla breve, botte e calci tutti i giorni. Ma che dovevo fare? Lo lasciavo per mettermi sopra la bocca di tutti? E sopportavo. Non è d’accordo, direttore? Lo so che adesso la gente si lascia e si piglia senza farci caso, ma trent’anni fa, signor direttore e in una città come Caltanissetta, sa, le cose non erano tanto facili. Insomma, mentre in casa avevo tutti questi guai, senza mai una parola buona, senza mai un complimento, che so, una carezza, non mi capita che la fabbrica si chiude e ci buttano fuori? Un attimo, un attimo, signor direttore, mi lasci finire, ormai. Perciò senza lavoro, senza soldi e con un altro figlio in arrivo. Basta, lascio perdere tante altre cose, anche se ne avrei da raccontare fino a domani. Per farla breve, mio marito – questo che non era marito, via, il secondo – gli prende un ictus e mi resta paralizzato per metà. E io a servirlo, mentre lui m’insultava con quella mezza bocca che poteva muovere e quando mi avvicinavo per servirlo – anche a mettergli la pala, signorsì - se ce la faceva, col lato buono, mi dava una manata. Viene il momento che chiude gli occhi, che Dio l’abbia in gloria: a me mi ha fatto solo soffrire e basta. Resto sola. Come dice? Che avevo due figli? Si, certo che li avevo. Ma ascolti. Loro crescono bravi, per carità, rispettosi. Ma la ragazza non si va ad innamorare di uno emigrato a Torino, venuto qui per le ferie e se lo sposa? Si può dire che la vedo una volta l’anno. Il maschio se n’è andato in Germania e, quando va bene, d’estate viene per un mese. Tutti e due hanno case piccole, figli piccoli: basta, a me non mi ci vogliono. Mi mandano qualcosa ogni mese e via. Tutta qui la mia vita, signor direttore, pugni e calci prima e solitudine dopo. Solitudine tremenda signor direttore, tremenda. Non c’entra niente tutto questo, lei dice, con il fatto della sciarpetta? Lei non vede il nesso? Ascolti, allora, ma mi meraviglio di lei così intelligente, scusi tanto, sa. Quando io vengo qui a La Rinascente lasciando la mia casa che a volte mi pare più che una casa una prigione, dove sono sempre sola e sempre zitta, perché con chi devo parlare? Quando vengo qui, dicevo – e vengo sempre – mi sembra di entrare in un altro mondo: mi sembra, per quell’ora che passo qui, di essere come tutti gli altri, come le signore eleganti che vengono a comprare belle cose e poi tornano contente a casa dove le aspetta la loro famiglia, con il marito e i figli. Vedo la loro casa illuminata, mi immagino una tavola ben apparecchiata con tutti loro intorno. Ha capito, adesso, signor direttore? Qui io giro fra i banchi come tutti gli altri, quelli più fortunati: guardo, tocco anch’io le stoffe morbide, mi provo un rossetto che così mi resta, mi faccio spruzzare come loro un poco di profumo. Come dice? Che sono stupidaggini, puerilità? Può darsi, può darsi. Ma che ci vuole fare? Altri svaghi non me ne posso permettere. Ma a me questo basta e avanza. No, non ho finito, non si alzi, un attimo ancora di bontà. Le spiego della sciarpetta e perché non l’ho pagata. Vede, signor direttore, a me la sciarpetta non poteva servire, perché non c’è nessuno che mi inviti da nessuna parte. Non ho occasioni eleganti, mai. Proprio per questo l’ho presa. Rappresenta il desiderio di quelle cose che non ho e non ho avuto mai. Portandomela a casa io mi portavo l’idea di una festa speciale, che so, un ricevimento, una serata in cui l’avrei potuta mettere, sopra un tailleurino elegante, appuntata con uno spillo. Cose da favola, signor direttore, cose per sognare, tornando a casa a piedi. Lei mi chiede perché non l’ho pagata? Ma direttore, che domande mi fa? No, non per i soldi: l’ha detto lei stesso che è sintetica e perciò costa poco. Volendo, ci potevo arrivare. Ma non l’ho pagata perché, egregio direttore, volevo avere qualcosa senza doverla pagare, qualcosa gratis, come se fosse un regalo. Uno di quei regali che la vita non mi ha fatto. Come? Lei dice che in questo caso io volevo un regalo da lei, che non c’entra per niente? Può darsi, sì. Si potrebbe anche dire così. Ma, anche se fosse, che ci troverebbe di male?”